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Didattica

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione I – Il potere signorile nelle campagne

4. Controversia tra i canonici di S. Alessandro di Bergamo e i “rustici” di Calusco

Nell’imponente edizione degli Atti del Comune di Milano fino all’anno MCCXVI, a c. di C. MANARESI, Milano, Capriolo & Massimino, 1919, sono compresi una trentina di atti di giurisdizione che interessano direttamente il problema della signoria; a titolo di orientamento possiamo indicare, tra i documenti più significativi, quelli a pp. 37 n. XXV, 149 n. CVIII, 166 n. CXXI, 207 n. CXLI, 289 n. CCIV, 450 n. CCCXXXIII, 476 n. CCCLVII, che potranno utilmente venire confrontati con le consuetudini milanesi raccolte nella compilazione del 1216: E. BESTA – G. L. BARNI, Liber Consuetudinum Mediolani anni MCCXVI, n. ed., Milano, Giuffrè, 1949 (il capitolo 21, pp. 108-114, è tutto dedicato ai rapporti signorili). Qui abbiamo tradotto uno dei documenti più antichi, tra quelli editi dal Manaresi (p. 6, n. III, del luglio 1130). Avendo acquistato nel 1126 il castello e la signoria di Calusco, i canonici di Bergamo vantavano diritti signorili sui rustici del luogo, anche su quelli che avessero i loro sedimina (cioè il podere con la casa di residenza) altrove (su questo importante particolare si potranno esaminare altri documenti negli Atti cit.: ad es. pp. 32 n. XXI, 35 n. XXIII, 246 n. CLXXI). Per questo i canonici intentarono una prima causa presso il vescovo di Bergamo e la vinsero; ma i rustici fecero opposizione e si dovette ricorrere a un giudizio arbitrale: furono scelti come arbitri i consoli di Milano, che dopo aver ricostruito le testimonianze rese nella causa precedente diedero nuovamente ragione ai canonici.


In nome di Cristo. Il giorno venerdì, undicesimo del mese di luglio, nella città di Milano, nella pubblica piazza cittadina, in presenza di numerosi cattanei, valvassori ed altri cittadini [1], Ungaro detto da Corteduca console di questa città, dietro consiglio e decisione degli altri consoli milanesi (seguono i nomi), pronunziò la sua sentenza nella causa pendente tra i ministri della chiesa di S. Alessandro di Bergamo e i rustici della località di Calusco Superiore.

Tale era la causa. I ministri della chiesa di S. Alessandro dicevano che i rustici erano tenuti nei loro confronti all’osservanza di tutte le prestazioni, gli usi e gli obblighi personali quali erano risultati dalle testimonianze rese sotto giuramento nel processo condotto dal vescovo di Bergamo, quando questi aveva presieduto alla sentenza e alla definizione della causa, e che si potevano leggere nel verbale. Dai rustici tali prestazioni, usi e obblighi venivano in parte negati, in parte ammessi.

Per ciò che le veniva negato, la parte della chiesa produsse come testimoni Gerardo da Paderno e Ottone da Villa. Al cospetto dei consoli milanesi – ai quali le parti avevano affidato la decisione della causa con costituzione di pegni [2] – e al cospetto del popolo i due affermarono sotto giuramento di aver veduto e sentito Bonifacio da Calusco, il giudice Gezone da Cernusco e Truffo di Attone da Calusco giurare, in presenza del vescovo e di molti altri, che erano lì nel castello vecchio di Calusco, di aver visto che i rustici di Calusco erano soggetti alle prestazioni, agli usi e agli obblighi seguenti (nei confronti di colui che avrebbe poi venduto i suoi diritti alla chiesa): il districtus (ogni volta che venisse sporta una querela che comportasse un banno), il fodro quando piacesse al signore, un adiutorium in occasione di nozze, di sponsali o di compere, la partecipazione all’esercito per quanti appartenessero alla castellana [3], 6 denari l’anno, due polli, un fascio di fieno, due staia di grani, il servizio di trasporto con asini sino a Milano e sino all’Oglio, il servizio di trasporto, con i buoi, del vino al castello e del fieno dal prato al fienile, e ancora le pietre, la sabbia e la calcina per costruire le case dei signori; davano inoltre il fieno ai cavalli, quando questi venivano mandati alle loro case, fornivano ogni giorno di letti la curia, davano le catene per i focolari e i recipienti da cucina, le erbe degli orti e dei campi e le vinacce dei tini e prestavano la loro opera a cavare pietre e a tagliare legna per le case e per le fornaci.

Queste attestazioni giurate confermarono i consoli nella propria persuasione e Ungaro, dietro consiglio e decisione dei colleghi, giudicò che dovesse rimanere fermo, sancito e indiscusso in perpetuo quanto il Signor vescovo aveva stabilito con la sua sentenza: cioè che i rustici, per i beni da essi posseduti e fintantoché li avessero detenuti, continuassero ad essere soggetti alle suddette prestazioni, usi e obblighi personali nei confronti dei ministri della chiesa di S. Alessandro. Ungaro affermò inoltre che i rustici non avrebbero potuto più addurre in giudizio il mutamento di residenza – con tale argomento intendevano infatti tutelarsi e difendersi – sia perché non lo avevano addotto sin dall’inizio sia perché le prestazioni, gli usi e gli obblighi di cui sopra non erano connessi ai soli luoghi di residenza.

[1] Cattanei erano detti i maggiori signori feudali, che avevano ricevuto il beneficio feudale, e le prerogative a questo connesse, direttamente dall’autorità imperiale o dai suoi immediati rappresentanti (conti, vescovi con autorità di conti ecc.); i cattanei avevano a loro volta dei vassalli detti valvassori.

[2] Per tutto il Medioevo vi fu un ricorso larghissimo, nelle cause civili, alla procedura arbitrale. Le parti in contrasto stilavano un atto di compromesso, nel quale promettevano che avrebbero rispettato la decisione di uno o più arbitri, scelti ed accettati da loro stesse: per garantire che avrebbe mantenuto la promessa, ciascuna delle parti poteva – come nel nostro caso – costituire dei beni in pegno.

[3] II termine indica sia il territorio, entro il quale si esercitava la giurisdizione dei signori di un castello, sia l’insieme degli obblighi cui erano tenuti i dipendenti da tale giurisdizione, sia il complesso delle persone che, risiedendo in un castello e godendo talora – per concessione del signore – di una parte dei diritti giurisdizionali, erano peraltro obbligate alla manutenzione, custodia e difesa del castello medesimo.

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Ultimo aggiornamento: 17/2/05