| 
	 | 
     | 
    
      Discussioni
      V Workshop nazionale 
      “Medioevo e didattica”
      Brescia, Università  Cattolica del Sacro Cuore 
      15 aprile 2005 
       
           	Giuliana Albini 
           			L’insegnamento  della storia economica medievale: problemi di metodo e individuazione dei  “saperi minimi”
           			1. Storia  generale e storie settoriali tra ricerca e didattica [1]
           	Un dibattito  ampio e, a tratti, polemico ha interessato negli ultimi decenni le questioni  relative all’utilità del persistere di una storia generale o storia tout court e dei suoi rapporti con le  storie settoriali. 
           	 Questo dibattito  ha alle sue spalle almeno due filoni di riflessione  metodologico-storiografico-epistemologica, che si sono talvolta intersecati, ma  più spesso ignorati: il filone scientifico/disciplinare e il filone  didattico/disciplinare.  
           	Il primo filone  attraversa, come una sorta di fil rouge,  tutta la storiografia dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni.  La “rivoluzione storiografica” che ha profondamente mutato il mestiere di  storico nell’ultimo secolo, ha portato con sé, pur nella complessità delle  posizioni delle diverse scuole, un tratto comune: uno sviluppo costante delle  storie settoriali, cresciute a tal punto da mettere in dubbio la stessa  possibilità – e necessità – di continuare a far esistere una “storia generale”.  La continua specializzazione della ricerca ha tolto via via interi settori, che  prima “appartenevano” alla storia, definendoli progressivamente come ambiti  distinti: la storia economica, la storia religiosa, la storia delle  istituzioni, la storia della cultura, la storia della scienza e della tecnica,  la storia della mentalità, la demografia storia, ecc. Si chiede Paolo Prodi:
           	In ogni caso cosa rimane della storia senza aggettivi  o storia generale dopo la nascita di tante storie specializzate? È soltanto un  residuo di ciò che non ha trovato una propria autonoma specializzazione? In  questo caso, data l’ineluttabilità delle specializzazioni in quest’era  tecnologica, sarebbe meglio abolirla: di fatto il confine tra le storie  speciali e la storia generale non è facilmente definibile e varia concretamente  nella ricerca stessa dello storico[2].  
           	Sembra quasi una  contraddizione dover discutere, dopo che la storiografia delle Annales ha comunque pervaso la  storiografia del Novecento, della necessità di difendere la storia nella sua  accezione più ampia quando sembrava che il percorso avviato, sebbene talvolta  contraddittorio e non sempre lineare, dovesse portare, nelle intenzioni di  Bloch, Febvre, Braudel, alla “histoire totale”, alla “histoire globale”. Le Annales della prima generazione, la  rivista voluta da Bloch e da Febvre, ossia gli «Annales d’histoire économique  et sociale» riprendevano il progetto dello stesso Febvre di una rivista  internazionale di storia economica [3].  L’accento posto sull’economia, del resto, era funzionale alla necessità di  ampliare le conoscenze storiche là dove ormai la storiografia inglese e tedesca  da tempo si stavano impegnando, mentre la storiografia francese ne era ancora  lontana, intrisa del modello della storia politica, nelle sue caratteristiche  di storia diplomatica, di storia-racconto / storia degli avvenimenti / storia  “evenemenziale”, tanto avversata da Bloch e Febvre. Eppure, il titolo della  rivista, caratterizzato dagli aggettivi economico e sociale,  poteva far intuire una specializzazione che essi non volevano suggerire. Tali  aggettivi erano, nelle loro intenzioni, stati individuati proprio perché in  grado di “abbracciare tutta la storia” [4]: 
           	Sapevamo bene che “sociale”, in particolare, è uno di  quegli aggettivi che sono stati usati per molti scopi, nel corso dei tempi,  tanto che, ormai, non significa quasi più niente… Ma concordavano nel pensare  che appunto un termine così vago come “sociale” pareva essere stato creato e  messo al mondo dalla Provvidenza storica, apposta per servire da insegna a una  rivista che non voleva circondarsi di steccati… Non esiste una storia economica  e sociale. Esiste la storia, la storia pura e semplice, nella sua unità. La  storia che è tutta sociale, per definizione [5].  
           	Si trattava, dunque, della ricerca  di un nuovo metodo di approccio alla storia, vista come
           	storia  problematica, storia concettuale, storia globale o totale; quindi,  necessariamente, storia interdisciplinare. … Storia totale – insomma –  significa una storia in cui le molte dimensioni della ricerca volta al passato  si congiungono nell’uomo [6].  
           	Non si trattava di specializzazioni  o di parcellizzazioni della storia, ma al contrario di una reductio ad unum,  della costruzione di una “scienza dell’uomo” (Febvre). Per dirla con Bloch 
           	l’oggetto  della storia è per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini. A una scienza del  diverso si addice infatti, meglio del singolare, favorevole all’astrazione, il  plurale, che è il modo grammaticale della relatività. La storia vuol cogliere  gli uomini al di là delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle  macchine, degli scritti in apparenza più freddi e delle istituzione in  apparenza più completamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi  riesce non sarà, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il  buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là è la  sua preda [7].  
           	Il progetto era  ambizioso, e, per molti aspetti, condiviso anche da coloro che non si  riconobbero nella storiografia delle Annales;  anzi, preparato, in alcuni suoi aspetti, da esperienze, ad esempio, della  storiografia tedesca. Essa infatti recepiva un più generale clima culturale,  nel quale un ampio spettro di saperi si stava dischiudendo alla ricerca  storica, così come sempre più ampio era il panorama delle fonti utilizzate  dagli storici. Lo storia globale necessitava, per superare i limiti angusti nei  quali si vedeva costretta, ma della quale non rifiutava in toto l’eredità, di ricerche in tutti i campi delle scienze  sociali. La storia, nel momento in cui voleva essere sociale, era storia  economica, geografica, sociale, demografica, culturale, religiosa, politica,  antropologica… 
           	 Il clima  culturale diffusosi già a partire dal secondo Ottocento e in modo ancor più  forte nel primo Novecento – le sollecitazioni furono molte, tra le altre lo  sviluppo delle scienze sociali [8] e  l’ampliamento degli interessi degli storici – portò a sua volta ad uno sviluppo  sempre più ampio delle “storie speciali”, come dimostra anche l’evoluzione  della scuola delle Annales, che nelle  tre generazioni di storici privilegiò ambiti diversi [9],  inseguendo suggestioni spesso già presenti nei fondatori della rivista, ad  esempio la storia delle mentalità, dell’immaginario collettivo, della  psicologia collettiva, ma introducendo via via elementi nuovi. 
           	 In tutto questo  la “storia generale” continua ad esistere, senza che i suoi caratteri, le sue  funzioni, i suoi limiti risultino però facilmente definibili. Prodi afferma:
           	a noi sembra che, pur avendo perduto il suo trono di  regina delle scienze della società, la storia abbia mantenuto una sua speciale  funzione fondamentale. 
           			Una  funzione ineliminabile della storia senza aggettivi (o della storia generale  che dir si voglia) può e deve rimanere, almeno secondo due direttrici positive,  con la formazione di campi suoi propri: a) come studio del punto di  intersezione delle storie particolari tra loro…dato che non esiste nella realtà  l’homo oeconomicus, l’homo religiosus ecc. ma l’uomo nella sua  complessità così nella vita di oggi come nella storia; b) come studio di un  punto particolare di intersezione o per meglio dire di una linea di confine  lungo la quale le singole storie particolari degli uomini si confrontano con il  problema del potere [10].  
           	È una delle risposte possibili, sicuramente dettata dalla convinzione  che vi sia un livello nel quale si deve ricercare una giunzione,  un’intersezione tra le storie settoriali. Non risulta certo ben chiaro – credo  – chi e come concretamente debba svolgere il ruolo di “storico generale” o  “generalista”; così come la proposta di Prodi (la storia del potere, la  storia “politico-costituzionale”, la Verfassungsgeschichte, secondo la storiografia  tedesca) è una delle risposte possibili, diversa dalle proposte della storia  globale della “nuova storia”.   
           	Il secondo  filone prende invece l’avvio da una riflessione di più stretto interesse  didattico, che ha animato negli ultimi decenni il panorama culturale italiano.  La discussione, infatti, iniziata negli anni Sessanta nell’ambito di esperti di  scuola e di pedagogia sulla scia dei problemi aperti dall’avvento della scuola  di massa [11], entrò nel suo vivo,  coinvolgendo anche il mondo degli storici, negli anni Settanta. L’avvio fu dato  da un intervento di Giuseppe Ricuperati [12], che  nel 1972 intervenne a proposito dell’insegnamento della storia: un saggio assai  polemico, che denunciava la crisi del modello tradizionale di insegnamento  della storia – e con esso dei manuali in uso – prendendo posizione per una  didattica nuova, nella quale fosse centrale un approccio alla storia basato  sulla “storia-ricerca”. Ricuperati sarebbe ritornato più avanti su queste  affermazioni, con una sorta di valutazione autocritica, pur non rinunciando ad  affermare che con il suo intervento aveva soprattutto mirato a proporre con  forza la «complessità» della disciplina e delle modalità di trasmissione di  tale sapere [13]. Si trattava di un  percorso che aveva portato Ricuperati dal rifiuto dell’uso del manuale alla sua  rivalutazione, inquadrandolo in un più ampio contesto di utilizzazione di  strumenti didattici alternativi, ma sottolineandone l’importanza per  l’acquisizione di «quella minima grammatica storica che permette di orientarsi  e partecipare» [14]. Il percorso di  Ricuperati si precisò ulteriormente con la stesura (insieme a Comba e  Salvatori) di un manuale, che voleva superare i modelli esistenti, e, nel  contempo, doveva costituire lo strumento necessario per far acquisire agli  studenti le conoscenze necessarie per affrontare modalità di approccio alla  storia più vicine alla “storia ricerca”. 
           	 Posizione assai  più radicale (che ci aiuta ad avvicinarci al problema che qui si affronta) fu  quella di Ivo Mattozzi [15], che  contestò dalle radici il manuale, presentato come uno strumento fortemente  ideologizzato, in quanto frutto di un preciso momento storico (il secondo  Ottocento), di un preciso contesto sociale (la borghesia), di una precisa  corrente storiografica (il positivismo) 
           	postulando la possibilità di accertare i fatti nel  loro reale svolgimento e di ordinarli, attraverso un monotono ritmo narrativo,  in una sequenza cronologica e contemporaneamente causale (sul modello post  hoc propter hoc), metodo al quale l’analisi critica delle fonti forniva  garanzia scientifica di oggettività. L’idea di una storia generale e narrativa,  “coincidente con lo stesso passato nella sua totalità” ha origine dunque per  Mattozzi in tale contesto ideologico e culturale storicamente determinato e ha  valore solo all’interno di esso [16].  
           	Ciò che in  questa sede interessa sottolineare, nell’ampio dibattito su manuale ed uso del  manuale, è che la posizione di Mattozzi, assai più di quella di Ricuperati ed  altri, porta a criticare la “storia generale” di cui, in un contesto didattico,  il manuale rappresenta il prodotto per eccellenza. Siamo di fronte  all’affermazione della crisi della storia generale. 
           	Mattozzi  ritiene che il manuale, nonostante i tentativi di rinnovamento e adeguamento  alle istanze della nuova storiografia, per le sue caratteristiche intrinseche,  presenti una serie di elementi negativi ineliminabili. In primo luogo il  manuale ha la pretesa di rappresentare in un continuum i fatti storici  cumulativamente, ma nel frattempo li presenta come un «miscuglio di racconti  settoriali separati» [17].  
           	La riflessione  potrebbe portarci molto avanti, perché il dibattito sulla storia come ricerca e  sulla manualistica non si è certo chiusa negli anni Settanta. Ma ciò che  interessava affermare era come un problema apparentemente lontano dagli  interessi della didattica fosse in realtà ad esso strettamente legato: la  questione storia generale / storie settoriali trova nel dibattito  sull’insegnamento della storia come storia-ricerca e sul prodotto “manuale di  storia” il nucleo attorno al quale si sono sviluppate numerose riflessioni, di  storici e di esperti di didattica. Tali problemi furono sostenuti anche dalle  riflessioni sulle abilità cognitive, in relazione alle modalità di acquisizione  di una terminologia specifica, di elaborazione di concetti complessi, di  capacità di stabilire nessi: un approccio tutt’altro che semplice per una  disciplina che, spesso inserita in un contesto di “storia narrazione di  eventi”, era uscita da tale schema per acquisire linguaggi complessi (delle  storie speciali) che richiedono competenze diverse e articolate da parte degli  allievi. L’“ubriacatura” degli anni Settanta della storia-ricerca fu contestata  da molti interventi negli anni Ottanta [18] che  recuperarono la storia generale, criticando l’ipotesi di lavoro di coloro che  avevano recepito la diffusione della microstoria come novità che consentiva di  condurre con i ragazzi un percorso che li portava direttamente dalle fonti  (spesso legate alla storia locale) alla capacità di una ricostruzione della  storia generale. Pare ormai didatticamente più valida la modalità attraverso la  quale la ricerca viene intesa come una possibilità di integrazione e  interazione tra i due livelli: quello della “storia generale” e quello della esperienza  diretta su una tematica (ad esempio di storia locale). 
           	 Una serie di  riflessioni, dunque, di natura cognitiva, pedagogica, storiografica, didattica,  portarono alla produzione di una manualistica che recepiva le novità  storiografiche, si apriva alle “storie settoriali” – spesso ritenute più  appetibili per gli studenti. Tutto questo non metteva, nella maggior parte dei  casi, in dubbio la necessità di acquisire, proprio attraverso lo strumento  manuale, le competenze di base, senza le quali veniva a cadere anche la  proposta di una storia come ricerca. 
           	 Non più quindi  un rifiuto del manuale, ma una sua utilizzazione insieme a strumenti diversi; e  soprattutto sì ad un manuale diverso, in quanto in grado di recepire le storie  settoriali. 
           	 Tra gli esperti  di didattica si fa strada anche un crescente interesse per le storie  settoriali. Nel suo “decalogo” per ripensare l’insegnamento della storia, Giuseppe  Deiana rifletteva sul «fascino indiscreto delle storie settoriali». 
           	La  storia della realtà non esiste se non come l’insieme di tante storie, che  costituiscono una stratificazione complessa … Non una storia, dunque, se non  come l’insieme di tante storie intrecciate: storia politica, storia economica,  storia sociale, storia delle istituzioni, storia delle mentalità, storia  ambientale (o ecostoria), storia delle donne, ecc. Anche di questo lo studente  deve essere consapevole … attraverso esperienze di lettura di lavori  monografici settoriali, di “storia di”: storia dell’economia, storia delle  mentalità, storia delle donne, storia dell’ambiente, storia della medicina,  storia della famiglia, storia della scuola, ecc. …Quello che è importante, in  definitiva, è acquisire la consapevolezza della necessità di ridimensionare lo  strapotere della grande storia e della storia generale … è necessario un  sapiente equilibrio tra storia generale e storie speciali [19].  
           	Va anche  sottolineato che il mondo della scuola, nelle riflessioni dei docenti impegnati  in un rinnovamento dell’insegnamento della storia, più o meno consapevolmente, ha  accettato, tra le proposte storiografiche possibili, la storiografia delle Annales come punto di riferimento. 
           	 In un saggio dal  titolo Un curricolo di storia. Esperienze  di insegnamento nella scuola media, Wladiminiro Bendazzi, dopo una disanima delle proposte storiografiche più  recenti, si schierava, in prospettiva didattica, decisamente a favore delle «Annales»:
           	<La  storiografia delle «Annales»> presenta molti elementi favorevoli per una  traduzione didattica. Non è così politicamente determinata da generare rifiuti;  non vincola ad una precisa scelta “senza ritorno”, e d’altra parte lascia  intatte le possibilità di addivenire ad una tale scelta … La storiografia delle  «Annales» è meno chiusa, meno vincolante, meno presupponente, più idonea di  altre a considerare una molteplicità di fonti dell’azione umana… Le «Annales»  ci insegnano a porre gli uomini al centro dell’attenzione, ad occuparci di  tutte le realtà che li riguardano e con le quali hanno anche fare, e ad  estendere la curiosità a tutti gli aspetti del sociale e a tutte le categorie  sociali [20].  
           	Sembra che  queste certezze non siano sempre condivise neppure da coloro che hanno  abbracciato a pieno titolo la nouvelle  histoire. La parole di Le Goff in risposta alla domanda se fosse utile  rendere partecipi i ragazzi delle novità storiografiche, e in particolare della  “nuova storia”, sono a tale proposito significative. 
           	L’esempio  francese degli anni settanta e anche quelli di altri paesi sono tipici a  riguardo, come nel Belgio, ad esempio, dove la burocrazia ministeriale, animata  da buone intenzioni, ha voluto far passare senza riflettere e senza adattarli i  metodi degli Annales e della “nuova storia” nei programmi della scuole  secondarie e perfino in quelli delle scuole primarie, producendo effetti non di  rado disastrosi. Per ricordarne alcuni, l’introduzione della nozione della  molteplicità dei tempi e delle durate storiche e più particolarmente della  “lunga durata” ha portato una rinuncia della cronologia che invece deve essere  ripristinata, riavvicinandola ai grandi obiettivi e non accontentandosi  dell’evenemenziale politico, militare, diplomatico [21].  
           	A torto o a  ragione, comunque, per molti esperti di didattica della storia la storiografia  delle Annales sembra essere l’unico  paradigma utile a sradicare i tradizionali schemi di insegnamento della storia  generale, che viene spesso banalmente identificata con la storia degli  avvenimenti di più consolidata tradizione.  
           			In questo  contesto vanno valutati, in relazione all’insegnamento della storia, almeno due  momenti importanti dagli anni Novanta ad oggi, anche se più in generale si deve  sottolineare come si sia trattato di un periodo nel quale, ad di là dei  risultati legislativi concreti, il dibattito intorno alla storia e al suo  insegnamento nelle scuole ha trovato un nuovo spazio: 
           	
           			- i progetti di riforma Berlinguer – De Mauro, con le  relative commissioni che operarono in quegli anni (con la realizzazione delle  nuove scansioni dei programmi, in funzione dello spazio da riservare allo  studio del Novecento nell’ultimo anno di ogni ciclo e della modifica dei  programmi del triennio dei percorsi professionali) [22];
 
           			- la cosiddetta riforma Moratti (Delega al governo per la definizione delle norme generali  sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione  e formazione professionale), con l’emanazione, che più riguarda da vicino i  nostri temi, delle Indicazioni nazionali  per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di I grado [23]. 
 
           			 
           	Il dibattito in  merito a quest’ultimo punto è stato assai vivace [24] e  non è il caso di ritornarvi in questa sede. È però il caso di sottolineare che,  pur nelle divergenze profonde che animano i diversi progetti, viene ormai dato  per scontato che l’insegnamento della storia nelle scuole medie inferiori e  superiori non può comunque essere identificato nella semplice trasmissione di  contenuti disciplinari, riflesso di una convinzione che 
           	un  cambiamento radicale ha investito il ruolo del docente che da trasmettitore di  informazioni è passato ad essere facilitatore degli apprendimenti individuali,  una guida capace – a partire dal suo sapere – di costruire percorsi e di  sviluppare pratiche didattiche adatte ai bisogni formativi degli allievi [25].  
           	Tra l’altro si può ricordare come  nella redazione definitiva dei lavori della Commissione dei saggi (che operò  tra 1997 e 1998), nei cosiddetti Contenuti essenziali per la formazione di  base, relativamente alla storia si insisteva sulla necessità del 
           	superamento  del modello trasmissivo e mnemonico a favore di un modello mirato allo sviluppo  di competenze generali di inquadramento e di ricostruzione dei fatti storici [26].  
           	Questa è una  riflessione non lontana da alcune affermazioni delle cosiddette Indicazioni nazionali per i piani di studio  personalizzati, soprattutto nella parte che potremmo definire di più forte  impianto didattico, che si dimostra attenta (anche nello spazio lasciato a tali  aspetti) a sollecitare lo sviluppo di abilità e di competenze, che ben si  inquadrano nelle convinzioni più prettamente didattico/pedagogiche  dell’insegnamento della storia [27]. La  riforma Moratti, in verità, si allontana dalle ipotesi Berlinguer, ad esempio  ridimensionando l’attenzione per la storia del Novecento. D’altro canto, però,  i cosiddetti obiettivi specifici di  apprendimento della scuola secondaria inferiore nelle “Indicazioni”  recitano, sia per il primo biennio, sia per la terza classe, la necessità di  affrontare una serie di temi «in relazione al contesto fisico, sociale,  economico, tecnologico, culturale e religioso»: espressione che lascia spazio  ad impostazioni storiografiche diverse, ma che tende comunque a sottolineare le  complessità dei processi storici [28]. 
           	 Oggetto di  continue riflessioni, il complesso rapporto tra ricerca e insegnamento, tra  storiografia e didattica, ha trovato negli ultimi anni nuove occasioni di  confronto, come in occasione del convegno internazionale dell’ottobre 2004, a Bologna, su Storiografia e insegnamento della storia: è  possibile una nuova alleanza? [29]. Una riflessione di fondo interessante  si snoda proprio intorno ai temi sui quali si sta riflettendo. Una sorta di  distanza sembra esistere tra la storiografia scolastica, che continua a  perpetuare il modello della storia generale, di impianto cronologico-narrativo,  e la storiografia, che ha introdotto novità interpretative ampie. Si potrebbe  ad esempio sottolineare che ormai sono stati sperimentati generi e modelli di  testi storici non più legati alla linearità cronologica; ovvero che le  spiegazioni di eventi storici sono date da fattori molteplici e non da un semplice  rapporto di causa-effetto; ovvero che esistono diversi modi di lettura della  storia del passato (e non un unico modo di interpretare).		  
           			2. Il medioevo:  storia generale e storia economica
           	Tra le storie  “speciali” (o settoriali) la storia economica può sicuramente vantare una  tradizione antica: da Quesnay a Smith, da Knies a Marx, da Weber e Sombart a  Georg von Below una tradizione ininterrotta ha portato, tra Otto e Novecento,  ad un’ulteriore crescita di interesse per la storia economica sia come oggetto  di ricerca, sia come ricerca di nuove metodologie [30]. 
           	 Il periodo  compreso tra fine Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento è caratterizzato  dall’aumento di importanza della storia economico-sociale che, talvolta giunge  a “detronizzare la storia politica e la storia culturale” [31]. La  fondazione di riviste specialistiche – la «Economic History Review» (Cambridge 1927) e la «Rivista di storia economica», fondata  nel 1936 da Luigi Einaudi – veniva a coincidere con gli anni della nascita e  dello sviluppo delle «Annales  d’histoire économique et sociale» (1929) [32]. 
           	 Ma anche se  molti sono i cultori della storia economica, un po’in tutta Europa, la  tradizione della storia politica o culturale continua ad avere la prevalenza.  Solo dopo la seconda guerra mondiale la storia economico-sociale diventa «la  disciplina reggente del sapere storico nel suo insieme»[33]. 
           	 I temi di cui si  discute sono le grandi trasformazioni dell’economia (dall’antichità al medioevo  all’età contemporanea), delle crisi (Trecento e Seicento), la storia delle  campagne, la demografia, la storia dei prezzi: il quantitativo dilaga, ed è  applicato non solo all’economia, ma anche ai fenomeni politici e culturali. 
           	 Il processo di  diffusione di un approccio economico-sociale alla storia va di pari passo con  la necessaria definizione di rapporti con le scienze sociali (e in particolare  con l’economia). L’importanza via via assunta dall’economia porta ad un  necessario confronto con il marxismo, che aveva sottolineato in modo molto  forte l’importanza dei fattori economici nello sviluppo della storia  dell’umanità. In tale prospettiva si deve collocare il vivace dibattito che ha  animato il rapporto tra marxismo e “nuova storia”. 
           	Naturalmente  queste due correnti non possono ignorarsi a vicenda. Alimentate l’una e l’altra  dalla stessa ripulsa di una pratica storica desueta, esse scorrono parallele,  talvolta mescolano le acque, ma spesso rivaleggiano e diffidano l’una dall’altra [34].  
           	Rispetto agli aspetti più  strettamente economici, le Annales finiscono per accusare la storiografia marxista di eccessivo determinismo [35],  senza negare i propri debiti nei confronti di tale corrente di pensiero. 
           	 In Italia come  altrove le ricerche di storia economica cominciano a diventare elemento  indispensabile della conoscenza della storia di una società. Gabriella Airaldi,  nel 1986, sottolineava la continua crescita della storia economica – entrata  come insegnamento anche nella Facoltà di Lettere e Filosofia – riprendendo  l’intervento di De Rosa, Vent’anni di  storiografia economica italiana 1945-1965:
           	Direi  anzi che, se una differenza macroscopica è da rilevare tra l’inizio e la fine  del periodo al quale ci riferiamo, questa è appunto rappresentata dalla  accettazione da parte della storiografia generale, sia pure con qualche ancora  isolata ma vivace riserva, dell’importanza fondamentale dell’indagine  storico-economica. Oserei anche aggiungere … che alcuni dei migliori contributi  storico-generali devono in gran parte la maggiore acutezza e corposità della  loro indagine al fatto di non aver trascurato gli aspetti storico-economici del  problema. La storia economica, considerata tutt’al più e dai benevoli ancilla  historiae, è ora entrata per la porta principale nel Regno di Clio [36].  
           	Ma le riflessioni di Gabriella  Airaldi andavano oltre, nel tentativo di trovare una dignità, un proprio spazio  alla storia economica, troppo spesso non considerata da un lato come degna di  appartenere alla storia, dall’altro di appartenere all’economia. Una dignità  era ancor più difficile da ottenere per gli studi sull’età medievale, dal  momento che si aggiunge anche la difficoltà di affrontare da un’angolazione  quantitativa la storia economica, in relazione alla mancanza di fonti  specifiche. 
           	 Da qui nasce la  necessità di una riflessione sulla storia economica medievale, che ha visto  impegnati negli ultimi decenni gli storici delle nuove generazioni, in un  costruttivo lavoro di analisi e di tentativi di sintesi di aspetti specifici  dell’evoluzione della società medievale (dalla storia agraria, alla demografia,  dal commercio alla protoindustria, dall’uso del denaro ai problemi del  prestito, ecc.). Si tratta, infatti, di non farsi condizionare necessariamente  dall’impianto di indagini e dai modelli di sviluppo della società moderna e  contemporanea, ma di indagare i caratteri propri dell’economia medievale. 
           	 In tale  prospettiva risultano illuminanti le parole di Georges Duby, al quale non si  può certo negare un profondo interesse per la storia economico-sociale,  soprattutto nei suoi primi lavori [37]. Ma  proprio Duby, nel suo libro Il sogno  della storia, così argomentava:
           	Ritengo  soprattutto che lo storico di queste epoche debba avere molta cura nel  delimitare il campo dell’economia in funzione non delle proprie abitudini di  pensiero, ma delle concezioni, del sistema di valori e delle rappresentazioni  che si imponevano alle persone del tempo. Chiedersi ad esempio quale fosse la  nozione di proprietà. È questo che mi sembra essenziale; non trasferire tale e  quale un sistema esplicativo (il marxismo o qualsiasi altra forma di quella che  una volta veniva chiamata economia politica) e tutto il vocabolario che essa  impiega, elaborato nel secolo XIX, in base ad un suo modo di concepire ed  esprimere le cose, che è quello del secolo XIX, in un universo mentale del  tutto differente. Evitare l’anacronismo dell’interpretazione che è, beninteso,  la cosa più grave. Si vede per esempio, che la nozione di proprietà si dissolve  in quella di solidarietà, che il campo dell’economia è invaso dall’immateriale,  dalla religione. Così, i doveri che si hanno verso i morti hanno conseguenze  economiche, come diciamo noi, considerevoli. In ciò che noi chiamiamo economia,  il movimento che più si manifesta alla fine del X o nell’XI secolo è un  trasferimento di ricchezza il cui motore è religioso, è provocato da pie  donazioni, dalle offerte fatte per la salvezza delle anime dei vivi e  soprattutto di morti. Come introdurre, senza renderli più sottili, e direi  senza modificarli completamente, nel tessuto della società feudale i nostri  concetti di produzione, di vendita, di profitto, di consumo? Da qua  l’importanza fondamentale dello studio di quanto viene chiamato, con  un’espressione infelice, le “mentalità”[38].  
           	Proprio nel fare  il punto sulla storia economica medievale negli anni Ottanta, la Airaldi sottolineava come molte  nuove ricerche avessero aperto conoscenze in settori prima ignoti (storia del  commercio, della banca, storia agraria, ecc.), ma come sostanzialmente non si  fosse ancora fatta chiarezza su una questione di fondo: ossia sulla sua  identità, sulla legittimità di parlare di una «storia economica medievale»[39]. 
           	 Passi avanti si  sono certamente compiuti, ma rimane la specificità di una società che, se  condivide alcuni caratteri con quelli dei secoli successivi, ne presenta di  propri, non assimilabili a quelli di altri contesti (e spesso ancora da  individuare). 
           	3. Storia generale e storia economica nei  manuali sull’età medievale
           	Come già detto,  uno dei problemi di fondo, sottolineato già dagli anni Settanta,  dell’insegnamento della storia riguarda la struttura e la funzione del manuale,  il testo che, contestato, rivisto, modificato, ormai di seconda, di terza  generazione, rimane nella maggior parte della formazione dei ragazzi l’unico  testo di storia conosciuto. 
           	 Se l’analisi dei  manuali richiederebbe ben altro spazio, non è però forse fuori di luogo  ricordare che così come oggi, pur con la sua evoluzione, noi lo conosciamo,  affonda le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento. 
           	Un’archeologia  del manuale porterebbe alla luce due strati – ideologico il primo, epistemologico  l’altro – risalenti alla seconda metà dell’Ottocento: da una parte l’uso del  passato ai fini di glorificazione dell’unità nazionale e dello stato e di  legittimazione del dominio della borghesia; dall’altro la storia positivista [40].  
           	A questa immagine del passato,  argomenta Mattozzi, ideologicamente funzionale ai gruppi dominanti, la  storiografia positivista forniva gli strumenti di elaborazione concettuale ed  un corpo sistematico di regole metodologiche, postulando la possibilità di  accertare i fatti nel loro reale svolgimento e di ordinarli, attraverso un  monotono ritmo narrativo, in una sequenza cronologica e contemporaneamente  causale (sul modello post hoc propter hoc),  metodo al quale l’analisi critica delle fonti forniva garanzia scientifica di  oggettività. 
           	 L’idea di una  storia generale e narrativa, “coincidente con lo stesso passato nella sua  totalità” ha origine dunque per Mattozzi in tale contesto ideologico e  culturale storicamente determinato e ha valore solo all’interno di esso [41].  Perché questo riferimento ad un passato così lontano? Perché nell’impostazione  di fondo della manualistica molto poco è cambiato: l’impianto è sicuramente  cronologico-narrativo, sorretto dall’evoluzione della storia  politico-istituzionale. Nonostante questo, negli ultimi decenni i manuali si  sono trasformati. Anzitutto i manuali – e mi riferisco soprattutto a quelli  delle scuole secondarie – si sono ampliati, a dismisura: e vorrei indicare  almeno due motivi che hanno agito in tale direzione. 
           	 Il primo motivo  è sicuramente, dunque, di ordine storiografico: recependo i nuovi ampliamenti  della disciplina, i manuali ne sono usciti arricchiti, ma spesso senza la  capacità e la consapevolezza da parte degli autori di comprendere che, in un  dato livello scolastico o universitario, non è possibile aggiungere conoscenze,  senza selezionare. 
           	Già  molto prima della riforma Berlinguer dei programmi di storia (1997), quella che  ha dato più spazio allo studio del Novecento, la storia-disciplina aveva subito  un grande, contraddittorio processo di trasformazione. La progressiva  specializzazione degli studi, la nascita di nuove tematizzazioni, l’esplosione,  in una parola, della storiografia tardonovecentesca, avevano già provocato la  crescita abnorme dei programmi ministeriali e dei libri di testo di storia.  Negli uni e negli altri la disciplina si è gonfiata fino all’inverosimile e,  senza rinunce alle tradizionali scansioni politico-istituzionali, ha accolto  nel suo seno, sull’abbrivo delle feroci critiche al manuale degli anni ’70, la  storia economica e sociale, l’antropologia, la sociologia, la cultura  materiale, la storia della mentalità e dell’immaginario, la microstoria, la  storia di genere, persino la storia della storiografia, nella forma di  antologie storiografiche [42].  
           	Il secondo  motivo è di ordine didattico, dal momento che i manuali recepiscono le  riflessioni – peraltro fatte proprie anche dalle indicazioni ministeriali – di  una disciplina storica che sia significativamente attenta anche agli aspetti  più prettamente storiografici e alla presentazione delle fonti: ossia i manuali  devono fornire la strumentazione utile all’insegnante non solo in funzione di  una trasmissione di nozioni, ma di una didattica laboratoriale. Ecco dunque che  il manuale si arricchisce, talvolta anche a dismisura, di testi che si  aggiungono al testo di base: apparati iconografici, fonti, brani storiografici,  esercizi, ecc. 
           	 Se dunque il  manuale rimane come impianto “quello che era” per altri aspetti diventa  strumento totalmente nuovo e innovativo. 
           	 Parallelamente  nella manualistica universitaria si avvertono mutamenti e contraddizioni, anche  se non si è ancora arrivati ad individuare quali potrebbero essere nuovi  strumenti adeguati per l’insegnamento, ad ogni livello. L’intervento  volutamente provocatorio di Corrao dal titolo Il manuale è finito, viva il  manuale! Considerazioni sulla manualistica a proposito di M. Montanari, Storia Medievale [43] ha  messo a fuoco una serie di problemi, che rimangono tuttora irrisolti. Il punto  d’avvio era un manuale [44] destinato agli studenti universitari del triennio, del quale viene dato del  resto un giudizio positivo, pur nella sottolineatura dell’impianto  tradizionale:
           	adotta  la scelta di mantenere la tradizionale struttura cronologica e tematica –  arricchita da significativi riferimenti al dibattito storiografico – procedendo  ad una operazione di sintesi quantitativa, in molti casi ben riuscita, senza  alterare lo schema consolidato della manualistica, con le sue sottolineature  tematiche della prospettiva italiana e il suo forte radicamento negli  orientamenti propri della medievistica del nostro paese a partire dal suo  consolidamento accademico [45].  
           	Proprio sulla  manualistica universitaria paiono essersi concentrati gli interessi prevalenti  della produzione e della riflessione critica medievistica in campo didattico.  Accanto alle riflessioni di Corrao sul testo di Massimo Montanari si possono  ricordare le riflessione di Andrea Zorzi in merito al testo di Gabriella  Piccinni. 
           	Negli  ultimi anni si assiste a una vera e propria proliferazione editoriale della  manualistica di livello universitario, anche in ambito storico, e medievistico  in particolare. Anticipando le profonde riforme dei percorsi didattici che, in  un quadro non sempre chiaro e privo di incertezze, attendono ancora la loro  attuazione, la pubblicazione sempre più intensa di guide, manuali, sintesi  introduttive, antologie di fonti, è un segnale del crescente disagio in cui  versa la didattica universitaria italiana, e di quella delle discipline  umanistiche in particolare, stretta, come appare, tra la crisi scolastica della  formazione secondaria superiore e le esigenze di periodico aggiornamento degli  strumenti di base alle più recenti acquisizioni della ricerca… 
           			I mille anni del Medioevo di Gabriella Piccinni è dunque una sintesi che ha il  pregio della non neutralità interpretativa, esplicita nelle scelte e sicura  nell’esposizione. Vi traspaiono gli interessi storiografici dell’A. per la  storia demografica, economica e sociale, per quella delle campagne e delle  città, per gli aspetti materiali della vita quotidiana, e per la storia della  mentalità e delle donne …La materia, come si è cercato di illustrare, è  organizzata con sistematicità e coerenza cronologica, la sua presentazione  segue un’impostazione problematica [46].  
           	Possiamo anche  ricordare le riflessioni di Isabella Lazzarini su un volume che propriamente  manuale non è ma che, giustamente, viene ricondotto alla manualistica  universitaria sul medioevo proprio perché sempre più frequentemente la  strategia editoriale prevede, accanto alla pubblicazione di manuali di base,  quella di una guida di introduzione allo studio dei diversi periodi storici.  Anche questa nuova tendenza deve portare a riflettere, soprattutto se, come  ritiene la Lazzarini,  la creazione di questi strumenti tende a sopperire ad una “riduzione” di quanto  proposto dal manuale tout court,  tenendo conto delle mutate condizioni culturali e della ricerca. 
           	Questi  tre diversi livelli – la pratica di una didattica di base che deve tener conto  delle mutate competenze e delle diverse aspettative degli studenti, il modello  di una didattica “alta” elaborata dagli storici, la proposta didattica delle  case editrici – si intersecano in vario modo nella produzione manualistica  corrente, generando prodotti di valore diverso e di diversi obiettivi: i  risultati di questa operazione e la loro ricaduta sullo studio della storia  medievale in Italia meriterebbero un’indagine più approfondita [47].  
           	Indubbiamente,  dunque, un problema a livello di produzione di manuali esiste: e meriterebbe  qualche studio più ampio soprattutto sui manuali di scuola secondaria inferiore  e superiore. 
           	 In relazione  alla storia economica, ciò che risulta più evidente nello sfogliare – non parlo  di analisi sistematiche – i manuali in uso è la asistematicità della  trattazione degli aspetti economici (aggiungerei demografici e sociali). I  manuali continuano ad avere come filo conduttore la storia politica, alla quale  si sono aggiunti altri saperi, suggeriti dalla condivisione di un’idea di  “storia totale”, nella quale tutti gli aspetti della società – e quindi anche  l’economia – devono avere uno spazio. Ma gli aspetti più propriamente economici  appaiono frammentariamente, solo laddove sembrano costituire un elemento  necessario: in tutti i manuali si parlerà della cosiddetta “ruralizzazione”  dell’economia tra tarda antichità e alto medioevo, in tutti i manuali si  tratterà del sistema curtense (spesso trattandone sulla base di luoghi comuni) [48]. Al  contrario quella che appare la “normalità” non viene trattata: ad esempio non  si troveranno riferimenti all’economia delle campagne nel XII secolo e XIII  secolo, perché per questo periodo l’attenzione si concentra in modo  privilegiato sull’economia cittadina e/o sullo sviluppo del commercio. 
           	 Altra  impressione che si ricava è una sorta di “imbarazzo metodologico” a rapportare  il livello dello sviluppo economico allo sviluppo sociale, politico, ecc.  Infatti da un lato sembra di percepire un nesso di causa/effetto tra sviluppo  economico e mutamenti della società nel suo complesso, come se fosse l’economia  il motore di ogni cambiamento. D’altro canto, il filo rosso della storia  politica spezza di fatto questa lettura interpretativa: spesso è dai mutamenti  politici che si fanno derivare direttamente le grande svolte della storia di  una società, anche delle trasformazioni economiche e sociali. Certamente non si  può chiedere a manuali di scuole medie inferiori e superiori di risolvere  problemi di metodo di ampia portata: ma ancora una volta ne deriva una grande  confusione e incertezza. È così che il feudalesimo si confonde con il sistema  curtense; è così che lo sviluppo delle istituzioni comunali viene direttamente  ricollegato (in rapporto di causa/effetto) allo sviluppo del commercio, e via  dicendo … 
           	 L’impressione  complessiva è che molta strada vi sia ancora da fare, per dare alla produzione  manualistica una solidità disciplinare ed una leggibilità e comprensibilità  consone ai diversi livelli di studi superiori e universitari. 
           	 Anche se con un  breve accenno, vorrei sottolineare come negli ultimi anni, con la nascita delle  Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore (SSIS) [49], il  dibattito si sia fatto molto più ampio, dal momento in cui l’università ha  concretamente ripreso il contatto (e il confronto) con il mondo della scuola [50]. 
           			3. È possibile  definire i “saperi minimi” della storia economica medievale?
           			Tutte le  osservazioni fatte sopra vogliono suggerire la difficoltà di chi si accinga a  riflettere sui cosiddetti “saperi minimi” della storia economica medievale e,  soprattutto, vogliono evidenziare come non sia possibile affrontare una  riflessione di natura didattica [51] senza tenere ben presenti tutte le implicazioni proprie dello sviluppo della  disciplina [52]. 
           			 Anzitutto perché  vi è una difficoltà nel definire cosa si debba intendere per “sapere minimo” in  ambito storico. Penso al Documento dei  saggi (1997), elaborato dalla commissione voluta dal ministro Berlinguer, e  a I contenuti essenziali per la  formazione di base (1998), che avevano aperto un ampio e vivace dibattito  sulla creazione di un ambito disciplinare storico-geografico-sociale, del  curricolo verticale di storia, culminato nel febbraio 2002 con la presa di  posizione di un gruppo di storici (il “Manifesto dei trentatré”) [53].  Anni fecondi di discussioni [54] e  prese di posizioni assai diverse [55],  sino alle novità introdotte dalla riforma Moratti [56] e  dalle Indicazioni nazionali per i piani  di studio personalizzati,  fortemente criticati in prospettive diverse [57].  L’uso della storia, la funzione della storia nella scuola e nella società, la  didattica della storia, non appaiono più temi marginali dei quali lo storico  non ha il compito di occuparsi [58]. 
           			
					
					
					
					 Non volendomi  del tutto sottrarre ad un compito che mi appare sempre più complesso e di non  semplice soluzione, credo che questo intervento si debba chiudere con molte  domande e poche certezze. Per l’insegnamento della storia, al pari e più di  altre discipline, risulta assai difficile operare una selezione [59],  anche se ormai da tutti essa è ritenuta necessaria. Non sempre ne sono chiari i  criteri, nel momento in cui la disciplina è progressivamente cresciuta, nei  suoi saperi, anche grazie all’apporto di altre discipline (e tra di esse la  storia economica [60]); d’altro canto anche il  dibattito sulla didattica della storia ha trovato nuovi spazi. 
					 L’individuazione  dei “saperi minimi” non è quindi solo un’operazione di definizione dei livelli  diversi di conoscenza nei diversi gradi del curriculum, ossia non si tratta di elaborare, partendo da una conoscenza elementare,  quali temi debbano via via essere aggiunti e quali approfondimenti devono  essere individuati. Di fatto, ciò presuppone anche l’acquisizione di un metodo,  che avvicini sempre più lo studente alla metodologia della ricerca,  all’acquisizione di conoscenze e abilità in merito alla storiografia e alle  fonti storiche. I “saperi minimi”, dunque, non possono essere semplicemente  definiti come nozioni di base – fatti, avvenimenti, problemi – consone ad un  certo grado di scuola (scuola primaria; scuola secondaria inferiore; scuola  secondaria superiore; laurea di primo livello; laurea di secondo livello;  scuola di specializzazione per l’insegnamento). Ad essi si deve coniugare  l’acquisizione di conoscenze e competenze in progressione [61]. 
					 Talvolta  costruiti più sulla base delle conoscenze degli autori che in funzione del  grado di scuola al quale sono destinati, i manuali presentano comuni elementi  negativi: un eccesso di semplificazione, che spesso è solo eccesso di  sinteticità, che non rinuncia ad esprimere concetti complessi; un lessico poco  preciso, con l’uso di termini il cui significato talvolta sfugge agli stessi  autori, che non lo padroneggiano con sufficiente abilità; una mancanza di  chiarezza nella spiegazione di fenomeni complessi, con evidenti salti logici  nella trattazione dei problemi; ecc. 
					 Tutte queste  osservazioni portano dunque alla consapevolezza che non vi è una semplice  soluzione al tema proposto; questo intervento si vuole proporre come apertura  di un dibattito. 
					 A quanto detto  aggiungiamo che qui si dà per scontato il problema della periodizzazione,  accettando come limiti cronologici il cosiddetto medioevo. Si tratta,  ovviamente, non di mancanza di consapevolezza di quanto complesso sia il  problema di definizione di “età della storia” [62]; né  significa d’altro canto non essere consapevoli che, nel momento in cui ci si  pone dal punto di vista della storia economica, la periodizzazione presenta  ancor di più i suoi limiti. Richiamo soltanto, nella complessa querelle sul problema, tutte le  discussioni – ormai datate – sul passaggio dal feudalesimo al capitalismo [63],  l’importanza assunta dalla cosiddetta “crisi del Trecento” come momento di  cesura [64], e  ancora le proposte di periodizzazioni diverse, come quella di individuare  un’età che, sulla base delle strutture economiche, può essere definita preindustriale[65]. 
					 Propongo dunque  un’ipotesi di livelli di conoscenze minime che dovrebbero essere possedute alla  fine del ciclo delle scuole secondarie superiori. Della cosiddetta “grammatica  di base” delle conoscenze storiche, dovrebbero far parte conoscenze e modalità  di approccio critico, non solo nozioni di avvenimenti e di fatti politici, ma  anche conoscenze sulle strutture economiche della società medievale. 
           			Una  conoscenza di lungo periodo, sistematica e non frammentaria delle strutture  economiche
           			Una periodizzazione  potrebbe suddividere il medioevo in quattro “macroperiodi” (tardo antico, alto  medioevo, pieno medioevo, tardo medioevo), in base ai quali dovrebbero essere  date indicazioni sintetiche ma complete sui seguenti aspetti:  
           							
           									- rapporto uomo/ambiente
 
           									- trends demografici
 
           									- strutture produttive (agricoltura e allevamento,  artigianato e/o industria, commercio)
 
           									- uso del denaro e del sistema creditizio
 
           									- distribuzione della ricchezza tra gruppi sociali
 
           									- modalità di organizzazione del lavoro  (schiavitù, servitù, salariato, corporazioni, ecc.)
 
           									- conoscenze tecniche e loro diffusione nel mondo  della produzione.
 
						 
           	Tale trattazione di lungo periodo  dovrebbe essere costruita in modo tale da aiutare ad acquisire la capacità di: 
           	
           			- riflettere sui tempi della storia[66]
 
           			- affrontare in modo problematico la  periodizzazione [67]
 
           			- individuare le fluttuazioni, i trends, i cicli [68]
 
           			- evitare una lettura schematica e deterministica  dei processi economici 
 
           			 
           	Una  conoscenza delle specificità dell’economia medievale, con l’individuazione di  alcuni nodi tematici caratterizzanti il medioevo 
           	I temi qui  indicati non sono che esemplificazioni di argomenti che si potrebbero trattare,  tenendo presente che dovrebbero essere ampi e fondanti rispetto ad un dato  contesto economico:  
           							
           									- processo di ruralizzazione nel tardo antico
 
           									- la curtis
 
           									- l’economia delle campagne
 
           									- l’economia cittadina
 
           									- la “rivoluzione commerciale”
 
           									- le corporazioni
 
           									- schiavitù e servitù
 
           									- la “protoindustria”
 
           									- il tempo e lo spazio
 
           									- l’etica economica medievale
 
						 
           			Proposte  di lettura di testi storiografici e/o di fonti 
           	Le proposte  dovrebbero essere particolarmente significative e pregnanti al fine di  introdurre in modo adeguato lo studente a tematiche specifiche. 
           							
           									- Un brano di Vito Fumagalli [69] potrebbe aiutare a comprendere come la proprietà della terra e il suo sfruttamento  acquisiscano significati diversi rispetto agli attuali se il contesto del  rapporto uomo/natura [70] è  totalmente diverso:
						
           	
La  stessa mancanza di una concezione e pratica di piena proprietà delle terre  incolte rappresentava, nell’accavallarsi dei diritti e nella difficoltà di  chiaramente definirli, un fattore di grande confusione, anche se proprio la  mentalità dell’uso comune di boschi e paludi propiziava l’abitudine a non  delimitare con rigore le competenze. La sostanziale comproprietà delle aree non  coltivate, sulle quali, con sfumature e gradazioni, un po’ tutti avevano  diritti, si trattasse anche di boschi, brughiere e paludi di appartenenza  privata, non ne permetteva la recinzione, perché fosse libero attraverso di  essi il transito di uomini, carri e animali. Ma bastava l’impennata impulsiva  del proprietario di rango più elevato o l’esigenza di definire i reciproci  obblighi e doveri in particolari circostanze o lo scoppio di faide familiari o  la diffidenza di colui che deteneva la somma più elevata di diritti d’uso, che  la lite divampava colorita ed esasperata dalla tensione di caratteri impulsivi  e violenti. Allora proprio l’intreccio complicato di diritti e doveri dava  facile adito a mille contestazioni, allineandosi, nell’ingarbugliare la matassa,  al rudimentale sistema di confinazione. 
           			A  mano a mano che da un tipo di organizzazione tribale la popolazione di origine  longobarda, o comunque barbarica, anche per influenza dei conviventi romani,  passava a forme più ristrette di coesione parentale, allora il senso della  piena proprietà, della proprietà privata, cozzava sempre più violentemente, con  il passare del tempo, contro la forma del possesso comune degli spazi incolti [71].  
           									- Un brano di Georges Duby potrebbe  essere particolarmente significativo della necessità di definire meglio alcuni  parametri di riferimento, inserendo concetti, quali ad esempio il dono, che  oggi non appartengono allo studio della storia economica in senso stretto:
           	
Leggendo  gli etnologi, e più particolarmente gli africanisti – Meillassoux, Augé o  Althabe – fui, ancora una volta, meno sensibile alle proposte teoriche che alla  descrizione dei fatti, all’analisi di quei casi particolari che pongono in  evidenza rapporti inosservati, a molte notazioni concrete che attinsi dai loro  lavori e che, mostrandomi l’interesse di utilizzare concetti che non ero solito  maneggiare, come quelli di reciprocità e di ridistribuzione, mi costrinsero a  considerare in un’ottica completamente diversa la società feudale, a  riconoscere segnatamente che l’economia non vi occupava il campo e non vi  rivestiva il ruolo che io le attribuivo sulla scia di Pirenne e anche di Marc  Bloch. Ciò che scrissi di più nuovo in Guerriers et paysans oltre al  riferimento alla storia del clima di cui Emmanuel Le Roy Ladurie era allora in  Francia il promotore, deriva da tali letture. Mauss, Polanyi, Veblen  m’insegnavano a concedere un largo spazio alla gratuità nei circuiti di scambi.  Scoprii così la funzione eminente che aveva assunto nell’XI e XII secolo in  seno a comunità di cui credevo di conoscere bene il comportamento, la  larghezza, cioè l’obbligo e il piacere di dare a piene mani, quella cui avevano  ottemperato il gioco, la festa, il dovere di distruggere, di sacrificare  solennemente, di quando in quando, delle ricchezze. Mi vedevo costretto ad  annoverare tra i consumatori e i distributori personaggi che avevo omesso di  prendere in considerazione, invisibili ma numerosi, esigenti, generosi  talvolta, vendicativi: i santi protettori e i morti. Dovetti arrendermi  all’evidenza: per gli uomini che, ai tempi delle crociate, coltivavano la terra  europea, proprio come per gli agricoltori del Mali o del Madagascr di oggi, il  rendimento della semina dipendeva sia dalla pace e dai favori del cielo sia  dalla qualità del grano o dal lavoro dei buoi da aratura. Si preoccupavano  dunque di ottenere tale pace, tali favori. Era perciò che portavano, senza  recalcitrare come fino ad allora ero stato propenso a supporre, verso il  monastero, fonte di grazie, o verso il castello, garante dell’ordine pubblico e  della giustizia, una porzione importante del prodotto della loro fatica. Non  dovevo dunque considerare più quei canoni come “un affitto della terra”, come  un elemento della “rendita fondiaria”. Essi rappresentavano una ricompensa per  una grazia ricevuta o da ricevere, costituivano effettivamente per i contadini  che li versavano e per il signore che li riceveva, “regali”, come del resto li  designava il latino degli inventari. Regali simbolici, dato che i gesti che li  facevano passare da una mano a un’altra contavano molto di più del loro valore  reale. Tale scoperta m’imponeva ovviamente di rettificare giudizi che credevo  indubitabili quanto agli effetti supposti sui rapporti sociali di fenomeni  quali, per esempio, il deprezzamento delle specie monetarie del XII secolo[72].  
           									- O ancora, a segnare la specificità di un  millennio proprio nell’ambito dell’economia, e più in particolare del pensiero  economico medievale, un recente saggio di Giacomo Todeschini:
           	
Bisogna  subito capire che, nel lungo tratto di secoli che costituì il Medioevo, la  riflessione sull’economia cominciò dall’interno più profondo del pensiero  religioso, o, per meglio dire, teologico. Con questo si intende dire che, fin  dall’epoca patristica, dunque a partire dal IV secolo, le riflessioni prodotte  dal mondo cristiano sull’economia sono da rintracciare non in trattati di  scienza economica, inesistenti e anacronistici, ma in scritti conciliari, in  commenti alle Sacre Scritture e – generalmente – in riflessioni sulla morale  sociale. Questo aspetto formale, ma, come si vedrà, sostanziale, comincerà a  cambiare dal XIII secolo, quando – accanto alle tipologie suddette –  cominceranno ad apparire scritti direttamente dedicati all’organizzazione del  mercato cittadino. Ma anche in quest’ultimo caso non bisogna perdere di vista  il fatto che queste trattazioni hanno comunque la loro radice più profonda  nelle elaborazioni teologiche e morali, tardoantiche e altomedievali, che  avevano introdotto, in Occidente, la riflessione economica come sezioni specializzata  del pensiero religioso[73].   
           	E non sono che  alcuni degli esempi possibili, con un comune denominatore: far comprendere agli  studenti come nei meccanismi che regolano la vita economica entrino componenti  non deterministiche e meccanicistiche, ma scelte e valori di riferimento che  costruiscono il substrato su cui si inserisce un determinato tipo di economia. 
           	
									[1] Nell’ampio dibattito in  merito basti per ora citare P. Bevilacqua, Sull’utilità  della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Roma 1977.  
							[2] P. Prodi, La storia moderna, Bologna 2005  (estratto da Id., Introduzione allo  studio della storia moderna, Bologna 1999), p. 26.  
           					
							[3] J. Le Goff, La nuova storia, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff,  Milano 1980, p. 14. 
							[4] Op. cit., p. 12. 
							[5] L. Febvre, Vivere la storia, in F. Braudel, Problemi di metodo storico, Torino 1976,  p. 141. 
							[6] S. Pizzetti, Per una storia della storiografia del  Novecento, in La storia nella scuola. Ricerca storica ed esperienze didattiche, a cura di S. Carmo (presentazione  di G. Vitolo), Genova-Milano 2002, p. 168. 
							[7] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino 1969, p. 41. 
							[8] Cfr. G. Lefevbre, La storiografia moderna, Milano 1973, capitoli dedicati alla storiografia ottocentesca. 
							[9] Cfr. P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola  delle “Annales”, 1929-1989, Roma-Bari 1993. 
							[10] Prodi, La storia moderna  cit., p. 25. 
							[11] E. Lastrucci, La formazione del pensiero storico, Torino 2000, in particolare Fra tradizionalismo e rinnovamento: il  dibattito sulla storia insegnata e la sperimentazione didattica in Italia dagli  anni Sessanta ad oggi, alle pp. 237-242. 
							[12] G. Ricuperati, Tra didattica e politica: appunti  sull’insegnamento della storia, in «Rivista di storia contemporanea», 4  (1972), pp. 496-516. Il volume dello stesso autore, Clio e il centauro Chirone, Milano 1989 raccoglie altri interventi  in materia tra gli anni 1978 e 1987. 
							[13] G. Ricuperati, Storiografia e insegnamento della storia, in  «Passato e presente», 2 (1982), poi in Id., Clio  e il centauro Chirone cit., p. 43. 
							[14] Editoria e insegnamento della storia, in «Italia contemporanea», 128 (1977), p. 78. 
							[15] I. Mattozzi, Contro il manuale per la storia come  ricerca. L’insegnamento della storia nella scuola secondaria, in «Italia  contemporanea», fasc. 131 (1978), pp. 63-79. 
							[16] Lastrucci, Fra tradizionalismo e rinnovamento cit.,  p. 251. 
							[17] Op. cit., p. 253. 
							[18] Op. cit., pp. 279 sgg. 
							[19] G. Deiana, Il paradigma e il “decalogo”. Nodi e  indicatori del nuovo paradigma didattico: undici tesi per ripensare  l’insegnamento della storia, in Id., Io penso che la storia ti piace. Proposte per la didattica della storia nella  scuola che si rinnova, n.e., Milano 1997, p. 39. 
							[20] W. Bendazzi, Un curricolo di storia: Esperienza  d’insegnamento nella Scuola Media, Milano 1982, pp. 40-41. 
							[21] J. Le Goff, Ricerca e insegnamento della storia, a  cura di A. Santoni Rugiu, Firenze 1991, pp. 19-21. 
							[22] D.M. 4 novembre 1996, «Nuove  suddivisioni cronologiche dei programmi di storia» e D.M. 31 gennaio 1997, con  i «Programmi di storia per il triennio di qualifica professionale»: cfr. B. De  Gerloni, Tra passato e presente:  tradizione e innovazione nell’insegnamento della storia, in La storia fra ricerca e didattica, a  cura di B. De Gerloni, IPRASE Trentino, Milano 2003, pp. 57 sgg. 
							[23] Legge 28 marzo 2003 n. 53  e successivo D.L. 19 febbraio 2004, n. 59. 
							[24] Ricordo l’intervento,  anche se più interessato alla riforma dell’Università, di G.Vitolo, Una riforma  da riformare o da migliorare, in «Reti Medievali», 3 (2002), 1 (gennaio-giugno), ‹../rivista/forum/Vitolo.htm›. 
							[25] S. A. Bianchi, Insegnare a imparare la storia nella scuola  secondaria di primo grado. Proposte per un “insegnante allenatore, Bologna  2005, p. 46. 
							[26] De Gerloni, Tra passato e presente cit., p. 65. 
							[27] Op. cit., pp. 104 sgg. 
							[28] D.L. 19 febbraio 2004,  n. 59, Allegato C. 
							[29] Il convegno è stato  organizzato dal Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università degli Studi  di Bologna. 
							[30] G. Lefebvre, La storiografia moderna, Milano 1973, in particolare il capitolo XVII, «La storia economica», alle pp. 296-305. 
							[31] K. Pomian, Che cos’è la storia, Milano 2001, p.  251. 
							[32] Pizzetti, Per una storia della storiografia del  Novecento cit., p. 164. 
							[33] Pomian, Che cos’è la storia cit., p. 252. 
							[34] G. Bois, Marxismo e nuova storia, in La nuova storia cit., p. 257. 
							[35] Le Goff, La nuova storia cit., p. 40: «il  grossolano primato assegnato all’economia nella spiegazione storica… la  credenza nella storia lineare svolgentesi secondo un unico modello evolutivo». 
							[36] G. Airaldi, La storia economica del mondo medievale,  in La storiografia italiana degli ultimi  vent’anni. I. Antichità e medioevo, Atti del convegno della Società degli Storici Italiani (Arezzo, 2-6  giugno 1986), a cura di L. De Rosa, Bari 1989, pp. 355-361; il brano di De Rosa  è citato a p. 358. 
							[37] G. Duby, L’economia rurale nell’Europa medievale, Bari 1972; Id., Le origini dell’economia  europea, Roma-Bari 2004 . 
							[38] Cito da Airaldi, La storia economica del mondo medievale cit., p. 360. 
							[39] Op. cit., p. 361. 
							[40] Lastrucci, Fra tradizionalismo e rinnovamento cit.,  p. 256. 
							[41] Mattozzi, Contro il manuale cit., pp. 63-79. 
							[42] F. Senatore, La formazione degli insegnanti di storia.  Difficoltà e ambiguità nel rapporto tra università e scuola, Atti  del convegno Le Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) e la  didattica della storia, in «Reti Medievali»  (Rivista), III/2 (2002), ‹../rivista/atti/ssis.htm›. 
							[43] P. Corrao, Il manuale  è finito, viva il manuale! Considerazioni sulla manualistica a proposito di M.  Montanari, “Storia Medievale”, in «Reti Medievali» (Didattica, Strumenti),  2002, ‹../didattica/strumenti/montanari-corrao.htm›. 
							[44] M. Montanari, Storia medievale, Roma-Bari 2002. 
							[45] Corrao, Il manuale è  finito, viva il manuale cit. 
							[46] G. Piccinni, I mille anni del Medioevo, Milano 1999; recensione di A. Zorzi, in «Reti  Medievali» (Didattica, Strumenti), 2002, ‹../didattica/strumenti/Zorzi_Piccinni.htm›. 
							[47] I. Lazzarini, Intorno a “Guida allo studio della storia medievale” di P. Cammarosano: i diversi livelli della manualistica, in «Reti Medievali» (Didattica, Strumenti), 2005, ‹../didattica/strumenti/lazzarini.htm›. 
							[48] Cfr. G. Sergi, L’idea di medioevo. Tra senso comune e  pratica storica, Roma 1998 e successive edizioni, capitolo intitolato I  secoli della presunta economia ‘chiusa’e ‘naturale’. 
							[49] G. Luzzatto, Insegnare ad insegnare. I nuovi corsi  universitari per la formazione dei docenti, Roma 1999; Università e formazione degli insegnanti: non si parte da zero, Udine 2002; La SSIS a Ferrara tra didattica e ricerca, Atti  del seminario di studi (Ferrara 8 novembre 2004), a cura di L. Bellatalla, Pisa 2005; L’insegnante di qualità. La  formazione iniziale professionale tra Scuola e Università, a cura di C.  Bertacchini - M. R. Fontana, Bologna 2005. 
							[50] Cfr. il convegno tenutosi  all’Università Cattolica di Milano, nel giugno 2001, dal titolo Le Scuole di  specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) e la didattica della  storia. Gli atti sono pubblicati in «Reti Medievali»  (Rivista), III/2 (2002), ‹../rivista/atti/ssis.htm›. Cfr. in particolare i saggi di E. Artifoni, Didattica universitaria, didattica per insegnanti: appunti su un  biennio; F. Senatore, La formazione  degli insegnanti di storia cit.; G. Albini, L’organizzazione della didattica della storia nelle SSIS. 
							[51] La storia fra ricerca e didattica cit. 
							[52] Cfr. S. A. Bianchi – C.  Crivellari, Nessun tempo è mai passato.  La mediazione didattica tra storia esperta e storia insegnata, Roma 2003. 
							[53] A. Brusa, La didattica sotto accusa, in «I viaggi  di Erodoto», 35 (1998), pp. 40-49. 
							[54] Cfr. F. Fiore, Rincorrere o resistere? Sulla crisi della  scuola e gli usi della storia, in «Passato e presente», 19 (2001), fasc. 52, pp. 97-115; D. Notarbartolo, Conoscenze,  saperi e nuovi curricoli. A margine della pubblicazione dei nuovi curricoli per  la scuola di base, e in attesa di quelli per le superiori, in «Lineatempo.  Itinerari di ricerca storica e letteraria», 5 (2001), fasc. 1, pp. 130-137. 
							[55] L’insegnamento della storia nei nuovi cicli primario e secondario, Faenza 2001. 
							[56] Legge 28 marzo 2003, n. 53. 
							[57] Cfr. ad esempio il  documento elaborato a Bologna in occasione dell’incontro tenutosi nel 2004  presso il Dipartimento di Discipline Storiche su I nuovi programmi di  storia: una minaccia per la formazione storica e critica dei cittadini sul  sito ‹http://www.storiairreer.it/Materiali/Materiali/DocDipStoBO.pdf›,  oppure cfr. la nota inviata nel maggio 2004 al Ministero da Clio ’92, l’Associazione di insegnanti e  ricercatori sulla didattica della storia sul sito ‹http://www.clio92.it›. 
							[58] Bevilacqua, Sull’utilità della storia cit.; P. Corrao – P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Roma  2002. 
							[59] Sulla difficoltà ad individuare  criteri di selezione didatticamente valide cfr. le riflessioni di A. Brusa, Il nuovo curricolo di storia, in «Ricerche  storiche», fasc. 81 (1997), ora in …“non  è più la stessa storia!”…, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione  Generale Istruzione Professionale, Roma 1999, pp. 65-78. 
							[60] In particolare sulle  questioni relative alla storia economica cfr. W. Kula, Problemi e metodi di storia economica, Milano 1972. 
							[61] Per un’analisi di alcuni manuali di storia medievale,  fino agli anni ’80, cfr. C. Crivellari, La  storia medievale nei manuali scolastici italiani dal dopoguerra agli anni ’80,  Quaderno n° 6 della SSIS del Veneto, ‹http://www.univirtual.it/ssis/editoriale.htm›. 
							[62] S. Guarracino, Le età della Storia. I concetti di Antico,  Medievale, Moderno e Contemporaneo, Milano 2001. 
							[63] La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Roma 1975. 
							[64] Cfr. R. Romano, L’Europa tra due crisi, Torino 1970. 
							[65] C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna 1974; P. Malanima, Economia  preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Milano 1995. 
							[66] F. Braudel, Scritti sulla storia, Milano 2003 (con  introduzione di A. Tenenti), in particolare il capitolo Per una economia storica, pp. 105-114, già pubblicato in «Revue  économique», 85 (1950), fasc. I, pp. 37-44. 
							[67] Guarracino, Le età della Storia cit. 
							[68] L. De Rosa, Congiuntura, sviluppo e cicli economici, in Nuovi metodi della ricerca storica, Atti del II congresso nazionale  di scienze storiche, organizzato dalla Società degli Storici Italiani (Salerno, 23-27 aprile 1972), Milano 1977, pp. 145-166. 
							[69] Cfr. ora Uno storico e un territorio: Vito Fumagalli  e l’Emilia occidentale nel Medioevo, a cura di R. Greci e D. Romagnoli, Bologna  2005 e, in particolare, per il rapporto uomo/natura, G. Albini, Il rapporto uomo/natura nelle opere di Vito  Fumagalli, alle pp. 61-84. 
							[70] Cfr. G. Deiana, Le radici storiche del rapporto tra uomo e  natura. Un percorso di storia ambientale, in Il laboratorio di storia. Problemi e strategie per l’insegnamento nella  prospettiva dei nuovi curricoli e dell’autonomia didattica, Milano 2001,  pp. 181-192. 
							[71] V. Fumagalli, Il regno italico, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, vol. II, Torino 1978, pp. 86-87. 
							[72] G. Duby, La storia continua, Milano 1991, p. 80. 
							[73] G. Todeschini, La riflessione etica sulle attività  economiche, in Economie urbane ed  etica economica nell’Italia medievale, a cura di R. Greci, Roma-Bari 2005,  p. 153. 
           			 
            |