Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI –
metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
6. Testimonianze sulla dipendenza degli uomini di Cànnero e di Oggiogno
dalla chiesa cattedrale di Novara Il verbale, del quale riproduciamo le parti essenziali, fu steso
dietro mandato del vescovo di Piacenza il 14 giugno del 1180 e si trova
pubblicato in O. SCARZELLO, G. B. MORANDI, A. LEONE, Le carte dell’Archivio
Capitolare di S. Maria di Novara, III, (1172-1205), Torino, 1924
(Biblioteca della Società Storica Subalpina, LXXX), p. 59, n. DXIV.
Il vescovo era chiamato a giudicare la lite che opponeva al capitolo
della cattedrale novarese il monastero di S. Graziano di Arona. I due
enti ecclesiastici si contendevano il dominio signorile sopra gli abitanti
di due villaggi sul Lago Maggiore, uno dei quali era centro di una curtis
e per ciò stesso punto di riferimento di diritti signorili. Ci sono
rimaste solo le deposizioni dei testi favorevoli al capitolo di Novara,
i quali tendono a presentare le prestazioni e gli obblighi dovuti al
monastero di Arona come frutto di coazione e di violenza. Per avere
un quadro dei domìni signorili del capitolo si potranno esaminare altri
documenti di grande interesse, contenuti nel volume citato: pp. 170
n. DCXXVI, 177 n. DCXXVII, 293 n. DCCXVI, 304 n. DCCXXII, ed altri ancora.
§ Guglielmo figlio di Lorenzo da Albona giurò e disse che a memoria
sua aveva sempre udito dire che gli uomini di Cànnero e di Oggiogno,
sui quali verte la causa, appartenevano alla famiglia della
chiesa di Novara […]. Alla domanda, se Cànnero fosse di per sé
una curtis, rispose di sì. Interrogato su come facesse a saperlo,
disse di averlo udito da suo padre e da altri uomini e disse che era
stato per sette anni gastaldo per conto della chiesa di Novara e aveva
tenuto i placiti degli uomini della chiesa e aveva emanato giudizi.
Alla domanda, se sapesse o avesse sentito dire che quegli uomini o i
loro ascendenti avessero prestato fedeltà alla chiesa di Novara, come
membri della famiglia, e che avessero prestato fedeltà contro
ogni persona [1],
disse di sì: questo aveva udito ed egli stesso aveva prestato fedeltà.
Alle domande, se fino ai presenti giorni quegli uomini avessero pagato collette ai gastaldi di S. Graziano di Arona, se fossero soggetti
alla districtio degli abati di Arona o dei loro rappresentanti
e se le donne potessero sempre e senza impedimenti contrarre matrimonio
con uomini liberi, rispose di sì. Interrogato sui diritti di caccia,
disse di non saperne nulla; interrogato sui diritti di pesca, rispose
che quegli uomini fanno un versamento ai rappresentanti dell’abate […].
Alle domande, se gli abati o i loro rappresentanti avessero estorto
qualche cosa agli uomini in questione e se a lui risultasse che un abate
li aveva costretti a prestargli fedeltà fermi restando i loro vincoli
verso la chiesa di Novara, rispose che non ne era sicuro ma riteneva
di sì. Aggiunse anche che certi uomini di Cànnero, chiamati Martino
Rosso e Martino Piano, erano poverissimi e avevano chiesto di che vivere
ai canonici di Novara [2]:
i canonici lo concessero, e a parere del teste fecero questo perché
i due appartenevano alla loro famiglia.
§ Bianco di Cànnero giurò e disse che si ricordava di aver sempre sentito
dire dai suoi ascendenti che gli uomini sui quali verte la causa e i
loro ascendenti appartenevano alla famiglia della chiesa di
Novara […]. Interrogato sulla fedeltà, disse che la prestavano
alla chiesa di Novara contro tutti. Interrogato sugli atti di violenza
[3], disse che più di una volta avevano sottratto con violenza delle
cose, cioè panni, grano e denari, a lui e agli altri vicini
sui quali verte la presente causa: e non agivano sulla base di un diritto,
ma come a loro piaceva. Aggiunse anche di essere stato costretto a prestare
fedeltà all’abate Gerardo, salva restando tuttavia la fedeltà al preposto
di Novara, e di non avere prestato fedeltà a nessun altro abate. Interrogato
sul districtus del monastero di Arona e sulla questione del
matrimonio e sui due poveri e sulla pesca, diede le stesse risposte
di Guglielmo. Alla domanda se Cànnero fosse curtis di per sé,
rispose di sì. Interrogato su come facesse a saperlo, disse di averlo
sentito dire dai suoi ascendenti e di aver sempre veduto che i placiti
concernenti uomini della chiesa di Novara venivano trattati e definiti
dai gastaldi della chiesa.
[1] In quest’epoca il giuramento
di fedeltà poteva essere prestato a più di un signore; ma il vincolo
verso un signore poteva essere preferenziale rispetto a quello stretto
con altri. Qui gli inquirenti, che sembrano orientare l’inchiesta in
senso favorevole al capitolo di Novara, tengono a far precisare che
la fedeltà degli uomini al capitolo era senza riserve, laddove quella
che aveva imposto – come vedremo – un abate di Arona era stata prestata
dagli uomini con una riserva: “fermi restando i loro vincoli verso
la chiesa di Novara”, “salva restando tuttavia la fedeltà
al preposto di Novara”.
[2] L’episodio è certamente reale,
ma nel descriverlo il teste – o colui che verbalizzò la deposizione
– riecheggia una formula tradizionale, che risale all’età merovingia
e si riferisce alla cerimonia della commendazione, cioè all’atto con
il quale un uomo libero si poneva sotto la tutela di un altro più potente.
[3] Intendi: compiuti dagli abati di Arona o dai loro agenti.
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