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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


4. La figura del mercante

3. Il mercante straniero

a) L'ISTRUZIONE. In linea generale le caratteristiche della figura del mercante straniero sono le stesse di quelle del mercante italiano, e soltanto in lui si ravvisano più tardi per il non sincronismo dello sviluppo economico nel quale l'Italia precedé il resto dell'Europa, e poi mantenne la distanza degli inizi. Per procedere nell'ordine delle pagine precedenti il primo aspetto che si considera è l'amore per la mercatura e la consapevolezza della necessità di una preparazione di studio effettuata anche all'estero nella scuola privata e in quella pubblica – nel 1481, a detta di un cronista, 4000 ragazzi (meno della metà degli scolari che abbiamo trovato a Firenze fra il 1336 e il 1339) guidati dai loro maestri e dalle loro maestre fecero festa all'imperatore Federigo III – integrata con la pratica nel «fondaco» e infine con i viaggi. Scrive il Sombart che «quello che nell'Italia del secolo XIII offriva per l'aritmetica Leonardo Pisano lo raggiunsero, in Germania, appena i libri di conti della fine del secolo XV». La tenuta della contabilità in partita doppia fu un segreto italiano fino al Cinquecento, e per tutto il secolo fu praticata in Germania, in Fiandra e in Spagna da un numero esiguo di grandi aziende. Appunto per imparare la «scrittura all'italiana» Lucas Rem, uno dei grandi uomini di affari proprio del secolo XVI, si portò all'età di quattordici anni a Venezia; il centro che per l'insegnamento della contabilità non sarebbe stato superato in seguito dalle scuole pur note di Anversa, Lione e Norimberga. Vi rimase tre anni, dedicando i primi diciotto mesi all'apprendimento dell'italiano: perché gli stranieri dovevano affrontare il problema della lingua che agli italiani non era strettamente necessario per il fatto che nell'ambiente mercantesco, come si è detto, l'italiano era lingua internazionale. Ugualmente Iacopo II il Ricco, futuro capo della società dei Fugger, fu nella città della laguna dal 1478 al 1480 e studiò l'italiano con due maestri prima di passare alla istruzione tecnica; e nel 1503 (gli esempi si potrebbero moltiplicare) Federigo Behain di Norimberga mandò il figlio Paolo a Cracovia presso i compagni della compagnia fiorentina dei Nobili. Per un'altra prova che gli stranieri seguivano a distanza gli italiani si può ricordare che il pendant della Pratica di mercatura del Pegolotti, della prima metà del Trecento, è l'altrettanto famoso manuale della società dei Paumgartner di Augusta compilato fra il 1480 e il 1520. Per i viaggi infine, da cui il mercante traeva profitto anche per una cultura generale, parla chiaro una lettera del ricordato Paolo Behain che i Nobili dovevano mandare in più località: «io sono contentissimo di non rimanere sempre nella stessa città; chi non si muove non impara mai niente».


b) LA FEDE. Proseguendo non ancora nel confronto ma nel parallelo, veniamo al tema della fede del mercante. Si hanno le medesime invocazioni a Dio che abbiamo trovato in Italia in testa ai libri di commercio, alle lettere mercantesche, alle cambiali, alle assicurazioni, ai testamenti, e la stessa domanda è se si tratta di formalità o se c'è un pizzico di sincerità. Il Jeannin, che crede poco nella sincerità nel Cinquecento, esita comunque dinanzi a uno strano documento, una istruzione di Matteo Schwarz agli apprendisti in una grande azienda: «sta' attento discepolo, ‘interesse’ è una bella parola che significa ‘usura’, ‘finanze’ è un'altra bella espressione che equivale a furto ». È possibile che lo Schwarz, capo contabile della società dei Fugger, che anche per merito suo faceva profitti colossali, abbia affidato uno sfogo del profondo dell'anima a un pezzo di carta che pervenuto fino a noi avrebbero potuto trovare anche i suoi padroni non certo contenti di sentirsi trattare di usurai e ladri? E perché se era così «puro» rimaneva nell'azienda? È vero che anche alla fine del Trecento il notaio Lapo Mazzei era stato a fianco di Francesco di Marco Datini da Prato di cui disapprovava tutto il comportamento della vita e non solo la condotta negli affari. Eppure – un grande carteggio ne fa prova – era timorato di Dio e della Chiesa e soprattutto sapeva che cosa era bene e cosa era male, e male non si comportava nelle proprie azioni. In fondo però voleva un po' di bene a Francesco e non si asteneva dal dargli buoni consigli con l'intento, lo ripete di continuo, di salvargli l'anima. Soprattutto però, poveretto come era e carico di famiglia, il padrone, che nelle lettere chiamava sempre padre carissimo, era la sicurezza della sua esistenza e di quella della famiglia. Lo Schwarz, invece, era tutt'altro che un meschinello. E allora? Lo dicevo che leggere negli animi è estremamente interessante e sarebbe di grande utilità allo storico, ma ho aggiunto che è altrettanto difficile.


c) L'UMANESIMO. Quanto all'influenza dell'Umanesimo, quel movimento culturale nato in Italia arrivò al mercante straniero in ritardo e quando aveva perso di vigore. Però qualche riflesso non favorevole alla mercatura l'ebbe anche oltr’Alpe. Hans Jakob Fugger, successo nel 1560 a Jakob il Ricco, «dirige malamente la sua società, però sa il latino, il greco, l'ebraico, l'italiano, il francese, l'ungherese, il ceco e il polacco». L'Ehrenberg, lo storico di Das Zeithalter der Fugger: «mecenate accorto, ricco collezionista, amico di principi, si faceva dei negozi un concetto cavalleresco che non rispondeva affatto alle esigenze della situazione». E UIrico, altro dei Fugger, faceva tali spese nel campo puramente culturale che la famiglia promosse e vinse contro di lui una causa di interdizione. Viene alla mente il crollo del banco Medici, di un secolo e mezzo prima, alla morte di Lorenzo il Magnifico. Disastri di grande portata avvenivano nelle grandissime società; nelle piccole si creavano una quantità di spostati come Giuliano de' Ricci.


d) LA RIFORMA. Un ultimo argomento riguarda l'influenza della Riforma più avvertita ovviamente che in Italia fuori d'Italia. È interessante l'opinione dello storico del mercante del Cinquecento che così si può riassumere: anche dove la Riforma si impose, a imporla furono gli ambienti popolari, e i mercanti non fecero la scelta fra il papa e Lutero e poi Calvino: anche quelli cattolici non ne avevano bisogno perché arrivavano, in pratica, agli stessi risultati dei calvinisti. Se questi avevano la giustificazione nel moltiplicare il danaro col danaro, quelli disponevano di tanti mezzi per far fruttare i loro capitali, disattendendo i divieti della loro Chiesa senza incorrere nelle sue sanzioni. Non per nulla la casistica dei gesuiti era contemporanea alla morale puritana. Era così che la ricchezza, comunque fatta, non escludeva il Paradiso. Ultima conseguenza: trovato, sia pure su premesse antitetiche, questo accordo, il mercante, di qualsiasi confessione fosse, non aveva bisogno di una rivoluzione: aveva piuttosto interesse a che nulla si mutasse dell'ordine costituito.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06