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Didattica

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione I – Il potere signorile nelle campagne

Introduzione

Nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale, sino agli inizi del secolo XIII, alcune attribuzioni fondamentali dell’autorità pubblica quali l’amministrazione della giustizia, la riscossione di imposte, l’organizzazione della difesa militare, spettavano normalmente a grandi proprietari fondiari, sia laici che ecclesiastici. Essi vantavano inoltre speciali diritti sulle persone e sui beni dei contadini e dei minori proprietari: riscuotevano censi e donativi in denaro e in natura ed esercitavano forme di monopolio su attività di primaria importanza per l’agricoltura, quali la molitura dei grani, la caccia, il pascolo; in molti casi era obbligatorio ottenere il loro assenso per chi volesse stipulare un atto di vendita o contrarre matrimonio; se un proprietario moriva senza lasciare alcun erede, spettava a loro la successione nei suoi beni.

L’esercizio di questo insieme di poteri pubblici e di diritti sulle persone e sui beni – diritti diversi, come si vede, da quelli che un semplice proprietario terriero può vantare nei confronti dei suoi contadini, a lui legati da un rapporto di mera dipendenza economica – viene indicato con il termine di “signoria” e rappresenta un fenomeno comune a gran parte dell’Europa medievale. Naturalmente assunse fisionomie specifiche ed ebbe una diversa evoluzione nei diversi paesi. Anche nell’ambito dell’Italia centro-settentrionale ed entro i limiti cronologici che abbiamo indicato si possono distinguere forme differenti di signoria a seconda dell’origine dei poteri signorili, della loro estensione, del modo in cui venivano esercitati. Lo scopo di queste pagine, tuttavia, non è quello di procedere a una classificazione dei tipi di signoria; cercheremo piuttosto di porre in evidenza le caratteristiche comuni e le tendenze di fondo del regime signorile quali si configurano, in concreto, in alcune fonti molto significative.

Sulle nostre fonti dobbiamo fare due importanti osservazioni preliminari. I documenti anteriori al secolo XIII (nn. 1-9) si riferiscono tutti alla signoria di enti ecclesiastici: vescovi, capitoli di chiese cattedrali, abbazie. Ciò non significa che soltanto questi enti fossero titolari di diritti signorili; ma furono essi soli, nel secolo XI e per buona parte del XII, a custodire nei propri archivi i documenti che attestavano tali diritti. I signori laici non conservavano sistematicamente i propri atti, che sono andati così quasi tutti perduti nel corso dei secoli. Pertanto noi possiamo conoscere solo indirettamente notizie sulle signorie dei laici: ad esempio, il godimento di diritti signorili da parte di due coniugi nobili è attestato dall’atto (doc. n. 5) con cui essi vendettero tali diritti a un monastero. La situazione cambia con il secolo XIII, perché in quest’epoca numerose famiglie cominciarono ad istituire un proprio archivio e soprattutto perché nei Comuni si erano venuti organizzando sistematicamente gli archivi delle diverse magistrature pubbliche, dove si custodivano atti legislativi e di amministrazione, e quelli dei notai, tenuti alla registrazione e alla custodia degli atti privati stipulati presso di loro.

L’altra osservazione di carattere generale è questa: una buona parte dei documenti si riferisce a controversie tra signori o tra un determinato signore e i propri dipendenti (docc. nn. 4, 6, 7, 8); anche atti che hanno l’apparenza di concessioni unilaterali dei signori o di amichevoli patti tra questi e i loro sudditi (docc. nn. 1, 2, 10) presuppongono una vertenza, una qualche forma di contestazione del dominio signorile da parte dei dipendenti. Se tale dominio fosse stato esercitato senza mai essere posto in discussione, senza mai suscitare reazioni e contrasti, certamente non avrebbe lasciato alcuna traccia di sé; o, per lo meno, non avrebbe fornito occasioni per essere definito e puntualizzato in tanti particolari. La nostra conoscenza dei poteri signorili deriva dunque in gran parte dai litigi e dalle contestazioni suscitate intorno ad essi, e questo spiega perché le fonti per la storia della signoria siano numerose ed eloquenti soltanto dalla metà del secolo XII, cioè proprio dal periodo in cui il regime signorile entrò in una crisi profonda.

L’esercizio dell’autorità giudiziaria rappresentava l’elemento centrale della signoria, al punto che tutto l’insieme dei diritti del dominus (è questo il termine latino che noi traduciamo con la parola: “signore”; e dominatus = “signoria”) veniva talora indicato con i termini iurisdictio (doc. n. 7) o iustitia, donnicata iustitia (così nel doc. n. 1, dove noi abbiamo appunto tradotto: “diritti signorili”). In forza di tale autorità il signore e i suoi rappresentanti e delegati sedevano in giudizio (“placito” era il termine con cui si designava l’assemblea giudiziaria); il diritto di tenere il placito è attestato ad esempio da quell’amministratore laico (“gastaldo”) della chiesa di Novara, il quale ricorda come avesse presieduto di persona ai “placiti degli uomini della chiesa” – cioè alle cause che vertevano tra sudditi della signoria della chiesa novarese – e come avesse “emanato giudizi” (doc. n. 6).

Nei giudizi penali l’autorità signorile si concretava nella capacità di colpire il condannato con il “banno”, di cui parla ad esempio il documento lombardo del 1130 (n. 4). Si trattava di una composizione in denaro, imposta al condannato, il quale perdeva in pratica ogni diritto e poteva essere impunemente offeso nella persona e nei beni finché non avesse versato quanto doveva. In realtà le fonti dei secoli XI e XII sono molto povere di notizie sulle modalità concrete secondo cui veniva esercitato il potere signorile di “banno”. Inoltre esse non chiariscono quasi mai quando l’autorità giudiziaria di un signore si estendesse a tutti i tipi di cause e quando le cause criminali più gravi si trovassero escluse dalla sua competenza e riservate a un altro signore più potente; a questo proposito si veda il documento (n. 3) con cui il vescovo di Padova cedeva a un monastero di Murano il diritto a tenere il placito in certe terre ma riservava a sé la competenza per “le cause di furto e di rapina” e la facoltà di tenere il “placito generale”, che in base alla legislazione carolingia si doveva convocare in ogni contado (la circoscrizione che faceva capo al conte) tre volte all’anno.

Qualunque fosse l’estensione dell’autorità giudiziaria di un dominus, essa implicava sempre un potere esecutivo, cioè il potere di costringere con la forza i dipendenti del dominus a presentarsi in giudizio, a sottostare al “banno” e in generale ad adempiere a tutti gli obblighi di dipendenza signorile. Il signore aveva cioè la facoltà di imprigionare i propri sudditi, di sequestrarne i beni, di devastare le loro terre e le loro case per costringerli al rispetto della iustitia.

È importante cogliere il duplice aspetto della “giustizia” signorile: l’autorità giudiziaria e il potere di costrizione del signore si esercitavano, da un lato, nelle cause che opponevano i sudditi tra loro – in questi casi il signore doveva conformarsi alle leggi nazionali (longobarda, romana, ecc.: cfr. Sez. III, doc. n. 2, nota 1) e alla legislazione imperiale e qui si esplicava, dunque, l’aspetto propriamente pubblico della sua autorità; dall’altro lato il signore esercitava giustizia, cioè pronunziava condanne ed eseguiva atti di coercizione, nei confronti dei sudditi che non adempissero agli obblighi di dipendenza nei suoi confronti (obblighi che esamineremo dettagliatamente in seguito). Così, nel 1058, gli uomini dell’abbazia di Nonantola, nel momento stesso in cui rifiutavano l’esercizio arbitrario del potere coercitivo degli abati, dovevano tuttavia accettare di sottomettersi ad esso sia per i casi previsti dalla legge che per un’eventuale violazione dei “diritti signorili” (doc. n. 1).

Mentre dunque un normale proprietario fondiario doveva fare ricorso all’autorità pubblica per far valere i propri diritti nei confronti di un suo contadino, il signore compiva di persona gli atti giuridici necessari per imporre a un suddito riluttante l’obbligo – tanto per fare un esempio – di pagare un tributo per la molitura del grano. Così, nella seconda metà del secolo XII, vediamo che i canonici di Asti procedettero al pignoramento dei beni di un loro uomo perché costui si rifiutava di prestare il giuramento di fedeltà (doc. n. 7). Era proprio nell’ambito delle prestazioni a lui dovute che il signore esercitava normalmente la sua autorità giudiziaria e impiegava i mezzi di costrizione di cui si è detto. Si capisce come il potere di costrizione rappresentasse l’aspetto più concreto e tangibile dell’autorità signorile: i termini districtus, districtio, con cui esso veniva indicato (dal verbo distringere = “costringere con la forza”), ricorrono perciò con estrema frequenza nelle fonti (cfr. docc. nn. 4, 5, 6, 8), divengono quasi sinonimo di iurisdictio e sintetizzano spesso tutto il complesso dei poteri signorili.

Tra questi poteri era molto importante quello di organizzare la difesa militare e di imporre ai sudditi i lavori di edificazione, manutenzione e custodia dei castelli. Il dominatus era sempre legato a uno o più castelli. Le popolazioni rurali d’Italia vivevano raramente, nei secoli XI e XII, in dimore sparse; la casa colonica e la villa padronale, isolate in mezzo alla campagna, divennero parte essenziale del paesaggio agrario italiano solo nel tardo Medioevo: prima le abitazioni si raggruppavano in villaggi, dove attorno alla chiesa erano le case di legno dei contadini, e più villaggi dipendevano da un castello, cinto dal fossato e da mura alle quali si addossavano – internamente la casa del signore, la torre, la cappella e una serie di case appartenenti a famiglie di contadini, di piccoli proprietari, di artigiani e di commercianti.

Nel castello si rifugiavano gli abitanti dei villaggi minacciati dalle scorrerie degli ultimi invasori d’Europa (Saraceni, Normanni, Ungari), dal passaggio degli eserciti imperiali e dalle guerre locali tra signori. La guerra medievale colpiva in modo particolare le popolazioni contadine, perché si traduceva normalmente nella devastazione dei campi, nella distruzione di viti ed alberi, nell’uccisione dei capi di bestiame, nell’incendio delle case di legno e paglia dei rustici, nella distruzione dei mulini (cfr. Sez. IV, doc. n. 11, e un accenno in Sez. II, doc. n. 5). Per salvare la propria incolumità personale e almeno una parte del bestiame e degli attrezzi, i rustici dovevano rifugiarsi nei castelli: di qui l’importanza di questi nuclei fortificati, che coprivano tutte le campagne dell’Italia centro-settentrionale con una trama fitta, della quale è riconoscibile oggi soltanto una parte.

L’edificazione di mura e torri era un lavoro estremamente oneroso e costoso, soprattutto per la difficoltà di trasporto dei materiali; i dipendenti dell’abbazia di Nonantola che ottennero nel 1058 una serie di importanti concessioni si impegnarono come contropartita a “circondare di muro e fossato i tre quarti del castello” entro sei anni (doc. n. 1). Una volta edificato il castello, i sudditi del signore avevano l’obbligo di contribuire alla sua manutenzione, di effettuare turni di guardia sulle mura (cfr. doc. n. 11, c. 378, e nella Sez. II il doc. n. 2), di partecipare alla difesa del castello e prestare servizio militare nell’esercito signorile (docc. nn. 1, 4, 11 c. 378).

A questi obblighi i sudditi non adempivano tutti nella stessa misura e nelle stesse forme: proprio a proposito dei servizi militari le fonti accennano alla diversa posizione sociale ed economica dei dipendenti della signoria. Tra i rustici di Calusco, dipendenti dalla chiesa di Bergamo, soltanto alcuni appartenevano alla “castellanza” ed erano pertanto obbligati a militare di persona nell’esercito (doc. n. 4). Nel documento nonantolano del 1058 (n. 1), dove si fa una distinzione tra dipendenti “maggiori”, “medi” e “minori” si prescrive anche che “ciascuna persona” contribuisca ai lavori del castello “nella misura che le compete”. Non vengono definiti qui i connotati e i caratteri distintivi delle tre categorie di dipendenti. Ma sappiamo da altre fonti che i “minori” erano i contadini privi di terra propria o i piccolissimi proprietari, mentre la caratteristica, principale dei “maggiori” era quella di possedere cavalli da guerra e quindi la base economica necessaria per il loro costoso mantenimento. I membri di questa piccola “aristocrazia” locale costituivano l’elemento essenziale dell’esercito signorile, al quale partecipavano di persona con i loro cavalli: in compenso erano dotati di particolari privilegi (doc. n. 2) oppure esonerati, almeno in tempo di guerra, da ogni prestazione non militare (doc. n. 10, c. 12).

La forza armata dei signori si fondava dunque, da un lato, su un ceto di medi proprietari fondiari, che generalmente detenevano anche case e superfici nel castello, dall’altro su una speciale categoria di “servi” detti “di masnada” (servi de masnada, masnaderii: cfr. i docc. nn. 2 e 7 della Sez. II). La gran parte dei sudditi, cioè la gran parte della popolazione contadina, sosteneva l’onere della difesa e della guerra versando al signore tributi in denaro e in natura.

Nelle fonti sono ricordati spesso questi tributi straordinari (cioè non annuali) dovuti al signore e designati con una varietà di termini: adiutoria, accatti o accattarie, collette o colte, dazi (cfr. qui i docc. nn. 4, 5, 6, 10 c. 20, 11 c. 376, e nella Sez. II i nn. 1, 6, 9). Si deve pensare che coprissero in genere le spese straordinarie di armamento e di guerra, anche se nelle fonti non è indicata quasi mai la loro destinazione specifica. Vi erano altre spese straordinarie alle quali il signore faceva fronte ricorrendo a queste imposizioni dirette. In questo campo furono recepite dal sistema signorile istituzioni che erano tipiche di un altro genere di rapporti di dipendenza, cioè dei rapporti feudali. Nel rapporto feudale un uomo libero – detto “vassallo” – era legato da un vincolo, detto di fedeltà (fidelitas), a un altro uomo libero: il senior, che possiamo tradurre con “signore feudale”. Tra gli obblighi essenziali del vassallo erano quelli di prestare servizio armato al seguito del senior e di fornirgli un aiuto economico in alcune circostanze, determinate dalla consuetudine, che comportavano spese straordinarie: ad esempio quando il senior doveva armare cavaliere il proprio figlio, quando dava in sposa la figlia, quando partiva in pellegrinaggio, quando comprava terre, quando era preso prigioniero e si doveva versare un riscatto per liberarlo. Ora, anche i dipendenti della signoria si trovavano obbligati a pagare sovvenzioni di questo tipo. I rustici di Calusco dovevano ai loro antichi signori un adiutorium “in occasione di nozze, di sponsali e di compere” (doc. n. 4). Nel 1207 i conti di Tintinnano si fecero promettere dagli uomini del castello un aiuto materiale in occasione delle cerimonie che accompagnavano l’armamento di un cavaliere o gli sponsali delle loro figlie e sorelle (doc. n. 10, c. 8).

Tipiche del sistema signorile erano poi una serie di esazioni che solo in origine avevano avuto carattere di straordinarietà e destinazioni determinate. Il “fodro” era un tributo in denaro, dovuto dagli abitanti delle campagne all’imperatore quando questi attraversava il loro territorio e destinato ad assicurare il vettovagliamento dell’esercito e del seguito imperiali. Di fatto veniva riscosso dai signori (cfr. docc. nn. 3, 4, 8 e Sez. II, nn. 3 e 4) e tendeva a divenire un normale tributo, richiesto con una periodicità fissa (ogni uno, due, tre anni) o addirittura secondo l’arbitrio (doc. n. 4).

Un fenomeno analogo si verificò per un altro onere caratteristico imposto ai dipendenti del signore. Quando egli passava per le terre della signoria aveva diritto a ricevere vitto e alloggio per sé e per il suo seguito e il vettovagliamento per i cavalli. Ma anche questa imposizione in natura, detta “albergaria” (cfr. docc. nn. 2, 3, 5, 7, e Sez. II nn. 1, 6, 9, Sez. III n. 6), finiva per essere riscossa annualmente, o comunque con una certa periodicità, e indipendentemente dalla circostanza specifica del passaggio del signore. Assumeva dunque il carattere di un tributo fisso, che normalmente consisteva in una quantità di generi alimentari determinata dalle consuetudini o per contratto ed era proporzionale all’entità dei beni di ciascun dipendente (si veda il doc. n. 2).

Accanto a questi tributi, i signori esigevano una serie quanto mai varia e complessa di censi, di donativi e di prestazioni d’opera: quantità determinate di denaro, di cereali, di fieno, di lino, di frutta, di legname, di agnelli, di polli ed uova, di formaggio, di materiali da costruzione; refezioni e cibarie per sé e per i propri dipendenti (amiscera, “camangiari”, conmestiones: cfr. ad es. docc. nn. 2, 5 e Sez. II, n. 8), talora inglobate nell’onere dell’albergaria (doc. n. 2), talora commutate in una somma di denaro (Sez. IV, doc. n. 2); servizi di trasporto dei prodotti agricoli dai luoghi di produzione ai magazzini dominicali; giornate di lavoro sui campi di proprietà del signore, in particolare al tempo delle semine e dei raccolti (le prestazioni d’opera erano indicate spesso con i termini generici di “angarie” e “parangarìe”: cfr. Sez. II, docc. nn. 4 e 10).

Nei documenti tradotti in questa e nelle altre Sezioni il lettore troverà numerosi esempi di prestazioni del genere. Ciò che importa sottolineare è che esse rivestivano carattere di “angherie”, nel senso moderno del termine, cioè di prestazioni che non avevano alcuna contropartita in determinate concessioni fondiarie del signore. Tutti i proprietari riscuotevano censi e a volte esigevano anche servizi dai contadini che lavoravano le loro terre, ma tali censi e servizi venivano corrisposti in cambio della concessione di terra al coltivatore. Il signore, al contrario, aveva diritto a percepire beni e servizi non solo dai suoi contadini, cioè da quanti coltivavano terre di sua proprietà, ma da tutti coloro che si trovavano nel suo territorio: quindi anche da proprietari che coltivavano direttamente le loro terre, da proprietari agiati che le cedevano in conduzione ad altri, da contadini che lavoravano terre appartenenti a persone diverse dal signore.

Questo è un punto assolutamente centrale, che deve essere bene afferrato per comprendere la storia del sistema signorile. Il dominus di un determinato territorio era, certo, un grande proprietario fondiario, di norma il maggiore tra i proprietari di quel territorio; su tale base economica si fondava il suo potere effettivo. Ma egli vantava diritti signorili in tutto l’ambito del territorio. Anzitutto su beni che sfuggivano al regime della proprietà privata individuale, perché appartenenti al sovrano o destinati, per tradizione, all’uso comune: strade pubbliche, corsi d’acqua, foreste, pascoli. Ciò si traduceva in una fonte costante di reddito: il signore riscuoteva pedaggi (doc. n. 2), percepiva tributi di caccia e di pesca (doc. n. 6), poteva esigere capi di bestiame come corrispettivo per l’uso dei pascoli (doc, n. 11, c. 385), imponeva limitazioni, a proprio vantaggio, allo sfruttamento dei prati (doc. n. 7). Dalla sovranità sui corsi d’acqua derivava l’importante monopolio sui mulini; la costruzione di un mulino era cioè subordinata a uno speciale permesso del signore, che ritraeva poi un utile da tutti i mulini del suo territorio – sotto forma di una percentuale dei grani macinati oppure (come nel doc. n. 10, c. 2) di una disponibilità gratuita del mulino in periodi determinati.

Il dominio del signore si esercitava poi su beni fondiari che erano proprietà individuale di altre persone. Così, nell’ultimo quarto del secolo XII, un signore toscano dichiarava esplicitamente che i propri diritti su due famiglie contadine si estendevano anche alle terre che queste tenevano “in nome proprio ossia in allodio” (doc. n. 5) e i canonici di Asti rivendicavano la propria autorità signorile sui “beni allodiali” di alcune famiglie (doc. n. 7): “allodio” è il termine germanico con cui veniva appunto designata la piena proprietà, in contrapposizione ai beni che una persona deteneva in nome di altri e cioè a titolo di locazione, di enfiteusi, di beneficio feudale eccetera.

La sovranità del signore su tutti i beni fondiari compresi nel suo territorio si concretava in una serie di limitazioni alla disponibilità di tali beni da parte dei proprietari. A maggior ragione non potevano disporre liberamente dei beni fondiari le famiglie che li detenevano per conto del signore. Bisogna del resto tener presente che se in teoria si manteneva una netta contrapposizione tra i liberi proprietari (“alloderi”) e i detentori di terra altrui (cfr. ad es. Sez. II, doc. n. 1), nella realtà concreta non era sempre facile distinguere chiaramente i beni di proprietà dei sudditi da quelli che essi detenevano per concessione del loro signore. Infatti nei secoli XI e XII, come vedremo meglio nella Sezione terza, le concessioni fondiarie erano generalmente a lunghissimo termine; i concessionari non erano allontanati dalle terre a una determinata scadenza contrattuale, bensì se le trasmettevano di generazione in generazione, e maturavano così su di esse diritti molto simili a quelli di un proprietario, in ogni caso ben diversi da quelli di un moderno affittuario.

I principali limiti imposti agli “alloderi” e ai detentori di terre, campi e case riguardavano la successione ereditaria e la possibilità di vendita o comunque di alienazione. Se un suddito moriva senza lasciare eredi legittimi, era il signore ad appropriarsi dei suoi beni; se un suddito aveva intenzione di alienare la casa o le terre doveva ottenere il consenso del signore o versargli una imposta, e spesso era tenuto a concedergli un diritto di “prelazione”: il signore aveva cioè la facoltà di acquistare lui, se avesse voluto, il bene in vendita, e ad un prezzo inferiore rispetto a quello offerto da altri compratori. Dal dominio del signore sui beni fondiari del territorio derivava inoltre un suo controllo sui matrimoni dei sudditi, dal momento che ogni matrimonio comportava un trasferimento di beni dalla sposa allo sposo: così, prima di concedere in matrimonio le proprie figlie o le proprie sorelle, i sudditi dovevano chiedere il consenso del signore; anche tale diritto si traduceva spesso in una imposta, riscossa dal signore in occasione del matrimonio. Nelle fonti raccolte qui (docc. nn. 1, 6, 7, 8, 10) si leggono numerosi riferimenti alle questioni delle successioni ereditarie, delle vendite e dei matrimoni, in contesti e con formulazioni differenti di cui il lettore dovrà cercare di cogliere di volta in volta gli aspetti specifici.

Il territorio entro cui il dominus esercitava questo complesso di diritti e di prerogative faceva capo, normalmente, a un castello. L’insieme degli obblighi e dei servizi dei sudditi trovava infatti la sua principale contropartita e la sua ragion d’essere, almeno originariamente, nella protezione accordata dal signore in caso di guerra; nucleo ed essenziale strumento di questa difesa era, come abbiamo visto, il castello: di qui la sua importanza come centro di organizzazione del territorio. La circoscrizione territoriale che faceva capo al castello viene designata ordinariamente nelle fonti con il termine curtis. Questo termine (che noi abbiamo sempre mantenuto nella sua forma latina, per l’impossibilità di trovare un corrispondente adeguato nel lessico italiano moderno) indicava nell’Alto Medioevo un organismo economico – l’insieme dei campi, terreni incolti, e boschi appartenenti a un grande proprietario e gestiti da questi secondo una certa forma di sfruttamento del lavoro contadino (ne parleremo nell’Introduzione alla Sez. III). Nei secoli XI-XIV la parola venne usata invece per designare, come si è detto, la circoscrizione che dipendeva da un determinato castello ed entro la quale il signore del castello esercitava la propria autorità signorile o districtus.

Nelle fonti i termini curtis e districtus si trovano spesso abbinati, quando non sono addirittura l’uno sinonimo dell’altro, e acquistano un duplice significato. Districtus può indicare sia l’autorità signorile – come abbiamo spiegato a suo luogo – sia l’ambito geografico in cui essa si esercita: e da qui viene il nostro vocabolo “distretto”. Curtis, oltre a indicare l’ambito geografico, sintetizza talora le diverse prerogative signorili, simboleggia il diritto all’esercizio di determinati poteri indipendentemente dalle persone fisiche che si trovano ad esercitarli. In quest’ultimo senso è impiegato più spesso, dal secolo XII, il termine curia (cfr. docc. nn. 2, 5, 9, 10 c. 12 e Sez. II, n. 2): nelle fonti si legge che determinate imposte e diritti spettano alla curia, e con questa parola viene indicato al tempo stesso l’ambito territoriale che dipende dal castello (cioè la curtis) e l’autorità sovrana esercitata in tale ambito dal signore, dai suoi rappresentanti, da persone che eventualmente compartecipassero dei poteri signorili. La stessa duplicità di significato si riscontra nelle fonti per quanto riguarda il castello, centro del dominio signorile: in determinati contesti, infatti, i termini castrum e castellum non indicano il nucleo fortificato nella sua materialità – con l’insieme delle sue mura, dei suoi edifici, delle sue piazze ed orti – bensì possono riferirsi al complesso dei diritti di cui è titolare il signore del castello e all’esercizio della sua sovranità.

La duplicità di significato assunta dai termini districtus, curtis, curia, castrum, va ricondotta al fatto che i poteri signorili erano sempre legati a un’entità fisica, cioè appunto al castello e alla circoscrizione curtense che faceva capo ad esso. Il fenomeno presentava due aspetti, altrettanto importanti e densi di conseguenze storiche. In primo luogo, gli abitanti delle campagne dipendevano da un determinato signore non in seguito a un loro atto di soggezione e nemmeno perché quel signore avesse ricevuto a titolo individuale – dall’imperatore o da un’altra autorità sovrana – un diritto sulle loro persone, bensì perché le terre su cui essi risiedevano o lavoravano erano comprese in un determinato territorio, cioè entro la curtis che dipendeva dal castello di quel signore. L’esercizio dei poteri signorili si svolgeva secondo un principio di “territorialità”, tant’è vero che le fonti parlano spesso della giurisdizione, del diritto a ricevere prestazioni d’opera ecc. come di altrettanti attributi o “pertinenze” di un determinato territorio e quindi di un determinato castello.

Qui si innesta il secondo aspetto del fenomeno che andiamo riassumendo: dal momento che i diritti signorili erano legati al castello, venne ad assumere particolare importanza la proprietà del castello da parte del signore. Egli non era, di norma, unico proprietario di questo centro fortificato: singole case, piazze ed orti potevano appartenere a disparate famiglie abitanti nel castello. Il signore possedeva in genere un palazzo, le fortificazioni, alcune case e superfici; nelle signorie laiche, il dominatus era spesso diviso tra più persone (che generalmente risalivano a un comune antenato o erano comunque imparentate tra loro: cfr. doc. n. 10), e ciascuna di esse aveva la sua propria casa entro le mura del castello. Ora il potere signorile, nella misura in cui faceva capo al castello, finiva per apparire vincolato alle proprietà materiali che il signore o i signori possedevano nel castello. Con la conseguenza importante che, quando uno di essi vendeva o comunque alienava una casa, una piazza o una torre ad altre persone, si intendeva alienata a queste ultime, automaticamente, anche una parte delle prerogative signorili.

Restava tuttavia ferma la distinzione tra signoria e proprietà. Da un lato, infatti, per i proprietari di beni immobili nel castello che non appartenessero alla consorteria dei domini la proprietà di tali beni non comportava l’esercizio di diritti signorili né l’esenzione dagli oneri verso i domini: così, nella “rocca” di Tintinnano, gran parte dei proprietari di case, piazze ed orti erano semplici abitanti del luogo, dovevano un censo ai conti della “rocca” e non potevano disporre liberamente di questi immobili (doc. n. 10, cc. 5-7). Dall’altro lato, la porzione di diritti signorili che spettava a un dominus entro la curtis e nel castello non era eguale, ma era generalmente superiore, alla porzione di beni immobili che egli deteneva in proprietà; così, quando egli alienava “la propria quota, cioè la metà, un quarto ecc., del castello e della curtis di N.” (espressione corrente nei documenti, e che si presta ad essere equivocata) si intendeva alienata la metà, un quarto ecc., del complesso dei diritti signorili esercitati nel castello ed entro la curtis, insieme a un numero di edifici e di terre che rappresentava, verisimilmente, meno della metà, di un quarto ecc., di tutti i beni fondiari di quell’ambito territoriale.

Benché signoria e proprietà rimanessero due entità distinte, tuttavia si determinava tra loro una connessione continua, sia per il vincolo istituzionale tra esercizio dell’autorità signorile e territorio – negli aspetti che abbiamo illustrato – sia perché i signori erano anche, di fatto, grandi proprietari fondiari e detentori degli edifici più importanti nei castelli. Tale connessione tra signoria e proprietà, tra poteri pubblici e possessi fondiari arrivò anzi al punto che non soltanto le cessioni di castelli e di fortificazioni, ma addirittura le semplici alienazioni di terreni, boschi, campi, vigne, compiute dai signori, potevano essere accompagnate dall’alienazione di prerogative signorili. In definitiva queste erano frazionate, vendute, impegnate o concesse in godimento in maniera del tutto ordinaria: trasferimenti di poteri signorili sono attestati dai documenti nn. 3, 4, 5, 7, dove il lettore noterà la connessione costante con il trasferimento di beni fondiari. Una trasferibilità così ampia delle prerogative signorili implicava anche che esse potevano venire smembrate, nel senso che un signore poteva cedere, insieme a un castello, a una casa o a un semplice pezzo di terra, soltanto alcuni dei diritti signorili annessi (l’albergaria, tanto per fare un esempio) e riservarne altri per sé (cfr. doc. n. 3).

I poteri pubblici nelle campagne erano dunque considerati alla stregua di normali beni patrimoniali. Ma la “patrimonializzazione” della signoria assumeva anche un altro aspetto, altrettanto interessante e importante: l’esercizio dei singoli poteri e diritti si concretava nella percezione di altrettante forme di reddito, e questo contenuto economico finiva normalmente per prevalere rispetto all’originaria funzione pubblica della signoria. Così l’autorità giudiziaria era esercitata in grande misura – come si è detto – per assicurare al signore le dovute prestazioni; milizia, fodro, albergaria e obblighi di assistenza si traducevano in entrate di carattere più o meno ordinario, e lo stesso avveniva per i diritti sulle successioni, sulle vendite e sui matrimoni; la sovranità su strade, fiumi, pascoli e selve implicava riscossioni in denaro e in natura; a queste si aggiungevano una quantità di censi (polli, uova, formaggi ecc.) e di servizi (di zappatura, di vendemmia ecc.) analoghi a quelli che esigevano i semplici proprietari fondiari. Nei documenti della nostra raccolta (si vedano ad esempio un documento toscano: n. 5; uno piemontese: n. 7; uno veneto: Sez. III, n. 6) il lettore potrà constatare la continua giustapposizione di tributi e obblighi di natura pubblica ai censi e agli oneri tipicamente agricoli e fondiari.

Le famiglie dell’aristocrazia militare (milites) e i maggiori enti ecclesiastici esercitarono indisturbati il loro potere, nelle forme che abbiamo descritto, fino agli inizi del secolo XII: cioè finché mantennero una posizione di assoluto predominio sia come proprietari fondiari sia come titolari delle diverse attribuzioni dell’autorità pubblica. Poi tale predominio si andò restringendo in ambedue i campi. Per quanto riguarda la proprietà, furono i laici a subire la crisi più profonda, a causa dell’assoluta noncuranza che i milites avevano per la gestione economica delle proprie ricchezze; la proprietà ecclesiastica conservò invece a lungo grandi dimensioni e vitalità economica, ma fu minata dalla sua scarsa mobilità e dal sistema di concessioni a lungo termine che prevaleva al suo interno e che finiva in genere per sottrarre le terre al controllo diretto delle chiese: su tali questioni ritorneremo nelle Sezioni III e IV.

D’altra parte la fine delle invasioni, un certo aumento di produttività della terra, la messa a coltura di nuovi suoli e la conseguente ripresa degli scambi commerciali comportarono il lento e progressivo rafforzamento, nei villaggi e nei castelli, di un ceto di piccoli e medi proprietari. Nel secolo XII questi tolleravano sempre peggio che una parte del proprio reddito fosse dovuta al signore senza che a questo prelievo corrispondessero concessioni fondiarie. D’altronde era ormai difficile per i signori fondare imposizioni e prerogative sulla funzione “pubblica” della loro autorità. Era infatti divenuto prevalente, come si è detto, l’aspetto patrimoniale della signoria; le imposizioni e le prerogative signorili non rappresentavano cioè se non una fonte di reddito, alla quale non corrispondeva alcun “servizio” di natura pubblica (amministrazione della giustizia, organizzazione dell’esercito ecc.) : tanto è vero che esse potevano essere normalmente suddivise, vendute, date in affitto o in pegno, smembrate in vari modi.

Queste contraddizioni interne al regime signorile furono poste in luce man mano che nuove forze e nuovi centri di potere venivano rivendicando, con successo sempre maggiore, l’esercizio dei poteri sovrani nelle campagne. Le prime contestazioni del potere signorile furono mosse dai piccoli e medi proprietari del contado, oppure da famiglie e da comunità di villaggio che avevano in concessione beni di proprietà del signore o diritti di godimento su boschi, pascoli e terreni incolti nel territorio dominato dal signore. Delle lotte che questi ceti sostennero contro i signori noi possiamo conoscere solo raramente le forme e lo svolgimento. La stessa esistenza di pressioni, contrasti e scontri ci è attestata, di solito, solo al momento del loro esito finale: quando cioè vennero stesi dei documenti scritti , nei quali, sotto forma di concessione unilaterale del signore o di patto stipulato tra questi e i suoi sudditi, erano determinati chiaramente i poteri e i diritti delle due parti.

Gli aspetti centrali di queste convenzioni erano l’esclusione di arbìtri nell’esercizio del potere signorile (cfr., in particolare, il doc. n. 1), il divieto di imporre ulteriori censi e prestazioni, oltre a quelli dovuti per consuetudine o fissati comunque nella convenzione (cfr., in particolare, il doc. n. 2), la traduzione dei servizi dovuti al signore in quantità determinate di denaro o di prodotti agricoli (cfr., in particolare, il doc. n. 10). Ma già dai primi anni del secolo XII si assiste anche alla pura e semplice remissione, da parte dei signori, di certi tributi e di certe prestazioni personali, e soprattutto al passaggio di una parte dei poteri giurisdizionali e fiscali nelle mani dei medi e piccoli proprietari residenti nel castello e nel territorio (doc. n. 2). Nel corso dei secoli XII e XIII questi espressero proprie forme di organizzazione, di controllo e di rappresentanza. Si vennero così formando dei Comuni di villaggio e di castello, fondati su forme di divisione o di compartecipazione dei poteri tra gli esponenti di questa “aristocrazia” locale e gli antichi signori (doc. n. 10).

La pressione e la lotta dei ceti residenti nelle campagne conduceva a una diversa organizzazione del regime signorile, non alla sua eversione. In ogni tipo di convenzione tra signori e sudditi era sancita la sovranità signorile sul territorio. Difficilmente le cose sarebbero potute andare altrimenti, dato che i signori mantenevano ancora agli inizi del Duecento grandi possessi fondiari e che i loro sudditi erano anche, almeno in parte, concessionari di terre di loro proprietà. Il lettore noterà che in tutte e tre le convenzioni qui riprodotte (docc. n. 1, 2 e 10) la limitazione dei poteri signorili si accompagna alla definizione delle varie forme di concessione fondiaria che legavano signori e sudditi. Molte volte la stessa organizzazione delle comunità di villaggio e la stessa definizione dei rapporti tra i loro membri e il signore era diretta conseguenza di un’ampia concessione di terre; ciò avveniva soprattutto quando il signore destinava a un insieme di famiglie contadine zone inabitate da colonizzare, boschi e incolti da mettere a coltura, terreni che dovevano essere difesi dalle acque: un esempio di grande interesse in questo senso è offerto dalla concessione dell’abate di Polirone, della fine del secolo XII (doc. n. 9).

Nel pieno svolgimento di questa complessa evoluzione dei rapporti tra signori e sudditi, mentre si venivano configurando svariate forme di comunità rurali e di organizzazione dei poteri locali, i termini della situazione furono completamente mutati dall’intervento delle autorità cittadine. Tra l’ultimo quarto del secolo XI e la metà del secolo XII si era definitivamente affermata nelle città una forma di governo autonomo, con proprie magistrature civili e una propria organizzazione militare; questo nuovo organismo di potere, il Comune cittadino, era dominato da proprietari fondiari che risiedevano stabilmente in città, da vassalli e da funzionari laici del vescovo (che era stato l’autorità cittadina dominante nei secoli X e XI) e della chiesa cattedrale, da famiglie che integravano i redditi fondiari con l’esercizio delle attività di prestito, di cambio e di commercio, da famiglie di giudici e notai. Il reddito di queste persone derivava generalmente dal possesso fondiario e talora anche dall’esercizio dell’autorità signorile nel contado. Ma nella misura in cui avevano legato le proprie fortune e il proprio potere allo sviluppo della città, dove avevano case e torri, nella misura in cui erano interessate alla difesa della città, al consolidamento delle sue istituzioni e alla sua espansione economica, esse promossero l’estensione dei poteri del Comune sopra tutto il contado e l’affermazione della sua autorità giudiziaria, militare e fiscale sulle terre che facevano capo ai castelli e ai loro signori.

Naturalmente quest’azione divenne sempre più incisiva man mano che nei Comuni si andò rafforzando il peso politico di due ceti sociali: quei proprietari fondiari, spesso provenienti dal contado, che non esercitavano diritti signorili, non erano personalmente legati a famiglie signorili ed erano interessati soprattutto a estendere e a far coltivare liberamente, in ogni punto del contado, le proprie terre; le famiglie di mercanti e banchieri, interessate al controllo dei mercati del contado e all’espansione delle finanze cittadine e preoccupate anch’esse di poter investire liberamente i propri capitali nella terra.

L’affermazione della sovranità cittadina sulle campagne fu un processo lento, che si svolse con ritmi, modalità ed esiti differenti da luogo a luogo; la lotta contro i signori non fu condotta in comune dalle autorità cittadine e dai medi e piccoli proprietari residenti nel contado, poiché erano diverse le motivazioni delle une e degli altri. Noi abbiamo scelto tre fonti, che attestano fasi successive della contestazione del dominatus e differenti atteggiamenti delle autorità cittadine. Nel 1130 i consoli milanesi sancirono la dipendenza dei rustici di Calusco dai canonici di Bergamo (doc. n. 4); i rustici (con questo termine si designavano generalmente nell’Alta Italia i dipendenti della signoria, fossero o meno lavoratori della terra) avevano sollevato l’importante questione della residenza, sostenevano cioè che un signore potesse esercitare il suo dominio solo su chi risiedeva nel suo territorio e non su chiunque vi detenesse beni fondiari: contestavano cioè un aspetto limitato del principio “territoriale”, ma non ottennero soddisfazione dai consoli.

Cinquanta anni dopo i canonici di Asti rivendicavano nella curtis di Quarto la loro “giurisdizione […] sia per i beni allodiali che per i mansi” (doc. n. 7); la ribellione di alcuni alloderi si sarebbe manifestata, secondo l’atto di accusa, in forme di estrema violenza: e sembra che non solo non venisse rispettata la sovranità signorile sugli allodi, ma che i canonici dovessero addirittura difendersi dalle spoliazioni dei propri beni patrimoniali. Anche in questo caso i magistrati cittadini si pronunziarono in favore dei signori (doc. n. 8), ma vollero chiarire che non erano dovute a questi ultimi tre prestazioni di carattere pubblico: il fodro, l’obbligo di fare da ambasciatori e quello di partecipare alle spedizioni militari. I Comuni affermavano ormai pienamente, nell’ultimo quarto del secolo XII, la propria autorità in campo fiscale, amministrativo e militare; riconoscevano in genere la sovranità dei signori sopra curtes e castelli, ma cercavano di avocare a sé la riscossione delle imposte e il controllo del sistema difensivo nel contado.

Ad altri cinquant’anni di distanza, vediamo un interessante esempio di limitazione dei poteri signorili negli Statuti del Comune di Treviso. Tra il XII e il XIII secolo si veniva formando in ciascun Comune una forma di legislazione autonoma: si ponevano per iscritto le consuetudini giuridiche locali, che andavano osservate nei rapporti civili tra privati, e si raccoglievano in una compilazione unica i regolamenti interni dei vari organi di governo comunale, i patti e i giuramenti che dovevano regolare le relazioni del Comune con i feudatari, con determinati signori o con altri Comuni, le deliberazioni più importanti dei consigli cittadini in materia di diritto civile e penale, di finanza e di opere pubbliche, di rapporti con gli ecclesiastici, con le corporazioni, con le comunità e i signori del contado. Queste compilazioni presero nome di “Statuti” e sono tra le fonti più importanti per la storia dei Comuni. Nel Comune di Treviso, dove l’influenza di ceti feudali e signorili era grande, nondimeno l’esercizio di “qualunque tipo di giurisdizione” nel contado fu severamente disciplinato dagli Statuti degli anni 1207-1231 (doc. n. 11). Nessuno avrebbe potuto imporre tributi né sottrarre beni sotto qualunque pretesto se non ai propri rustici e ai propri servi, cioè a quanti gli erano legati personalmente da un vincolo di dipendenza: questo il punto centrale delle disposizioni statutarie qui tradotte, che consentiranno comunque al lettore attento molte precisazioni e osservazioni particolari.

Dal contenimento degli arbìtri e della prepotenza signorili (doc. n. 1), al tentativo di restringere l’ambito entro cui si esercitava la signoria (doc. n. 4), alla ribellione violenta contro alcune sue prerogative essenziali (doc. n. 7), alla delimitazione di queste da parte delle autorità cittadine (doc. n. 11), le fonti qui raccolte delineano una tendenza storica di fondo, il cui punto di arrivo sarebbe stato la scomparsa del carattere “territoriale” della signoria. Dalla fine del secolo XII l’impulso decisivo in questa direzione era dato ormai dai Comuni cittadini, che rivendicavano a se stessi la sovranità su tutti i castelli e i territori del contado. Su questo terreno poteva verificarsi, in certi casi, una convergenza oggettiva tra l’azione delle classi dirigenti cittadine e il movimento dei proprietari e dei detentori di terre residenti nel contado.

Contro questa tendenza di fondo si andò sviluppando una reazione da parte dei signori, secondo una duplice direttiva. Da un lato si accelerarono la stipulazione di patti e convenzioni con i piccoli e i medi possessori locali e l’organizzazione dei Comuni di castello e di villaggio, fondati sul condominio dei poteri tra i domini e i residenti del luogo. Se la convenzione tra la badessa di S. Sisto e gli uomini di Guastalla, dell’inizio del secolo XII (doc. n. 2), costituisce un esempio piuttosto raro per la sua epoca, al contrario il piccolo Statuto della “rocca” di Tintinnano, elaborato nel 1207 per definire i rapporti tra la consorteria signorile e il Comune degli uomini di Tintinnano (doc. n. 10), non è che un esempio – peraltro di straordinario interesse – di un tipo di transazioni allora assai frequente.

Dall’altro lato i signori, man mano che perdevano terreno quanto al dominio territoriale e alla sovranità sui liberi proprietari, tentavano di recuperare una parte di potere con l’istituzione di vincoli di natura personale. In particolare, concedendo nuove terre e diritti d’uso, oppure rinnovando antiche concessioni fondiarie, essi cercarono di legare a sé i concessionari con il vincolo feudale: quest’obbligo di obbedienza e di aiuto materiale, che nei secoli IX-XI era stretto tra uomini liberi e aveva come contenuto essenziale la prestazione del servizio militare da parte del vassallo, venne ora esteso sempre più spesso a piccoli proprietari, a contadini e in genere a tutti i detentori di terre del signore. In moltissime fonti posteriori alla metà del secolo XII i dipendenti del signore appaiono infatti tenuti al giuramento di fedeltà. Questo rapporto personale di fidelitas è attestato nei documenti dei canonici novaresi e astigiani (nn. 6 e 7); i coniugi del territorio fiorentino che cedettero al monastero di Passignano due contadini (doc. n. 5) li dichiararono sciolti “da ogni giuramento”, espressione che si riferisce sicuramente al giuramento di fedeltà. Altri esempi saranno offerti in documenti delle Sezioni II (nn. 2, 5, 9, 10) e III (n. 10).

È interessante notare come continui a manifestarsi, accanto al vincolo personale, il principio del dominio territoriale dei signori: quando i canonici di Asti sostengono che la curtis di Quarto “appartiene” a loro, intendono dire che esercitano sovranità signorile su tutto il territorio della curtis; i signori toscani parlano di diritti esercitati “in base […] alla curia di Roffiano”; gli inquirenti nella causa per il dominio dei canonici di Novara sopra gli uomini di Cànnero si preoccupano di chiarire “se Cànnero fosse curtis di per sé”, cioè se fosse subordinata o meno a un altro organismo territoriale. Nelle tre fonti, che per questo aspetto sono assolutamente tipiche della loro epoca, si giustappongono in maniera confusa l’elemento territoriale e l’elemento personale, l’autorità pubblica e i diritti patrimoniali dei signori.

L’organizzazione dei Comuni di villaggio e di castello, da un lato, e dall’altro l’estensione dei rapporti feudali nelle campagne, garantirono ai signori il mantenimento di molte loro prerogative sino alla fine del Medioevo ed oltre, ma in un ambito più limitato rispetto alle forme originarie del dominio signorile. Nelle comunità locali, infatti, essi dovevano condividere il potere con i loro ex sudditi (cfr. docc. nn. 2 e lo), mentre la signoria feudale era condizionata dalla possibilità di fare larghe concessioni fondiarie, che in prospettiva avrebbero indebolito la forza economica dei signori, e comunque non aveva più nulla a che vedere con l’antica sovranità territoriale. Per questi motivi la “reazione signorile” di cui si è parlato non venne contrastata decisamente dalle classi dirigenti delle città. Ai Comuni di villaggio e di castello fu concessa una larga autonomia entro l’ambito politico, amministrativo e finanziario degli Stati territoriali cittadini: anzi le autorità cittadine si fecero spesso garanti del rispetto degli Statuti rurali, dei patti e delle convenzioni stipulati tra signori e comunità locali e dell’osservanza, da parte dei residenti del contado, di obblighi e doveri nei confronti dei signori. Una volta che le città si erano assicurate il dominio politico sui castelli del contado, imponendo atti di sottomissione e di garanzia e istituendo propri organi di controllo, esse potevano demandare a signori e Comuni locali l’organizzazione della difesa e della finanza locale, i compiti di polizia campestre e la giurisdizione nelle cause minori.

Anche i nuovi legami feudali furono in larga misura tollerati e rispettati dalle autorità cittadine. Qui tuttavia le cose potevano presentarsi in termini differenti. Infatti, quando i rapporti di forza lo consentivano, i signori tendevano a ricostituire su questa base di legami personali le antiche forme di potere; inoltre, man mano che perdevano il proprio dominio sull’insieme del territorio, erano portati a inasprirlo nei confronti di quanti risiedevano e lavoravano sulle terre di loro proprietà. L’istituzione dei vincoli di fedeltà non rappresentava, spesso, che un aspetto di questo più generale inasprimento del dominio dei grandi proprietari nobili ed ecclesiastici: non si trattava allora di un fenomeno nuovo, che le autorità cittadine potessero disciplinare e controllare, bensì di un tentativo di ritorno all’indietro, che esse – come vedremo nella Sezione seguente – dovettero sforzarsi di contrastare.

Nota bibliografica sul potere signorile nelle campagne

Per un inquadramento generale della storia della signoria nell’Europa medievale si può leggere R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo, I: Ordinamento curtense e clientele vassallatiche; II: Signoria rurale e feudo, tra. it. Bologna, Il Mulino, 1971 e 1974 (ediz. Originale francese del vol. I: 1959, 2ª ediz. riveduta 1968; del vol. II: 1970), corredato di ampia bibliografia. Più sintetico è il libro di G. FOURQUlN, Seigneurie et féodalité au Moyen Age, Paris, Presses Universitaires de France, 1970. In ambedue gli studi la parte dedicata all’Italia è esigua. Sulla storia del regime signorile del nostro Paese non esiste alcun lavoro di carattere generale, ma si può vedere adesso il rapido e magistrale profilo di G. TABACCO, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni di Stati regionali; in AA.VV., Storia d’Italia, II, cit., 1, pp. 3-274, in particolare pp. 113-127, 150-180 (con ampie referenze bibliografiche). Per il resto, lo studioso deve raccogliere una serie di indicazioni sparse in monografie dedicate ai singoli signori e in saggi su questioni determinate. Così il problema della territorialità è stato trattato da P. VACCARI, La territorialità come base dell’ordinamento giuridico del contado nell’Italia medioevale, 2ª ed., Milano, Giuffrè, 1963 (la prima edizione risale al 1921), e per le istituzioni sociali connesse ai castelli si deve ricorrere principalmente all’articolo di F. CUSIN, Per la storia del castello medioevale, in “Rivista storica italiana”, Ser. V, IV (1939), pp. 491-542. Tra gli studi su singoli enti, titolari di diritti signorili, è di particolare importanza R. ROMEO, La signoria dell’abate di Sant’Ambrogio di Milano sul comune rurale di Origgio nel secolo XIII, in “Rivista storica italiana”, LXIX (1957), pp. 340-377, 473-507, poi ristampato con il titolo Il comune rurale di Origgio nel secolo XIII, Assisi, Carucci, 1970.

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Ultimo aggiornamento: 17/2/05