Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
7. I canonici di Asti vantano diritti signorili su famiglie della
“curtis” di Quarto
È il libello presentato ai consoli di giustizia di Asti dai
canonici della chiesa cattedrale, perché venisse loro riconosciuto il
dominio signorile su alcune famiglie del territorio di Quarto. La
sentenza, favorevole ai canonici, venne pronunziata l’11 settembre del
1185 (cfr. il documento seguente): il nostro documento dev’essere stato
dunque compilato poco tempo prima. Esso è tratto da F. GABOTTO e N.
GABIANI, Le carte dell’Archivio Capitolare di Asti (830, 948,
1111-1237), Pinerolo, 1907 (Biblioteca della Società Storica
Subalpina, XXXVII), p. 89, n. XCVI. Nel volume si trova una documentazione
molto ricca sull’espansione del patrimonio dei canonici nel territorio
della curtis di Quarto, sulle consuetudini agrarie del luogo (cfr. in
particolare il documento a p. 84, n. XCI, utile per chi volesse svolgere
un’approfondita analisi del documento che riproduciamo qui) e sui diritti
signorili; il lavoro di E. BALDA, Una corte rurale nel territorio di
Asti nel medioevo: Quarto d’Asti e l’amministrazione del Capitolo
canonicale, in Bollettino storico-bibliografico subalpino,
LXX (1972), pp. 5-122, potrà costituire un’eccellente introduzione e guida
per una esercitazione sull’argomento (si potrebbe cercare tra l’altro,
giovandosi dell’indice compilato da G. M. SARTORE per la citata
edizione, di chiarire la posizione delle famiglie che cercarono di
sottrarsi al dominio canonicale).
Rivendichiamo nei confronti delle famiglie Amatrici tutta la giurisdizione
che un signore suole esercitare sui propri uomini, sia per i beni allodiali
che per i mansi [1],
così come la esercitava il vescovo di Asti, il quale ci trasferì tutti
i suoi diritti, e come risulta confermata e attestata dai privilegi in
nostro possesso. Avanziamo tale rivendicazione in base ai seguenti argomenti.
Per via della curtis di Quarto, che ci appartiene. Per la fedeltà
che ci è dovuta dagli uomini di Quarto: essi hanno tutti giurato – o sono
tenuti a giurare – di non vendere, alienare o concedere in pegno a chicchessia
le nostre terre senza averci interpellato (a meno che non facciano a noi
la prima offerta o non le cedano ad altri uomini di Quarto oppure ai nostri
uomini di Mirabello). Per il fatto che teniamo il placito. Perché riscuotiamo,
dalle terre che abbiamo loro concesso, canoni in grano, in vino, in legumi,
in fieno e in altri prodotti – canoni che loro sono tenuti a trasportare
sino a noi: le messi nell’aia, il grano nel granaio, il fieno nelle cascine
e il vino nei tini; ci devono anche 4 soldi per ogni mano, della legna
a Natale, l’albergaria, un agnello a Pasqua, due prestazioni d’opera [2]
– una di scasso del terreno e una di semina – e la camparia sia
per le messi che per i prati e i boschi [3].
Perché ci versano un fitto per i poderi su cui risiedono e per le terre.
Sosteniamo inoltre che dalle Calende di marzo fino a quando non sia stata
compiuta la falciatura dei prati non possono entrare nella Garsia mandrie
di buoi, fatta eccezione per i buoi adibiti al lavoro della terra: questi
potranno entrarvi se necessario due volte al giorno, verso l’ora terza
– quando viene tolto il giogo – e dopo la nona, ma con un custode e solo
nella parte di prato ad essi destinato; quanto ai buoi del dominico, possono
pascolare dappertutto e incustoditi.
Chiediamo giustizia contro Enrico Rufo, Pietro Amalrico, il fratello di
costui e i figli di Manasse: in tempo di tregua, essi penetrarono con
violenza e a mano armata nella chiesa e nel chiostro e salirono alla sala
superiore minacciando di uccidere il sacerdote. Rivendichiamo le decime
della chiesa di S. Pietro, detenute da loro; la terra che Pietro Amalrico
vendette a nostra insaputa, facendola passare come allodiale; le terre
nostre che comprarono da terzi, nonostante che spettasse a noi la facoltà
di venderle e che, comunque, avremmo dovuto prima essere avvisati; i canoni
che ci hanno sottratto; le albergarie e la legna che Manasse e Ottone
Rufo non ci forniscono da diciotto anni; i debiti che Pietro Amalrico
non ci paga da sette anni; il fieno che Ottone Rosso lasciò marcire sul
prato; il cane del nostro villico che ammazzarono quando entrarono
con la violenza nell’immunità della chiesa [4].
Asseriamo che Ottone Rosso non ha più alcun diritto sui beni che deteneva
dalla nostra chiesa, dal momento che compì in nostro favore un atto di
definitiva rinunzia. Chiediamo giustizia contro Enrico Rosso, perché quando
rivendicavamo da lui la fedeltà, che si rifiutava di prestare, pur essendovi
tenuto, violò il pignoramento di beni al quale eravamo ricorsi per la
circostanza. Esigiamo un risarcimento, quale è d’obbligo per ogni uomo
nei confronti del suo signore.
E come
ulteriore prova di questa giurisdizione che rivendichiamo sugli Amatrici e
su tutti gli uomini di Quarto, ricordiamo come spetti a noi senza
contestazione, quando in una famiglia vengano a mancare i maschi, il
diritto di succedere ai defunti e di concedere in matrimonio le donne:
diritto che esercitiamo sia sui proprietari di allodi che sui detentori di
mansi. E ogni volta che vengono venduti prati della Garsia i compratori
sono tenuti a rivolgersi a noi per concordare il prezzo.
[1] È qui impiegato il termine
“mansura” che, come viene chiarito da un altro passo del documento, equivale
a “manso” e indica i beni, di proprietà dei canonici, concessi
in godimento da questi ultimi agli uomini di Quarto. Per il significato
più generale del termine “manso” si veda l’Introduzione alla
Sez. III.
[2] In questa e in altre zone del Piemonte
troviamo impiegato il termine “rosia” (così nel nostro documento)
o “roida”, a designare le corvées, cioè prestazioni
d’opera, manuali o con bovi, cui potevano essere obbligati i lavoratori
dipendenti dalla signoria.
[3] I campari esercitavano,
nei villaggi e nelle comunità rurali e nei maggiori domìni
signorili, funzioni di polizia campestre. Con il termine camparia si indica talora l’insieme di tali funzioni, talora – come sembra
essere il nostro caso – una tassa destinata a finanziare il servizio dei
campari.
[4] L’autorità imperiale
o regia concedeva spesso alle chiese il privilegio di immunità,
in virtù del quale nessun ufficiale o funzionario pubblico poteva
entrare nei territori appartenenti alla chiesa per esercitarvi atti di
giustizia, imposizioni fiscali o altre funzioni di carattere pubblico.
Con immunità le fonti designano sia il contenuto di questo
privilegio sia il territorio entro cui si applicava; nel nostro documento
poi sembra che il termine designi solo un determinato ambito. geografico,
all’interno dei possedimenti del capitolo.
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