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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


3. Il mercante all'opera

2. Grande e piccolo mercante

A questo punto si apre la visione di due mondi. Uno di piccoli e minimi mercanti che indirizzavano il lavoro alla finalità della sussistenza secondo la «mentalità artigiana» come la intende il Sombart; il quale, attratto dalla assoluta prevalenza del numero, la ha generalizzata come espressione del «periodo medioevo». Un altro, molto più ristretto, ma non però costituito da poche eccezioni, che dico di capitalisti. Fra mezzo ai due una quantità di medi che Pierre Jeannin, acuto studioso del mercante del secolo XVI (lo seguirò da presso anche se di lui citerò fra virgolette soltanto qualche frase più efficace), ha accostato ai grandi in un «potente sforzo collettivo di tutta una classe».

Come distinguere i grandi? Il criterio della ricchezza, che si può indurre, quando manchino i libri contabili, dalle cifre delle tassazioni, da quelle dei testamenti e anche da quelle dei fallimenti, non è idoneo a separare i due «tipi» di mercanti. Alcune di quelle cifre sono veramente ingenti e altre molto minori; ma a che punto stabilire da dove cominciava la ricchezza in un tempo in cui anche chi disponeva di modeste sostanze era considerato ricco, e socialmente fuori dal mondo degli affari si ritenevano i veramente piccoli e i minimi? Altrettanto fallace sarebbe tenere conto del raggio di azione, ponendo fra i grandi tutti coloro che troviamo impegnati, comunque sia, nel commercio internazionale. Come dire grande quel commerciante di Gotland che, associato con un olandese con un capitale di 400 fiorini, il Jeannin ha trovato nel traffico a vasto raggio?

Un altro criterio da scartare è quello di separare il mercante all'ingrosso dal mercante al minuto perché accade che grandi «compagnie» – le fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi, per esempio, continuamente richiamate –, le quali ammassavano in capaci magazzini ingenti partite di panni da portare in tutti i mercati e su tutte le piazze di affari, avessero in città un negozio dove vendevano una mezza pezza e magari scampoli di fare guanti, calze, berretti. Il che sarebbe avuto anche in seguito, nei secoli XV e XVI, tanto in Italia quanto all'estero da dove traggo, rispettivamente, gli esempi di Agostino Chigi e di Cristoforo Pruyner. Come classificare il Chigi, titolare a Cetona, un comunello del senese, di uno «spaccio di ogni genere di mercanzia» (non certo all'ingrosso) e nel contempo in rapporto di affari rilevanti con principi e signori? Soprintendente in qualità di tesoriere delle finanze pontificie, fece grossi prestiti ad Alessandro VI, a Giulio II, a Leone X, avendo in pegno dal papa Della Rovere la stessa tiara tripla, il famoso «Triregno». Mutuò inoltre, sempre contro pegno di oggetti preziosi – ricordo i personaggi più noti –: nel 1494 a Carlo VIII in occasione della calata in Italia; nel 1496 a Piero di Lorenzo de' Medici che esule a Venezia tentava di rientrare in Firenze; nel 1497 a Guidobaldo da Montefeltro duca d'Urbino, che fatto prigioniero a Soriano abbisognava di 111.000 ducati per riscattarsi; a Cesare Borgia, il Valentino, che fra il 1499 e il 1503 sottomise i signori ribelli dello stato della Chiesa formandosi un proprio dominio; nel 1509 alla repubblica di Venezia, esausta dalla guerra di Cambrai, che in segno di gratitudine per il versamento di 25.000 ducati gli conferì il titolo onorifico di «figlio di San Marco», e altri 20.000 nel 1518; nel 1517 al cardinale Raffaele Riario il quale, coinvolto nella congiura detta del cardinale Alfonso Petrucci contro Leone X, ne ottenne il perdono con una multa di 150.000 ducati, di cui un terzo anticipati dal Chigi. Per tutte queste somme il banchiere attingeva ai proventi degli appalti del sale e dell'allume dello stato della Chiesa e del regno di Napoli, a quelli della dogana delle pecore nel Patrimonio di San Pietro, ai guadagni tratti dall'attività mercantile: importatore e esportatore di vino greco, di cereali, di zucchero, di salumi, di carne da macello, di foraggio, di stagno, nonché di panni, di cui nel 1513 acquistò dai mercanti veneziani una partita di scarlatte per 30.000 ducati. Con tutto questo, ripeto, nel 1512 apriva il negozietto di Cetona. Come classificare Cristoforo Pruyner, tesoriere di Anversa, che vendeva partite di stoffe di alto pregio al re e al suo entourage, quando nei suoi registri si trovano annotate le vendite di qualche braccio di panni grezzi agente del popolo? Ma con ciò? Anche ai nostri giorni si hanno casi di imprese del genere a cui non si pensa lontanamente di negare l'attributo di capitalistiche.

Neanche risulta valido tener conto della specializzazione o meno, in quanto tutti i«colossi» che conosciamo praticavano contemporaneamente l'industria, il commercio e la banca. Werner Sombart volle vedere in questa «confusione» la testimonianza di una irrazionalità a sostegno della sua tesi del generale «spirito artigiano». Chi invece ricostruisce, attraverso i libri contabili e la corrispondenza (documentazione diretta abbondante soprattutto in Italia), la organizzazione di quelle aziende e ne segue la dinamica, si rende conto che quella attività plurima si esplicava a ragion veduta: per ridurre i costi e aumentare i ricavi, sempre che fosse possibile, vendendo i propri prodotti senza ricorrere a intermediari, e finanziando l'impresa senza il gravame del procacciamento dei capitali da terzi. Si può dire che abbia avuto mentalità artigiana un Benedetto Zaccaria che nel Dugento estraeva dalle proprie miniere di Chio e di Focea l'allume di cui aveva il monopolio, lo trasportava con le proprie galee per venderlo a Genova, dove per di più ora – si parla di integrazione dell'industria – aveva impiantato una tintoria?

Ancora: procedevano a caso i mercanti quando applicavano una parte degli utili in immobili e in terreni, dapprima soprattutto per costituire una garanzia al credito a cui ricorrevano abbondantemente, e poi per premunirsi con l'investimento plurimo dai rischi della sola attività mercantile via via che quei rischi si fecero maggiori? C'erano infine di quelli che praticavano solamente il commercio, ossia erano specializzati, ma trattavano gli articoli più vari. Anche in questo caso, però, una cosa era vendere a contanti generi di uso comune, e rifornirsi della merce giorno per giorno, e un'altra, pur vendendo di tutto un po' (non c'è bisogno di immaginare allora i supermercati), trattare articoli di un certo pregio e magari di alto pregio, e quindi non strettamente necessari, il che implicava problemi di associazione, di credito, di organizzazione fino al personale: in sostanza gli stessi problemi, quantunque in proporzioni ridotte, di chi svolgeva veramente grossi affari di respiro internazionale. Senza dubbio, come ho detto poco sopra, gli aspetti quantitativi hanno un peso; ma non sufficiente a dare la visione di una tipologia, nel caso presente del «tipo» del grande mercante, e giova pertanto osservare anche la qualità dei fenomeni nello spirito dei loro soggetti. Così penso grande mercante quello che tendeva con tutto l'impegno al guadagno da moltiplicare con il reinvestirlo appena ritratto, e magari con la sola speranza di ricavarlo – ecco l'elemento rischio –, con la consapevolezza che la ricchezza avrebbe costituito la base della sua forza nella società fino a quella  politica, strumento a sua volta per incrementare gli affari. E vado oltre: nel trattare da qui in avanti questa figura terrò sul primo piano (e in prima linea quello italiano) il grande operatore che abbinava la produzione e i traffici con la banca: il più spregiudicato e insieme il più esposto, in quanto non lavorava soltanto con il proprio danaro ma anche con quello degli altri, il mercante-banchiere. È a lui che attribuivo or ora l'appellativo di primo capitalista: dopo di lui il capitalismo si sarebbe precisato sempre più come sistema e, a prescindere dalle dimensioni dei capitali, sarebbe penetrato via via più largamente nello spirito della società.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06