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      Discussioni
      V Workshop nazionale 
      “Medioevo e didattica”
      Brescia, Università  Cattolica del Sacro Cuore 
      15 aprile 2005 
       
           	Maria Pia Alberzoni 
           	I “saperi  minimi” nell’insegnamento della storia medievale (storia religiosa)
           	Premetto che  è mia intenzione proporre qui solo alcune riflessioni dal punto di vista del  docente che si trova a insegnare storia medievale in una facoltà di Lettere  prevalentemente, almeno dal punto di vista numerico, a matricole. 
           	 È necessaria  un’altra premessa: parlando di “storia religiosa” intendo sempre accostare tale  definizione entro il quadro di una robusta impalcatura istituzionale, giacché  nella storia il fatto religioso si documenta essenzialmente dal punto di vista  istituzionale, come ha in diverse occasioni ribadito Cinzio Violante, basti qui  solo ricordare l’importante contributo in occasione del venticinquennale della  fondazione del Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo [1].  In quella circostanza il Violante concentrò la sua attenzione sul significato e  sulle peculiarità delle istituzioni ecclesiastiche e individuò con estrema  lucidità il loro «carattere proprio» in primo luogo nella «loro finalità  religiosa», imprescindibile dalla «peculiare natura della religione cristiana»,  nella quale «la finalità religiosa imprime il proprio carattere anche al campo  di applicazione delle istituzioni ecclesiastiche e agli strumenti con cui esse  si attuano» [2].  In neppur troppo velata polemica con la recente (allora) Storia religiosa di  Giovanni Miccoli per l’einaudiana Storia d’Italia, il compianto  Maestro insisteva sullo stretto rapporto tra spiritualità, sistema  istituzionale ed ecclesiologia e notava: «Ogni movimento spirituale aderisce a  un’istituzione: presuppone un sistema istituzionale, o tende a mutarlo, a  crearne uno nuovo; ed anche quando respinge tale impegno per le istituzioni,  tuttavia promuove obiettivamente la formazione di un nuovo sistema: se non  altro, la provoca come reazione. Infatti un movimento spirituale opera pure  quando viene sconfitto» [3].  
           	Prendo  le mosse per le mie riflessioni dall’esperienza dei giorni appena trascorsi,  quando ho avuto tra le mani le schede che gli studenti destinano ai docenti con  i loro “giudizi e consigli” in merito all’andamento del corso. Accanto a  numerose attestazioni di sincero interesse per la disciplina e per la storia,  che si rivela diversa da quella studiata nelle scuole medie superiori (e in  alcuni casi, ahimè, si è trattato di istituti professionali, dove, grazie a una  riforma degli anni ’90, la storia è stata nella sostanza cancellata dai  programmi), ho costatato un aumento delle difficoltà dichiarate dagli studenti  di fronte alla materia: essi infatti affermano di non avere mai studiato la  storia medievale alle scuole medie superiori, un motivo affatto plausibile, se  si considera che la storia medievale continua a essere una materia di  frontiera, né del biennio, né del triennio, quindi trascurata dagli insegnanti  del biennio e certo non ripresa nella sua totalità da quelli del triennio. Si  tratta di una questione di non poco conto, che meriterebbe di essere affrontata  nella sua gravità e risolta: i medievisti dovrebbero esercitare adeguate  pressioni sul ministero e su chi sta progettando i futuri programmi, perché  venga eliminata questa innaturale divisione. 
           	 Se per certi  aspetti il fatto che i nostri studenti si presentino totalmente digiuni di  storia medievale può sollecitare un maggior interesse per la disciplina,  d’altra parte spesso l’esame di storia medievale è il primo relativo a una  disciplina storica che essi affrontano nel corso del loro curriculum universitario, penso in particolare agli studenti di Lettere moderne o di  Filosofia. Ciò significa che, a seconda dell’impatto più o meno positivo, essi  si costruiscono un’immagine del metodo e delle discipline storiche in genere.  Il tutto aggravato dal fatto che, proprio per gli studenti del corso di laurea  in Lettere o in Filosofia, la materia è sovente divenuta semestrale e lo studio  della stessa può essere prolungato per un altro semestre solo a scelta dello  studente. 
           	 Per  terminare le considerazioni relative al rilevamento di dati sull’attività  didattica, a fronte di un isolato studente che ha scritto «la materia per me è  orribile», senza però del tutto nascondere un certo interesse suscitato in lui  dalla lettura delle fonti (anche se poche, aggiungo io), mi sembra più  preoccupante il lamento, da alcuni manifestato, per le difficoltà nello studio  del manuale, che risulterebbe troppo complicato (forse è per loro solo troppo  lungo, ma come raccapezzarsi con ben 1000 anni in un semestre…), anche se i  problemi storiograficamente più complessi sono stati trattati a lezione.  Pertanto, anche una riflessione sui manuali e su come farli studiare ai nostri  studenti meriterebbe qualche attenzione, perché, come si può vedere, non si  tratta certo di un problema secondario per il futuro della nostra disciplina.  
           	Un secondo  motivo di riflessione è suscitato dal fatto che, almeno nella mia facoltà  (Lettere e filosofia, Cattolica) le tesi nelle discipline storiche sono in  netto calo e risultano ampiamente minoritarie nel quadro degli argomenti scelti  dagli studenti per laurearsi. E si sa quanto questa scelta possa influenzare  anche i successivi interessi e le capacità didattiche di un insegnante! Il  gatto si mangia così la coda: l’insegnante del liceo non è motivato e  competente nell’insegnamento delle discipline storiche, lo studente non può che  “sopportare” un insegnamento poco convinto e convincente e, per molti aspetti,  lacunoso, soprattutto nel campo delle conoscenze di metodo; quindi  l’orientamento anche in ambito universitario darà per scontato il giudizio  negativo sulle discipline storiche, trascurando già in via preliminare di  accostarle con interesse. Il tutto è aggravato dalla tendenza a scegliere altri  ambiti più “alla moda”, basti solo un cenno alle discipline dello spettacolo e  alle varie sociologie e tecniche della comunicazione. 
           	 A tale  proposito desidero sottolineare con forza che le competenze nell’insegnamento  della storia non si raggiungono grazie a metodi che suggeriscono all’insegnante  di non spiegare (visto che non saprebbe che cosa dire), quasi che il metodo  storico con cui accostare il passato fosse una capacità innata dell’allievo e,  poi, dello studente. No. Le prospettive ministeriali, soprattutto quelle che  andavano di moda qualche anno fa – spero che nel frattempo ci siano stati  salutari ripensamenti – prevedevano che, acquisito qualche scarno elemento, il  discente si sarebbe poi dedicato personalmente alla ricostruzione storica. A  prescindere dal fatto che anche Theodor Mommsen ha dovuto sudare sulle sue  carte per giungere a declinare adeguatamente tale metodo, e dalla costatazione  che è ancora da dimostrare che sia sufficiente aver seguito un insegnamento di  carattere elementare per procedere a una ricostruzione storica, senza nemmeno  sapere che cosa sia una fonte e, soprattutto, come leggerla e interpretarla, mi  domando con preoccupazione se simili metodi da “apprendista stregone” non  possano avere come unico esito quello di disamorare totalmente i giovani alla  storia. Si tratta di una preoccupazione seria, perché qualcosa di analogo è già  accaduto alla Geografia e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, al punto  che, se vogliamo affondare definitivamente uno studente all’esame, non ci resta  che chiedere quale fiume passa per Cremona, oppure quali regioni comprende  l’Italia settentrionale – per restare entro un ambito geografico ben  circoscritto e che dovrebbe essere assolutamente familiare – per avere risposte  a tal punto negative da consigliare il ritiro dall’esame stesso. 
           	 Un’altra importante riflessione riguarda il  problema della “contemporaneità”: si dà sovente per scontato che ciò che più  interessa lo studente sia la storia contemporanea, o, in ogni caso, quella a  lui più vicina nel tempo. Ciò è superficiale, perché è compito del docente  rendere “contemporaneo” un fatto o un personaggio per lo studente.  Contemporaneo significa che il fatto o la questione trattata deve essere  presente all’esperienza innanzi tutto del docente: infatti solo attraverso  l’esperienza personale di chi insegna (o racconta) lo studente potrà  rappresentarsi il passato. Altrimenti – guardiamoci intorno – per i nostri studenti  non è più contemporaneo Stalin di Dante o Churchill rispetto a Ramsete II.  Quando un fatto è accaduto anche solo 20 anni fa è totalmente estraneo alla  loro esperienza quasi quanto quello avvenuto 200 o 2000 anni fa. Un esempio per  tutti: parlando con una brava studentessa, mi sono resa conto che il  riferimento alla contestazione del ’68 (nel senso, ovviamente, di 1968) era da  lei mentalmente tradotto in 1868… 
           	 Questa lunga  introduzione è per dire che, se non sappiamo comunicare i motivi dell’interesse  che muove noi nel nostro lavoro di ricerca e di studio, possiamo dire di aver  già registrato un fallimento. E tale comunicazione non avviene attraverso voli  pindarici o espedienti attualizzanti in modo fittizio, ma anzitutto affrontando  e presentando con competenza la materia, preparando con attenzione le lezioni e  cercando di renderle opportunamente fruibili agli studenti, sottomettendosi –  nel caso – anche all’uso di supporti informatici.  
           	Passo ora a  considerazioni direttamente relative al tema che mi è stato affidato, lo studio  della storia religiosa, pur con le precisazioni sopra esposte. In particolare  do qui un elenco di quelli che ritengo debbano essere indicati come saperi  minimi o necessari/richiesti nel campo della storia religiosa, intendendo con ciò  elementi che potrebbero (e dovrebbero) essere acquisiti dallo studente già nel  corso delle scuole superiori. 
           			Sono  assolutamente d’accordo con le pertinenti e fondate questioni sull’ambivalente  concetto di “sapere minimo” sollevate in questo incontro da Giuliana Albini e  pertanto mi limito a formularne l’aspetto contenutistico, che sintetizzerei  così: 
					
					- un saldo  impianto cronologico, indispensabile punto di avvio per qualunque genere di  conoscenza storica, che – ci tengo a sottolinearlo – non significa l’acquisizione  di una congerie di date, come gli incompetenti vorrebbero presentarlo, ma la  capacità a collocare i fatti e le personalità entro il loro adeguato contesto:  esemplifico solo ricordando quanto sia importante che anche la matricola che  ascolta le nostre lezioni possa avere presente la differenza contestuale tra il  regno dei Franchi e la Francia  di Filippo il Bello; oppure che possa, almeno in via preliminare, dare per  scontato che Gregorio Magno e Carlo Magno non sono padre e figlio perché portano  lo stesso “cognome”; oppure che non debba indugiare troppo per ricordarsi se  sia la filosofia di Agostino a precedere quella di san Tommaso, o viceversa.  Ribadisco con forza che un essenziale impianto cronologico o lo si acquisisce  nelle scuole medie, soprattutto nel primo ciclo, oppure sarà una conquista  pressoché impossibile, a prezzo di grandi e poco gratificanti sforzi, dello  studente universitario. È come se si pretendesse che lo studente di facoltà  scientifiche dovesse ripartire ogni volta dalle tabelline, oppure dovesse  orientarsi sul significato dei numeri decimali preliminarmente allo studio  dell’analisi matematica. Osservo solo che, se una tale ipotesi appare assurda  per le materie scientifiche, per la storia è tranquillamente tollerata, soprattutto  da coloro che propugnano l’insegnamento “modulare”, che è ben altra cosa dalla  vera interdisciplinarità. Una volta persa la dimensione diacronica complessiva,  la storia come disciplina non ha più senso; sarebbe meglio chiamarla  “sociologia”;
 
					-  l’attitudine  all’uso di una corretta terminologia, giacché si può comprendere un problema se  i termini con cui viene presentato sono esatti (da qui la necessità di glossari  modellati sul più aggiornato lessico storiografico): basti pensare all’enorme  ambiguità della terminologia feudale, oppure, nel caso delle istituzioni  ecclesiastiche, alla difficoltà a comprendere termini quali laico, religioso,  regolare, monaco, frate, chierico, e così via;
 
					- la  capacità, almeno incoativa, di collegare fatti e questioni tra loro coeve,  anche se allogati in discipline diverse (un tempo si poteva accostare agilmente  la storia della letteratura italiana alla storia medievale e addirittura alla  filosofia medievale, e ora?): operazioni di questo genere facilitano la  comprensione, l’apprendimento e la memorizzazione;
 
					- così non  dimentichiamo che la storia delle istituzioni religiose (ecclesiastiche), non è  affatto slegata da quella delle istituzioni civili (si pensi solo al modello  offerto dagli Ordini religiosi per la costituzione delle monarchie europee o  dei comuni), e che inoltre offre il tessuto connettivo indispensabile per  comprendere le varie espressioni del sapere umano nelle diverse epoche;
 
					- infine,  ma non ultimo, la dimensione narrativa dei fatti dovrebbe essere il punto di  partenza indispensabile, non solo per l’esposizione storica, ma per la  possibilità stessa di comunicare. E la dimensione narrativa dei fatti,  contrariamente alle facili banalizzazioni, deve essere raggiunta con un  esercizio personale, che prende inevitabilmente le mosse dall’esempio  dell’insegnante: chi si impegna a raccontare i fatti e le esperienze del  passato ai suoi allievi, cercando di renderli a loro presenti sulla base di  ricostruzioni non banali e tentativamente approfondite, accende la prima  scintilla di interesse e di coinvolgimento con il passato e favorisce la  riflessione sull’esperienza personale, un dato imprescindibile qualora si miri  a un apprendimento non solo superficiale.
 
					 
           	Ci si potrà  chiedere come l’insegnante, sovente (e sempre più nei prossimi anni) provvisto  di una formazione lontana dall’ambito delle discipline storiche, possa indicare  questi saperi minimi ai suoi allievi. Sono ben consapevole del lavoro personale  che in tal caso è richiesto: anch’io ho avuto un’esperienza come insegnante di  lettere nei licei che mi portava necessariamente lontano dall’ambito specifico  della disciplina nella quale più mi sentivo preparata, la storia medievale.  Anzi, negli anni in cui ho insegnato al biennio, la materia storica a me  affidata era la storia antica: nonostante le inevitabili difficoltà, ho  tutt’altro che un ricordo negativo di questa oramai lontana esperienza, certo  facilitata dal fatto di aver acquisito in ogni caso un buon metodo storico nel  corso del curriculum universitario. 
           	 Sono altresì  convinta che i corsi SSIS non aiutino il futuro insegnante, qualora appoggino  il loro insegnamento solo all’aspetto pedagogico; potrebbero essere invece  l’occasione (e in tal senso mi sono mossa appunto nei corsi SSIS quando vi ho  insegnato) per ampliare il panorama bibliografico, non solo riguardo ai  manuali, ma in merito alle nuove acquisizioni della storiografia, con relativa  indicazione delle opere più significative. In tal modo l’insegnante potrà poco  alla volta (un libro all’anno, perché no?) approfondire qualche tema storico a  lui più congeniale. A partire da una maggior dimestichezza con questi argomenti  potrà verificare la capacità nuova, da parte sua, di comunicare con maggior  cognizione di causa, magari maneggiando le fonti con più competenza e sicurezza  e legandole effettivamente alla materia trattata, non solo come un’appendice di  curiosità; da parte loro gli allievi potranno meglio cogliere le linee  interpretative di un problema storico ed essere così invogliati a procedere con  approfondimenti personali. 
           	 Mi si potrà  obiettare che ho parlato poco della storia religiosa, pur nell’accezione sopra  enunciata: personalmente sono convinta della profonda unitarietà della nostra  disciplina, proprio perché nelle sue scelte contingenti la persona umana nelle  diverse espressioni è, nella sostanza, unitaria. Quell’ideale di una storia a  più dimensioni, nella quale tout se tient, sebbene irraggiungibile a  pieno, penso che possa costituire un valido orientamento soprattutto  nell’esposizione dei fatti: un tout se tient, beninteso, nel quale è  coinvolta anche la nostra esperienza personale. 
           	
							[1] C. Violante, Le istituzioni  ecclesiastiche, in Il Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo.  Venticinque anni di attività (1952-1977), Spoleto 1977, pp. 73-92; si  veda inoltre Id., La Chiesa feudale, Spoleto 1999. 
							[2] Op.  cit., p. 75. 
							[3] Op.  cit., p. 81. 
           			 
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