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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


2. La crisi del secolo XIV

2. La portata e la durata della crisi

a) LA TEORIA DELLA CATASTROFE. Fra i sostnitori di questa visione pessimistica si segnala per la vivacità e l’effìcacia Roberto Lopez. Ecco la sua impostazione: «Alla flne del XV secolo il bilancio di esercizio, che deve ovviamente consistere sia di voci attive sia di passive, mostra globalmente una recessione, un progresso o una staticità a paragone del bilancio dei primi anni del XIV secolo? In cifre assolute vogliamo sapere se la massa totale della produzione e dei commerci sia cresciuta o diminuita di grandezza, e se la distribuzione della ricchezza tra gli individui e le classi abbia subito mutamenti significativi. In cifre relative, anche se noi ammettessimo che l'ascesa inconfutabile del XIII secolo fu ripresa dopo l'altrettanto inconfutabile arresto occorso nel XV, vogliamo verificare se il tasso d’ascesa sia stato nel secolo XV così alto da uguagliare le vette precedenti». Rispondere a questi interrogativi non è stato facile, perché ha incontrato le difficoltà che gli storici conoscono (anche se talvolta ci passano sopra con disinvoltura) dovute alla scarsità, parlando in assoluto, della documentazione, che talvolta manca del tutto, e al fatto che quella documentazione, parlando in senso relativo, è diversa per quantità e per qualità e quindi non consente, col rigore che sarebbe necessario, di stabilire confronti fra vari paesi, le cui vicende economiche non procedettero né in parallelo né in sincronia. Entrando in gioco i diversi mezzi per la elaborazione di quei dati, è facile prevedere che non si troverà mai un accordo sulla formazione delle statistiche e sulla loro interpretazione, e che quindi le «vivaci discussioni» continueranno sine fine, anche se ci si limiti a parlare globalmente di «tendenze». II Lopez ha affrontato i problemi della popolazione, dei capitali, della produzione, dei commerci.

Non mi soffermerò sul primo sul quale, come si è visto, c'è un accordo almeno sulle linee generali – ripeto, dopo un sicuro e notevole calo alla metà del Trecento (il Lopez lo ritiene globalmente del 40%) la ripresa si ebbe nel tardo Cinquecento – e, nella impossibilità di conoscere i redditi pro capite, diremo soltanto che si accentuò il fenomeno della miseria, o meglio si fece più evidente per il contrasto con la formazione di alcune fortune di classi, in quanto una vera abbondanza non si era avuta neppure quando l'avanzare dell'insieme dell'economia era un fatto non posto in discussione. A questo proposito l'A. riporta questi versi popolani della fine del Trecento: «II ricco ha i forzieri colmi, il povero ha vuoti / stomaco e pancia. È troppo! / …Il popolo afferra ogni sorta di armi, temerario / ogni fila spinta innanzi dalla fila che dietro preme, / con furia assalgono le case dei ricchi: / Vogliamo mangiare con loro prima di morire / o moriremo sul ciglio di una strada. / Viviamo con grandezza e poi moriremo anche noi». Non è una statistica, e c'è una esagerazione nel parlare della ricchezza; ma fa prova, di certo, che il numero dei poveri cresceva (il che riconoscono anche i sostenitori della tesi della continuità, ma portandosi nel secolo XVI). Né, aggiunge l’A., si pensi, come vuole C. Cipolla per l'Italia, che l'eventuale declino delle manifatture e dei commerci sia stato compensato dai maggiori proventi dell'agricoltura: il Cipolla ha esteso arbitrariamente a tutta la Penisola ciò che ha trovato in una breve zona attorno a Pavia, per la quale inoltre non sarebbe stato legittimo parlare di progresso agricolo mancando i dati per i secoli precedenti.

Quanto ai capitali, che si desumono in buona parte dalla produzione e dai traffici, il Lopez mette in guardia da due pericoli: quello della documentazione, la quale fattasi più nutrita via via col volgere del tempo, può indurre a credere per questo solo fatto che precedentemente, allorquando è più scarsa, le cose andassero peggio; quello del non tener conto della svalutazione della moneta, per cui non è lecito accostare semplici valori numerici di anni distanti tra loro. Ed eccoci a ciò che più direttamente riguarda il nostro studio, al commercio internazionale. Il Lopez, dopo aver studiato il movimento in due porti inglesi, a Dieppe, a Marsilia e a Genova, conclude che «il volume pro capite del commercio internazionale subì una sostanziale contrazione (del 70%) durante i primi settanta anni del Quattrocento. Inoltre sembra evidente che il declino coinvolse tutta l'Europa occidentale, perché  è estremamente improbabile che quattro regioni economiche importantissime, due del nord e due del sud, abbiano potuto attraversare una depressione così profonda senza coinvolgere gli altri porti del mondo».


b) LA TEORIA DELLA CONTINUITÀ. Le conclusioni del Lopez sono state attaccate soprattutto perché avrebbe centrato troppo l'attenzione sulla manifattura dei panni di lana, fondamentale nel passato e  di grande  importanza anche in seguito. Particolarmente, per esempio, ha posto l'accento su «la catastrofica riduzione della produzione fiorentina, all'incirca 50.000 pezze fra il 1338 e il 1378, che è sufficiente quasi ad annullare l'espansione di quella inglese (che nel 1392 fu di 43.000 pezze). E quando poi – continua – questo si aggiunse alla riduzione vista or ora a Marsilia e a Ypres nell’esportazione inglese di lana grezza, cumulativamente la contrazione supera di gran lunga l’aumento inglese; mentre cifre relative a un periodo posteriore invalidano la tesi secondo la quale Firenze avrebbe avuto una successiva ripresa. Alla fine del secolo XVI venivano prodotte soltanto 14.000 pezze, e nel 1627 questa cifra era scesa 8000». Ma la contrazione della industria tessile laniera, anche se fosse avvenuta nella misura indicata, non sarebbe bastata da sola a parlare di depressione economica dell’Europa dalla seconda metà del Trecento fin quasi alla fine del Quattrocento.

Qui hanno buon gioco i sostenitori della teoria della continuità i quali ammettono soltanto una breve crisi a cui ben presto si sarebbe sostituita la ripresa a riguadagnare le posizioni perdute, e poi a spingersi oltre. Perché, domanda Carlo Cipolla, il Lopez ha ignorato – rimanendo nel campo tessile – il farsi avanti della lavorazione della seta a cui si era atteso fino dal Dugento e che ebbe un incremento senza soste fino a raggiungere i fastigi del secolo XVI? E perché non ha tenuto conto dei tessuti di cotone e di lino sempre più richiesti dalla classe media di cui migliorava il tenore di vita? (dicendo più addietro delle merci del commercio internazionale si è visto infatti che la produzione dei fustagni, prima italiana, passò le Alpi e fu intensa particolarmente nella Germania meridionale). E non è forse vero, qui parla con maggiore ampiezza di particolari Gino Luzzatto, che via via crescono o si potenziano nuove industrie, quelle di lusso come le vetrerie e l'oreficeria, caratteristiche in Italia, quelle minerarie, in molte contrade dell'Europa, e quelle della fabbricazione delle armi e così via?

In realtà tutto questo intensificarsi appare chiarissimo soprattutto nel corso del secolo XVI; ma non è detto che nel secolo XV non sia valso a compensate la eventuale contrazione nel settore dei tessuti di lana, e, nel quadro generale dell'economia europea, non abbia consentito un certo superamento. Infine, anche per ciò che riguarda la produzione di quei tessuti (per questo ho parlato di contrazione eventuale), perché fermarsi ai pochi grandi centri urbani, i colossi che avevano perso sicuramente il predominio sino ad allora goduto? Se si ragiona in termini globali, come qui appunto si fa, anche in questo settore non è detto che si sia avuta una diminuzione di quantità. È noto infatti, e si tratta di un fenomeno generale in tutta Europa, che quelle manifatture presero a spostarsi dalle città nei loro contadi e nei loro distretti dove si crearono più aziende di varie dimensioni, nelle quali si lavorava a costi più bassi; e intanto si affermava la figura del mercante imprenditore. Si sarà trattato sì di prodotti meno fini, ma avevano maggior possibilità di assorbimento. E i mercanti puntavano appunto sulla quantità delle operazioni da cui traevano profitti superiori, nell'insieme, a quelli già ricavati trattando prevalentemente merci di gran pregio: che peraltro non abbandonavano perché ancora richieste dai vecchi clienti a cui si aggiungevano dei nuovi per il crescere del lusso presso le classi medie. Naturalmente con questo frazionamento delle imprese tessili il problema del reperimento delle fonti con dati quantitativi si fa più grosso, e – lo dissi e lo ripeto – la polemica fra i due «partiti» troverà continuo alimento per protrarsi.


c) LA SITUAZIONE IN ITALIA. Se dal 1100 fino alla prima metà del 1300 l'Italia distanziò il resto dell'Europa, dal momento della crisi rientra nel quadro generale dell'Europa.

Nel Quattrocento e nel Cinquecento, fatto di rilievo fu  l'adattamento del mercante italiano a situazioni diverse da quelle del passato, prima favorevoli e ora sfavorevoli, senza che l'economia nel suo insieme risentisse danni, ma covando i germi dell'intima debolezza mascherata dallo splendore delle arti e dal brillante tenore di vita di alcune classi sociali, fino a che le grandi città della Penisola raggiunsero i prestigiosi fastigi del pieno Rinascimento: ultimo guizzo di una fiamma che, alimentata sempre più artificiosamente, era destinata a spengersi nel primo trentennio del Seicento.

La prima circostanza sfavorevole era l'affermazione in alcune zone dell'Europa – segnatamente la Francia e l'Inghilterra nelle quali i nostri mercanti tanto avevano attinto delle loro fortune e di quelle dei loro Comuni – del potere monarchico che della forza politica si serviva come strumento per quella economica, a sua volta puntello dell'altra. Soltanto, infatti, con la formazione dei capitali nell'ambito della nazione i sovrani si sarebbero svincolati dal dover ricorrere ai capitali stranieri; e quindi ecco la sollecitazione e l'appoggio alle industrie, premessa allo sviluppo dei commerci, che era la lontana impostazione della politica economica detta del mercantilismo culminata negli anni di Colbert. In Francia Luigi XI (1461-1483) attiva le miniere e acclimata il baco da seta preparando la vittoria di Lione sulla seteria italiana. In Inghilterra già nel secolo XIV Edoardo III sollecita la produzione dei panni, chiamando come maestri gli esperti tessitori fiamminghi e facendo il primo tentativo di vietare l'esportazione della lana grezza e la importazione della lavorata; al principio del XV i «mercanti avventurieri», riconosciuti in associazione dalla Corona, monopolizzano la esportazione dei tessuti nazionali; Enrico V (1413-1422) imposta, con il creare una flotta militare a sostegno di quella commerciale, la politica del dominio dei mari

Che cosa erano, di fronte agli stati nazionali, i piccoli Comuni italiani? L'Italia, la quale nel secolo XII era stata all'avanguardia del processo verso il regime delle città in sostituzione di quello del feudalesimo, nei confronti della tendenza del secolo XIV alla formazione degli stati unitari era rimasta a mezza strada, pervenendo alle signorie, tutt'al più regionali e in lotta fra loro, e deboli perché in esse alla fierezza del cittadino comunale si sostituiva l'indifferenza del suddito del principe. Comunque ai mercanti della Penisola non si chiusero i vecchi centri di mercato né i nuovi che via via si vennero creando, e li troveremo ad Anversa numerosi come erano stati a Bruges, accettati per la loro superiorità tecnica negli affari e per la loro capacità di iniziativa. Ad Anversa, attorno alla metà del Cinquecento, Genovesi, Fiorentini e Lucchesi riuniti in colonie superavano numericamente gli Spagnoli e rimanevano al di sotto soltanto dei mercanti inglesi. Nel sesto decennio del Cinquecento in quel grande centro commerciale e finanziario si trattavano a detta del Guicciardini stoffe per sedici milioni di scudi d'oro, dei quali cinque milioni erano il valore dei panni inglesi e tre milioni di quelli italiani. Però i mercanti italiani non erano più nelle condizioni di dominatori, ché il monopolio sfuggiva a loro di mano, e dovevano affrontare una sempre più dura concorrenza da parte degli operatori economici stranieri.

Un'altra circostanza sfavorevole era l'avanzare dei Turchi, che minacciavano ognor più soprattutto Venezia e via via le toglievano i punti di appoggio nel Mediterraneo e nel Mar Nero dove colpivano anche Genova. Ma Venezia reagiva, e a tratti si riapriva la via – si ricordi la battaglia di Lepanto del 1571 risoltasi con lannientamento della flotta turca – mentre la rivale Firenze si accostava nei momenti più difficili agli infedeli con i quaIi concludeva anche trattati di commercio. D'altronde, Venezia si era assicurata dalla fine del Trecento la vita con la «politica della Terraferma» dove impostava e dava sviluppo alle industrie tessili, e intanto volgeva a suo profitto l'avanzata economica della bassa Germania – ascesa di Augusta, Monaco, Norimberga, Ratisbona, Ulma. Ricostruito nel Cinquecento, dopo un incendio che lo aveva distrutto, il «Fondaco dei Tedeschi», attraverso ai valichi alpini affluivano al grande emporio della laguna soprattutto panni e metalli che da là le navi veneziane portavano in più direzioni, a volte fino alla Siria e oltre. È vero che il nobile mercante di San Marco costruiva palazzi in città e ville nella terraferma ma non dimenticava la sua vocazione originaria, e non appena poteva tornava marinaro e navigava con le navi mercantili affiancate dalle galee. A ogni modo allo storico di Venezia Gino Luzzatto risulta che per tutto il Quattrocento «le somme investite per migliorare la proprietà fondiaria furono piuttosto modeste e non poterono esercitare una azione decisiva sulla struttura economica veneziana».

Fra le nuove circostanze si hanno infine le scoperte geografiche, le cui conseguenze dannose – lo spostamento dell'asse dei traffici verso l'Atlantico – si sarebbero avute però molto più tardi. Per tutto il Cinquecento si riconosce un equilibrio di forze fra il mare interno e l'oceano, rotto addirittura negli ultimi decenni a favore del Mediterraneo per l'intensificarsi di difficoltà già esistenti e per il sorgerne di nuove alla circolazione atlantica (battaglie navali anglo-spagnole, piraterie, naufragi). Da quando l'afflusso dei metalli preziosi e delle monete spagnole – che nella prima metà del secolo si era indirizzato verso Anversa da dove era redistribuito nella Germania e nell'Europa settentrionale, e che attorno al 1568-1569 si era spostato verso la Francia – fu dirottato circa il 1578 nel sud del Continente, l'economia dei paesi del Mediterraneo occidentale, e più di tutto quella dell'Italia, ebbe un incremento, mentre in parallelo si verificò una recessione nei paesi atlantici: incremento che come si è detto or ora durò fino al terzo decennio del Seicento. Da allora, scrive Fernand Braudel, si forma un netto divario fra i ricchi paesi mediterranei che presero a vivere della eredità del passato, attingendo alle fortune ammassate nel corso dei secoli, e i paesi atlantici, che, impegnati a moltiplicare quei capitali con tutti i mezzi, tecnici, materiali e spirituali, si prepararono al prossimo grande avvenire. E Gino Luzzatto scrive che alla fine del secolo XVII «l'economia italiana avrà quasi completamente perduto ogni forza di attrazione e ogni contatto con l'estero».

Attraverso quali adattamenti alle nuove situazioni i mercanti italiani continuarono a dare grandezza all'economia della Penisola? Si è or ora accennato, considerando globalmente l'economia europea, alla compensazione della diminuita produzione dei panni di lana con la produzione dei ben più cari tessuti di seta. Senza dubbio l'industria serica ebbe una notevole importanza in Italia. Ma è proprio vera la catastrofica contrazione nel settore della lana, che si sarebbe verificata soprattutto a Firenze, la regina indiscussa di quella manifattura fin quasi alla metà del Trecento? E da quando e in che misura si sarebbe avuta la compensazione con la seteria? Quanto ai pannilani, le botteghe che a Firenze nel 1427 erano 180 nel 1480 erano salite a 270 superando il numero delle 200 degli anni più felici fra il 1336 e il 1339; né è da credere che le grandi aziende dedite all'alta qualità si frantumassero in tante piccole create per un'opera più dozzinale. In un libro di commercio del veneziano Giacomo Badoer (1436-1440) si ha il ricordo di partite di stoffe fiorentine vendute a Costantinopoli; e ricostruendo il movimento di affari nella fiera di Salerno del 1478 ho trovato che tra le pezze di più provenienze, genovesi, catalane, toscane, inglesi, si avevano non poche «scarlatte» e «paonazze di grana», le più care, offerte sul mercato dai mercanti fiorentini. Il che fa prova che l'Arte della lana era viva e vitale e teneva fede alla bontà del prodotto. Quanto all' Arte della seta, soltanto fra gli ultimi del Trecento e i primi del Quattrocento, si trova separata da quella di «Por Santa Maria», che era prevalentemente mercantile; e ad essa soltanto dopo il primo decennio del secolo XV presero a iscriversi le famiglie mercantesche più facoltose e più impegnate nella vita politica, come era avvenuto per la immatricolazione nell'Arte di Calimala al tempo della sua massima fioritura. Non sembra, però, che ci sia stato un vero spostamento di capitali dall'una all'altra industria. Spogliando i«registri delle accomandite» – impostati nel 1408 da quando questa forma di società fu riconosciuta dalla legge che per l'innanzi aveva ammesso soltanto la forma della «compagnia» – da più di un migliaio di contratti (da principio furono pochissimi) fra il 1445 e il 1552 ho trovato che le somme investite nelle due industrie sono press’a poco le stesse, e semmai un poco inferiori quelle destinate all'Arte della seta.

A ogni modo, quale che fosse in Italia la situazione delle manifatture tessili, il commercio già fondamentale delle stoffe non diminuì e anzi il mercante italiano ne accrebbe il volume negoziando, fino alle coste orientali del Mediterraneo, una maggior quantità della produzione tessile straniera. Al che non portò danno neppure il fatto che le marine italiane non avevano più il monopolio della navigazione nel Mare Nostrum, sempre più solcato da navi battenti altre bandiere: biscagline, francesi, portoghesi, e a tratti inglesi, che predominarono alla fine del Cinquecento insieme con quelle hanseatiche e olandesi, recanti soprattutto grano al seguito di una lunga carestia cerealicola che colpì i paesi del Mediterraneo.

C'è per ultimo da dire che se i mercanti italiani si trovarono ad affrontare la concorrenza degli stranieri nel campo dell'industria e del commercio, per ciò che riguarda la grande banca e l'alta finanza mantennero il primato. Ci si riferisce ai grandi prestiti fatti a Carlo V in occasione delle guerre di predominio fra Francia e Spagna, e alla istituzione delle «fiere genovesi» di Besançon e poi di Piacenza, nelle  quali, escluso lo scambio delle merci, unica attività erano gli affari esercitati nella forma della stanza di compensazione  e della contrattazione e fissazione del corso dei cambi. Mercanti tutti italiani, genovesi, fiorentini, milanesi e veneziani vi liquidavano i pagamenti derivanti da negozi stipulati in tutta Europa per somme che nel 1580 raggiunsero i trentasette milioni di scudi d'oro e poco dopo salirono a quarantotto. Vi si introdusse inoltre l'uso di una moneta di conto, lo «scudo di marchi», valutato alla pari, col solo disaggio dell’1%, delle cinque monete auree più pregiate del tempo (Spagna, Napoli, Genova, Venezia, Firenze), al quale si riducevano tutte le valute in cui erano stipulate le cambiali in fiera. Per la funzione cambiaria, scrive il Luzzatto, le fiere di Piacenza ebbero l'importanza di quelle che in seguito avrebbero avuto le borse di Parigi, di Londra e di New York. Combinando poi le due ricordate funzioni, i banchieri genovesi fecero di quelle fiere un grande istituto internazionale di credito, a cui attingevano per i finanziamenti a Filippo II acquistando tratte sulle piazze dove dovevano essere effettuati i pagamenti per conto del governo spagnolo, non pagandole in contanti ma con cambiali che rappresentavano i loro crediti presenti e futuri.

Le fiere di Piacenza presero a declinare nel primo decennio del Seicento per la decadenza della fortuna spagnola a cui erano legate, per l'importanza mondiale ormai assunta da Amsterdam, e per la gelosia del primato genovese da parte dei mercanti toscani, milanesi, veneziani. Del resto l'azzardo della banca privata, che aveva ripreso le rischiose operazioni delle vecchie compagnie fiorentine, fece sì che si impostassero i banchi pubblici di stato. Scrive l’Ehrenberg, il grande conoscitore delle finanze e della borsa nel Cinquecento, che l'eccezionale importanza raggiunta e conservata dalle fiere genovesi per circa sessanta anni fu «l'ultima fioritura della tecnica commerciale dei paesi latini del Mediterraneo, e nello stesso tempo il modello di una concentrazione della circolazione del danaro o del credito in misura tale che, dopo di allora, non poté mai essere raggiunta in alcun altro luogo, perché fortunatamente non si rinnovarono più condizioni simili a quelle per cui alla decadenza del movimento commerciale potesse accompagnarsi una così grande fioritura della speculazione sui cambi e del monopolio del credito internazionale».

Per concludere sull'Italia vorrei ripetere quanto altre volte ho avuto occasione di scrivere, che i secoli XII e XIII attuarono una rivoluzione la cui spinta continuò nel secolo XIV fino a quando le catastrofi dei grandi fallimenti, della pestilenza e dell'inizio del conflitto anglo-francese costrinsero a marcare il passo, e per un momento anche a retrocedere; il XV, lasciando impregiudicato se l'Italia si limitò a riguadagnare le posizioni perdute o si spinse oltre, fu di assestamento; nel corso del XVI ecco di nuovo un'ascesa, rapida e intensa dalla seconda metà fino ai primi del Seicento quando le rotte oceaniche ebbero il sopravvento decisivo su quelle del Mediterraneo, degradato a una posizione del tutto secondaria. Facendo un parallelo con le età dell'uomo, dissi dapprima di gioventù irrompente che non conosce ostacoli; poi di maturità che riflette sul mutamento dei tempi rendendosi conto che non consentono la precedente felice (e all'ultimo infelice) generosità, pur senza passare alla rinunzia; poi l'inizio della fatale vecchiaia ancor più carica di esperienze e quindi più sagace nel cogliere la possibilità delle speculazioni finanziarie, e che condusse una vita sempre più splendida attingendo ai colmi forzieri fino all'esaurimento. È questo splendore, mancante di sostegno, che spiega il crollo, ora definitivo, del secolo che seguirà: crollo dilazionato – lo ripeto e vorrei aggiungere per forza di inerzia – fino al primo trentennio del Seicento.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06