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Didattica > Strumenti > Scrittori religiosi del Trecento > Testi, 4 (1/4)

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Scrittori religiosi del Trecento

di Giorgio Petrocchi

© 1974 – Giorgio Petrocchi


Testi

4. Caterina da Siena (1/4)

Caterina Benincasa nacque a Siena il 25 marzo 1347, penultima dei venticinque figli di Jacopo, tintore nel rione di Fontebranda, e di Lapa di Puccio Piagenti; all'età di sette anni ebbe la sua prima visione, e sulla via della religione venne ben presto avviata da fra Tommaso della Fonte. La morte della sorella Bonaventura (1362) accentuò la vocazione ascetica di Caterina, che, vincendo le resistenze dei suoi, ottenne (1363) di entrare nell'ordine delle Mantellate domenicane, e attese ad opere di misericordia nell'ospedale della Scala a Siena, nel lebbrosario di San Lazzaro e nelle case dei vicini. Ben presto la fama della sua eccezionale vita ascetica e del suo ardore apostolare, divulgatasi anche fuori di Toscana, chiamò attorno a Caterina una schiera di anime devote che come Caterina desideravano una profonda riforma delle istituzioni cattoliche e la pace tra le fazioni politiche in lotta. L'influenza della giovine senese divenne enorme, pur restando essa nella cella della casa di Fontebranda, e a lei si rivolgevano anime inquiete d'ogni parte d'Italia; con lei pregarono per il ritorno della sede papale a Roma, sperarono allorché Urbano V venne a Roma (1367) e provarono amara disillusione quando il papa fece ritorno ad Avignone (1370). Alla vigilia di tale partenza Caterina ebbe una visione, nella quale Dio le comandava di divenire messaggera di pace tra gli uomini, di porsi a capo di una nuova Crociata e di lottare per la riforma della Chiesa.

Caterina venne chiamata a Firenze, in Santa Maria Novella (1374), e le fu affidato come direttore spirituale fra Raimondo da Capua, il quale doveva attendere con la Santa alla organizzazione della Crociata; Caterina fu a Pisa, poi a Lucca, dove riuscì a evitare che questa repubblica entrasse nella Lega contro il papa, di nuovo a Pisa (1375), dove ricevette le stimmate, e infine ad Avignone (1376), quale ambasciatore di Firenze per ottenere la pace tra la repubblica fiorentina e il papa. La missione politica fallisce, in gran parte per colpa dei fiorentini, ma Caterina porta a termine un'ambasceria ben più importante: quella di persuadere Gregario XI a restituire a Roma la sede papale; e il ritorno di Gregario (17 gennaio 1377) è salutato in tutta Italia come una sua grande vittoria. Continuano le missioni di pacificatrice; nel 1377 tra i Salimbeni e Siena, poi tra le fazioni fiorentine (nel tumulto dei Ciompi corre pericolo di vita), ottenendo infine la pace tra Firenze e Roma (1378). Ma un'altra guerra si accende, non sui campi di battaglia, ma all'interno delle gerarchie cattoliche, in conseguenza del conclave succeduto alla morte di Gregario XI e conclusosi con la elezione di Urbano VI. Caterina si batte coraggiosamente contro lo scisma; invitata dal nuovo papa a Roma (1378), vi organizza un cenacolo di spiriti eletti e invia caldissime lettere d'esortazione a restare fedeli al papato: scrive a Giovanna II regina di Napoli, ai cardinali italiani, a quelli francesi; interviene di persona nel concistoro. Muore il 29 aprile del 1380.


Dalle «Lettere» [1]

A SANO DI MACO IN SIENA [LXIX]

Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.


Dilettissimo e carissimo fratello in Cristo dolce Gesù. Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedere in voi quella virtù della santa fede e perseveranzia, che fu nella Cananea; però ch'ella l'ebbe tanto forte, che ella meritò che 'l dimonio fosse cacciato da dosso della figliuola sua. E più ancora, che, volendo Dio manifestare quanto gli piaceva la fede sua, volle rimettere l'autorità in lei, dicendo: «Sia fatto alla figliuola tua siccome tu vuoi». O gloriosa e eccellentissima virtù, tu se' colei che manifesti il fuoco della divina Carità, quand'è nell'anima: però che l'uomo non ha mai fede né speranza se non in quello ch'egli ama. Di queste virtù l'una tiene dietro l'altra; però che amore non è senza fede, né fede senza speranza. Queste sono tre colonne che mantengono la ròcca dell'anima nostra sì e per siffatto modo che neuno vento di tentazione, né parole ingiuriose, né lusinghe di creature, né amore terreno, né di sposa né di figliuoli, il può dare a terra: ma in tutte queste cose sarà fortificato da queste vere colonne. Allora faremo come questa Cananea: che, vedendo passare Cristo per l'anima nostra; per santo e vero desiderio vollerenci a lui con vera contrizione e dispiacimento del peccato, e diremo: «Signore, libera la figliuola mia, cioè l'anima mia; però che il dimonio la molesta con le molte tentazioni e disordinati pensieri». E se noi persevereremo, e terremo ferma la volontà, che non consenta né s'inchini a veruna cosa amare fuori di Dio, umiliandoci e reputandoci indegni della pace e della quiete; e con fede aspetteremo, e con pazienzia, e speranza per Cristo crocifisso di portare ogni cosa, diremo con santo Paolo: «Ogni cosa posso, non per me, ma per Cristo crocifisso ch'è in me, che mi conforta». E allora udiremo quella dolce voce: «Sia sanata la figliuola tua, cioè l'anima tua, secondo che tu vuoli».

Qui manifesta la smisurata bontà di Dio il tesoro che egli ha dato nell'anima, del proprio e libero arbitrio, che né dimonio né creatura il può costringere a uno peccato mortale, se egli non vuole. O carissimo figliuolo in Cristo Gesù, ragguardate con fede e vera perseveranza; che, insino alla morte, queste parole sono dette a noi. Sappiate, che come l'uomo è creato da Dio, gli sono dette queste parole: «Sia fatto come tu vuoli». Cioè: «Ti fo libero, che tu non sia soggetto a veruna cosa, se non a me». Oh inestimabile e dolcissimo fuoco d'amore, tu mostri e manifesti la eccellenzia della creatura: che ogni cosa hai creata perché serva alla tua creatura ragionevole, e la creatura hai fatta perché serva te.

Ma noi miseri e miserabili andiamo ad amare il mondo colle pompe e diletti suoi; per lo quale amore l'anima perde la signoria, e è fatta serva e schiava del peccato. Onde questo tale ha preso per signore il dimonio. Oh quanto è pericolosa la signoria sua! Perocché sempre cerca e tratta la morte dell'uomo. Onde non mi pare che sia da servire siffatto signore: ma voglio che noi siamo di quelle anime innamorate di Dio; ragguardando sempre, noi essere schiavi ricomperati del sangue dell'Agnello.

Lo schiavo non si può vendere, né ad altro signore servire. Noi siamo comperati non d'oro né di dolcezza d'amore solo, ma di sangue. Scoppino i cuori e le anime nostre d'amore, levinsi con sollecitudine a servire e temere il dolce e buono Gesù, ragguardando che egli ci ha tratti di prigione e della servitudine del dimonio che ci possedeva come suoi; e egli entrò in ricolta e pagatore, e stracciò la carta della obbligazione. E quando entrò in ricolta? Quando si fece servo, prendendo la nostra umanità. Oimè, non bastava a noi se non avesse pagato il debito fatto per noi? e quando si pagò? In sul legno della santissima croce, dando la vita per renderci la vita della Grazia, la quale noi perdemmo. Oh inestimabile dolcissima Carità, tu hai rotta la carta ch'era fra l'uomo e 'l dimonio, stracciandola in sul legno della santissima croce. La carta non è fatta d'altro che d'Agnello: e questo è quello Agnello immacolato, il quale ci ha scritto in sé medesimo; ma stracciò questa carta. Confortinsi adunque l'anime nostre, poiché siamo scritti, e la carta è rotta, che non ci può più addimandare l'avversario e contrario nostro. Or corriamo, figliuolo dolcissimo, con santo e vero desiderio, abbracciando le virtù colla memoria del dolce Agnello svenato con tanto ardentissimo amore. Non dico più.

Sappiate che in questa vita noi non possiamo avere altro che delle molliche che caggiono della mensa, siccome questa Cananea dimanda. Le molliche sono la Grazia che riceviamo; e caggiono della mensa del Signore. Ma quando noi saremo nella vita durabile, dove noi gusteremo Dio e vedrenlo a faccia a faccia; allora averemo delle vivande della mensa. Adunque non schifate mai labore. Io vi manderò delle molliccie e delle vivande, come a figliuolo. E voi combattete virilmente. Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio. Gesù dolce, Gesù amore.


[1] Dall'ed. a cura di N. TOMMASEO, Firenze, Barbera, 1860, pp. 41-45, 242-251, 159-162, 231-236, 393-399, 5-12, 83-87.

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UpUltimo aggiornamento: 10/12/06