Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione
Nelle campagne dell’Italia centro-settentrionale, sino agli inizi del
secolo XIII, alcune attribuzioni fondamentali dell’autorità pubblica quali
l’amministrazione della giustizia, la riscossione di imposte,
l’organizzazione della difesa militare, spettavano normalmente a grandi
proprietari fondiari, sia laici che ecclesiastici. Essi vantavano inoltre
speciali diritti sulle persone e sui beni dei contadini e dei minori
proprietari: riscuotevano censi e donativi in denaro e in natura ed
esercitavano forme di monopolio su attività di primaria importanza per
l’agricoltura, quali la molitura dei grani, la caccia, il pascolo; in
molti casi era obbligatorio ottenere il loro assenso per chi volesse
stipulare un atto di vendita o contrarre matrimonio; se un proprietario
moriva senza lasciare alcun erede, spettava a loro la successione nei suoi
beni.
L’esercizio di questo insieme di poteri pubblici e di diritti
sulle persone e sui beni – diritti diversi, come si vede, da quelli che un
semplice proprietario terriero può vantare nei confronti dei suoi
contadini, a lui legati da un rapporto di mera dipendenza economica –
viene indicato con il termine di “signoria” e rappresenta un fenomeno
comune a gran parte dell’Europa medievale. Naturalmente assunse fisionomie
specifiche ed ebbe una diversa evoluzione nei diversi paesi. Anche
nell’ambito dell’Italia centro-settentrionale ed entro i limiti
cronologici che abbiamo indicato si possono distinguere forme differenti
di signoria a seconda dell’origine dei poteri signorili, della loro
estensione, del modo in cui venivano esercitati. Lo scopo di queste
pagine, tuttavia, non è quello di procedere a una classificazione dei tipi
di signoria; cercheremo piuttosto di porre in evidenza le caratteristiche
comuni e le tendenze di fondo del regime signorile quali si configurano,
in concreto, in alcune fonti molto significative.
Sulle nostre fonti
dobbiamo fare due importanti osservazioni preliminari. I documenti
anteriori al secolo XIII (nn. 1-9) si riferiscono tutti alla signoria di
enti ecclesiastici: vescovi, capitoli di chiese cattedrali, abbazie. Ciò
non significa che soltanto questi enti fossero titolari di diritti
signorili; ma furono essi soli, nel secolo XI e per buona parte del XII, a
custodire nei propri archivi i documenti che attestavano tali diritti. I
signori laici non conservavano sistematicamente i propri atti, che sono
andati così quasi tutti perduti nel corso dei secoli. Pertanto noi
possiamo conoscere solo indirettamente notizie sulle signorie dei laici:
ad esempio, il godimento di diritti signorili da parte di due coniugi
nobili è attestato dall’atto (doc. n. 5) con cui essi vendettero tali
diritti a un monastero. La situazione cambia con il secolo XIII, perché in
quest’epoca numerose famiglie cominciarono ad istituire un proprio
archivio e soprattutto perché nei Comuni si erano venuti organizzando
sistematicamente gli archivi delle diverse magistrature pubbliche, dove si
custodivano atti legislativi e di amministrazione, e quelli dei notai,
tenuti alla registrazione e alla custodia degli atti privati stipulati
presso di loro.
L’altra osservazione di carattere generale è questa:
una buona parte dei documenti si riferisce a controversie tra signori o
tra un determinato signore e i propri dipendenti (docc. nn. 4, 6, 7, 8);
anche atti che hanno l’apparenza di concessioni unilaterali dei signori o
di amichevoli patti tra questi e i loro sudditi (docc. nn. 1, 2, 10)
presuppongono una vertenza, una qualche forma di contestazione del dominio
signorile da parte dei dipendenti. Se tale dominio fosse stato esercitato
senza mai essere posto in discussione, senza mai suscitare reazioni e
contrasti, certamente non avrebbe lasciato alcuna traccia di sé; o, per lo
meno, non avrebbe fornito occasioni per essere definito e puntualizzato in
tanti particolari. La nostra conoscenza dei poteri signorili deriva dunque
in gran parte dai litigi e dalle contestazioni suscitate intorno ad essi,
e questo spiega perché le fonti per la storia della signoria siano
numerose ed eloquenti soltanto dalla metà del secolo XII, cioè proprio dal
periodo in cui il regime signorile entrò in una crisi
profonda.
L’esercizio dell’autorità giudiziaria rappresentava
l’elemento centrale della signoria, al punto che tutto l’insieme dei
diritti del dominus (è questo il termine latino che noi
traduciamo con la parola: “signore”; e dominatus = “signoria”)
veniva talora indicato con i termini iurisdictio (doc. n. 7) o
iustitia, donnicata iustitia (così nel doc. n. 1, dove
noi abbiamo appunto tradotto: “diritti signorili”). In forza di tale
autorità il signore e i suoi rappresentanti e delegati sedevano in
giudizio (“placito” era il termine con cui si designava l’assemblea
giudiziaria); il diritto di tenere il placito è attestato ad esempio da
quell’amministratore laico (“gastaldo”) della chiesa di Novara, il quale
ricorda come avesse presieduto di persona ai “placiti degli uomini della
chiesa” – cioè alle cause che vertevano tra sudditi della signoria della
chiesa novarese – e come avesse “emanato giudizi” (doc. n. 6).
Nei
giudizi penali l’autorità signorile si concretava nella capacità di
colpire il condannato con il “banno”, di cui parla ad esempio il documento
lombardo del 1130 (n. 4). Si trattava di una composizione in denaro,
imposta al condannato, il quale perdeva in pratica ogni diritto e poteva
essere impunemente offeso nella persona e nei beni finché non avesse
versato quanto doveva. In realtà le fonti dei secoli XI e XII sono molto
povere di notizie sulle modalità concrete secondo cui veniva esercitato il
potere signorile di “banno”. Inoltre esse non chiariscono quasi mai quando
l’autorità giudiziaria di un signore si estendesse a tutti i tipi di cause
e quando le cause criminali più gravi si trovassero escluse dalla sua
competenza e riservate a un altro signore più potente; a questo proposito
si veda il documento (n. 3) con cui il vescovo di Padova cedeva a un
monastero di Murano il diritto a tenere il placito in certe terre ma
riservava a sé la competenza per “le cause di furto e di rapina” e la
facoltà di tenere il “placito generale”, che in base alla legislazione
carolingia si doveva convocare in ogni contado (la circoscrizione che
faceva capo al conte) tre volte all’anno.
Qualunque fosse l’estensione
dell’autorità giudiziaria di un dominus, essa implicava sempre un
potere esecutivo, cioè il potere di costringere con la forza i dipendenti
del dominus a presentarsi in giudizio, a sottostare al “banno” e
in generale ad adempiere a tutti gli obblighi di dipendenza signorile. Il
signore aveva cioè la facoltà di imprigionare i propri sudditi, di
sequestrarne i beni, di devastare le loro terre e le loro case per
costringerli al rispetto della iustitia.
È importante cogliere
il duplice aspetto della “giustizia” signorile: l’autorità giudiziaria e
il potere di costrizione del signore si esercitavano, da un lato, nelle
cause che opponevano i sudditi tra loro – in questi casi il signore doveva
conformarsi alle leggi nazionali (longobarda, romana, ecc.: cfr. Sez. III,
doc. n. 2, nota 1) e alla legislazione imperiale e qui si esplicava,
dunque, l’aspetto propriamente pubblico della sua autorità; dall’altro
lato il signore esercitava giustizia, cioè pronunziava condanne ed
eseguiva atti di coercizione, nei confronti dei sudditi che non
adempissero agli obblighi di dipendenza nei suoi confronti (obblighi che
esamineremo dettagliatamente in seguito). Così, nel 1058, gli uomini
dell’abbazia di Nonantola, nel momento stesso in cui rifiutavano
l’esercizio arbitrario del potere coercitivo degli abati, dovevano
tuttavia accettare di sottomettersi ad esso sia per i casi previsti dalla
legge che per un’eventuale violazione dei “diritti signorili” (doc. n.
1).
Mentre dunque un normale proprietario fondiario doveva fare ricorso
all’autorità pubblica per far valere i propri diritti nei confronti di un
suo contadino, il signore compiva di persona gli atti giuridici necessari
per imporre a un suddito riluttante l’obbligo – tanto per fare un esempio
– di pagare un tributo per la molitura del grano. Così, nella seconda metà
del secolo XII, vediamo che i canonici di Asti procedettero al
pignoramento dei beni di un loro uomo perché costui si rifiutava di
prestare il giuramento di fedeltà (doc. n. 7). Era proprio nell’ambito
delle prestazioni a lui dovute che il signore esercitava normalmente la
sua autorità giudiziaria e impiegava i mezzi di costrizione di cui si è
detto. Si capisce come il potere di costrizione rappresentasse l’aspetto
più concreto e tangibile dell’autorità signorile: i termini
districtus, districtio, con cui esso veniva indicato (dal verbo
distringere = “costringere con la forza”), ricorrono perciò con
estrema frequenza nelle fonti (cfr. docc. nn. 4, 5, 6, 8), divengono quasi
sinonimo di iurisdictio e sintetizzano spesso tutto il complesso
dei poteri signorili.
Tra questi poteri era molto importante quello di
organizzare la difesa militare e di imporre ai sudditi i lavori di
edificazione, manutenzione e custodia dei castelli. Il dominatus
era sempre legato a uno o più castelli. Le popolazioni rurali d’Italia
vivevano raramente, nei secoli XI e XII, in dimore sparse; la casa
colonica e la villa padronale, isolate in mezzo alla campagna, divennero
parte essenziale del paesaggio agrario italiano solo nel tardo Medioevo:
prima le abitazioni si raggruppavano in villaggi, dove attorno alla chiesa
erano le case di legno dei contadini, e più villaggi dipendevano da un
castello, cinto dal fossato e da mura alle quali si addossavano –
internamente la casa del signore, la torre, la cappella e una serie di
case appartenenti a famiglie di contadini, di piccoli proprietari, di
artigiani e di commercianti.
Nel castello si rifugiavano gli abitanti
dei villaggi minacciati dalle scorrerie degli ultimi invasori d’Europa
(Saraceni, Normanni, Ungari), dal passaggio degli eserciti imperiali e
dalle guerre locali tra signori. La guerra medievale colpiva in modo
particolare le popolazioni contadine, perché si traduceva normalmente
nella devastazione dei campi, nella distruzione di viti ed alberi,
nell’uccisione dei capi di bestiame, nell’incendio delle case di legno e
paglia dei rustici, nella distruzione dei mulini (cfr. Sez. IV, doc. n.
11, e un accenno in Sez. II, doc. n. 5). Per salvare la propria incolumità
personale e almeno una parte del bestiame e degli attrezzi, i rustici
dovevano rifugiarsi nei castelli: di qui l’importanza di questi nuclei
fortificati, che coprivano tutte le campagne dell’Italia
centro-settentrionale con una trama fitta, della quale è riconoscibile
oggi soltanto una parte.
L’edificazione di mura e torri era un lavoro
estremamente oneroso e costoso, soprattutto per la difficoltà di trasporto
dei materiali; i dipendenti dell’abbazia di Nonantola che ottennero nel
1058 una serie di importanti concessioni si impegnarono come contropartita
a “circondare di muro e fossato i tre quarti del castello” entro sei anni
(doc. n. 1). Una volta edificato il castello, i sudditi del signore
avevano l’obbligo di contribuire alla sua manutenzione, di effettuare
turni di guardia sulle mura (cfr. doc. n. 11, c. 378, e nella Sez. II il
doc. n. 2), di partecipare alla difesa del castello e prestare servizio
militare nell’esercito signorile (docc. nn. 1, 4, 11 c. 378).
A questi
obblighi i sudditi non adempivano tutti nella stessa misura e nelle stesse
forme: proprio a proposito dei servizi militari le fonti accennano alla
diversa posizione sociale ed economica dei dipendenti della signoria. Tra
i rustici di Calusco, dipendenti dalla chiesa di Bergamo,
soltanto alcuni appartenevano alla “castellanza” ed erano pertanto
obbligati a militare di persona nell’esercito (doc. n. 4). Nel documento
nonantolano del 1058 (n. 1), dove si fa una distinzione tra dipendenti
“maggiori”, “medi” e “minori” si prescrive anche che “ciascuna persona”
contribuisca ai lavori del castello “nella misura che le compete”. Non
vengono definiti qui i connotati e i caratteri distintivi delle tre
categorie di dipendenti. Ma sappiamo da altre fonti che i “minori” erano i
contadini privi di terra propria o i piccolissimi proprietari, mentre la
caratteristica, principale dei “maggiori” era quella di possedere cavalli
da guerra e quindi la base economica necessaria per il loro costoso
mantenimento. I membri di questa piccola “aristocrazia” locale
costituivano l’elemento essenziale dell’esercito signorile, al quale
partecipavano di persona con i loro cavalli: in compenso erano dotati di
particolari privilegi (doc. n. 2) oppure esonerati, almeno in tempo di
guerra, da ogni prestazione non militare (doc. n. 10, c. 12).
La forza
armata dei signori si fondava dunque, da un lato, su un ceto di medi
proprietari fondiari, che generalmente detenevano anche case e superfici
nel castello, dall’altro su una speciale categoria di “servi” detti “di
masnada” (servi de masnada, masnaderii: cfr. i docc. nn. 2 e 7
della Sez. II). La gran parte dei sudditi, cioè la gran parte della
popolazione contadina, sosteneva l’onere della difesa e della guerra
versando al signore tributi in denaro e in natura.
Nelle fonti sono
ricordati spesso questi tributi straordinari (cioè non annuali) dovuti al
signore e designati con una varietà di termini: adiutoria,
accatti o accattarie, collette o colte, dazi (cfr.
qui i docc. nn. 4, 5, 6, 10 c. 20, 11 c. 376, e nella Sez. II i nn. 1, 6,
9). Si deve pensare che coprissero in genere le spese straordinarie di
armamento e di guerra, anche se nelle fonti non è indicata quasi mai la
loro destinazione specifica. Vi erano altre spese straordinarie alle quali
il signore faceva fronte ricorrendo a queste imposizioni dirette. In
questo campo furono recepite dal sistema signorile istituzioni che erano
tipiche di un altro genere di rapporti di dipendenza, cioè dei rapporti
feudali. Nel rapporto feudale un uomo libero – detto “vassallo” – era
legato da un vincolo, detto di fedeltà (fidelitas), a un altro
uomo libero: il senior, che possiamo tradurre con “signore
feudale”. Tra gli obblighi essenziali del vassallo erano quelli di
prestare servizio armato al seguito del senior e di fornirgli un
aiuto economico in alcune circostanze, determinate dalla consuetudine, che
comportavano spese straordinarie: ad esempio quando il senior
doveva armare cavaliere il proprio figlio, quando dava in sposa la figlia,
quando partiva in pellegrinaggio, quando comprava terre, quando era preso
prigioniero e si doveva versare un riscatto per liberarlo. Ora, anche i
dipendenti della signoria si trovavano obbligati a pagare sovvenzioni di
questo tipo. I rustici di Calusco dovevano ai loro antichi
signori un adiutorium “in occasione di nozze, di sponsali e di
compere” (doc. n. 4). Nel 1207 i conti di Tintinnano si fecero promettere
dagli uomini del castello un aiuto materiale in occasione delle cerimonie
che accompagnavano l’armamento di un cavaliere o gli sponsali delle loro
figlie e sorelle (doc. n. 10, c. 8).
Tipiche del sistema signorile
erano poi una serie di esazioni che solo in origine avevano avuto
carattere di straordinarietà e destinazioni determinate. Il “fodro” era un
tributo in denaro, dovuto dagli abitanti delle campagne all’imperatore
quando questi attraversava il loro territorio e destinato ad assicurare il
vettovagliamento dell’esercito e del seguito imperiali. Di fatto veniva
riscosso dai signori (cfr. docc. nn. 3, 4, 8 e Sez. II, nn. 3 e 4) e
tendeva a divenire un normale tributo, richiesto con una periodicità fissa
(ogni uno, due, tre anni) o addirittura secondo l’arbitrio (doc. n.
4).
Un fenomeno analogo si verificò per un altro onere caratteristico
imposto ai dipendenti del signore. Quando egli passava per le terre della
signoria aveva diritto a ricevere vitto e alloggio per sé e per il suo
seguito e il vettovagliamento per i cavalli. Ma anche questa imposizione
in natura, detta “albergaria” (cfr. docc. nn. 2, 3, 5, 7, e Sez. II nn. 1,
6, 9, Sez. III n. 6), finiva per essere riscossa annualmente, o comunque
con una certa periodicità, e indipendentemente dalla circostanza specifica
del passaggio del signore. Assumeva dunque il carattere di un tributo
fisso, che normalmente consisteva in una quantità di generi alimentari
determinata dalle consuetudini o per contratto ed era proporzionale
all’entità dei beni di ciascun dipendente (si veda il doc. n.
2).
Accanto a questi tributi, i signori esigevano una serie quanto mai
varia e complessa di censi, di donativi e di prestazioni d’opera: quantità
determinate di denaro, di cereali, di fieno, di lino, di frutta, di
legname, di agnelli, di polli ed uova, di formaggio, di materiali da
costruzione; refezioni e cibarie per sé e per i propri dipendenti
(amiscera, “camangiari”, conmestiones: cfr. ad es. docc.
nn. 2, 5 e Sez. II, n. 8), talora inglobate nell’onere dell’albergaria
(doc. n. 2), talora commutate in una somma di denaro (Sez. IV, doc. n. 2);
servizi di trasporto dei prodotti agricoli dai luoghi di produzione ai
magazzini dominicali; giornate di lavoro sui campi di proprietà del
signore, in particolare al tempo delle semine e dei raccolti (le
prestazioni d’opera erano indicate spesso con i termini generici di
“angarie” e “parangarìe”: cfr. Sez. II, docc. nn. 4 e 10).
Nei
documenti tradotti in questa e nelle altre Sezioni il lettore troverà
numerosi esempi di prestazioni del genere. Ciò che importa sottolineare è
che esse rivestivano carattere di “angherie”, nel senso moderno del
termine, cioè di prestazioni che non avevano alcuna contropartita in
determinate concessioni fondiarie del signore. Tutti i proprietari
riscuotevano censi e a volte esigevano anche servizi dai contadini che
lavoravano le loro terre, ma tali censi e servizi venivano corrisposti in
cambio della concessione di terra al coltivatore. Il signore, al
contrario, aveva diritto a percepire beni e servizi non solo dai suoi
contadini, cioè da quanti coltivavano terre di sua proprietà, ma da tutti
coloro che si trovavano nel suo territorio: quindi anche da proprietari
che coltivavano direttamente le loro terre, da proprietari agiati che le
cedevano in conduzione ad altri, da contadini che lavoravano terre
appartenenti a persone diverse dal signore.
Questo è un punto
assolutamente centrale, che deve essere bene afferrato per comprendere la
storia del sistema signorile. Il dominus di un determinato
territorio era, certo, un grande proprietario fondiario, di norma il
maggiore tra i proprietari di quel territorio; su tale base economica si
fondava il suo potere effettivo. Ma egli vantava diritti signorili in
tutto l’ambito del territorio. Anzitutto su beni che sfuggivano al regime
della proprietà privata individuale, perché appartenenti al sovrano o
destinati, per tradizione, all’uso comune: strade pubbliche, corsi
d’acqua, foreste, pascoli. Ciò si traduceva in una fonte costante di
reddito: il signore riscuoteva pedaggi (doc. n. 2), percepiva tributi di
caccia e di pesca (doc. n. 6), poteva esigere capi di bestiame come
corrispettivo per l’uso dei pascoli (doc, n. 11, c. 385), imponeva
limitazioni, a proprio vantaggio, allo sfruttamento dei prati (doc. n. 7).
Dalla sovranità sui corsi d’acqua derivava l’importante monopolio sui
mulini; la costruzione di un mulino era cioè subordinata a uno speciale
permesso del signore, che ritraeva poi un utile da tutti i mulini del suo
territorio – sotto forma di una percentuale dei grani macinati oppure
(come nel doc. n. 10, c. 2) di una disponibilità gratuita del mulino in
periodi determinati.
Il dominio del signore si esercitava poi su beni
fondiari che erano proprietà individuale di altre persone. Così,
nell’ultimo quarto del secolo XII, un signore toscano dichiarava
esplicitamente che i propri diritti su due famiglie contadine si
estendevano anche alle terre che queste tenevano “in nome proprio ossia in
allodio” (doc. n. 5) e i canonici di Asti rivendicavano la propria
autorità signorile sui “beni allodiali” di alcune famiglie (doc. n. 7):
“allodio” è il termine germanico con cui veniva appunto designata la piena
proprietà, in contrapposizione ai beni che una persona deteneva in nome di
altri e cioè a titolo di locazione, di enfiteusi, di beneficio feudale
eccetera.
La sovranità del signore su tutti i beni fondiari compresi
nel suo territorio si concretava in una serie di limitazioni alla
disponibilità di tali beni da parte dei proprietari. A maggior ragione non
potevano disporre liberamente dei beni fondiari le famiglie che li
detenevano per conto del signore. Bisogna del resto tener presente che se
in teoria si manteneva una netta contrapposizione tra i liberi proprietari
(“alloderi”) e i detentori di terra altrui (cfr. ad es. Sez. II, doc. n.
1), nella realtà concreta non era sempre facile distinguere chiaramente i
beni di proprietà dei sudditi da quelli che essi detenevano per
concessione del loro signore. Infatti nei secoli XI e XII, come vedremo
meglio nella Sezione terza, le concessioni fondiarie erano generalmente a
lunghissimo termine; i concessionari non erano allontanati dalle terre a
una determinata scadenza contrattuale, bensì se le trasmettevano di
generazione in generazione, e maturavano così su di esse diritti molto
simili a quelli di un proprietario, in ogni caso ben diversi da quelli di
un moderno affittuario.
I principali limiti imposti agli “alloderi” e
ai detentori di terre, campi e case riguardavano la successione ereditaria
e la possibilità di vendita o comunque di alienazione. Se un suddito
moriva senza lasciare eredi legittimi, era il signore ad appropriarsi dei
suoi beni; se un suddito aveva intenzione di alienare la casa o le terre
doveva ottenere il consenso del signore o versargli una imposta, e spesso
era tenuto a concedergli un diritto di “prelazione”: il signore aveva cioè
la facoltà di acquistare lui, se avesse voluto, il bene in vendita, e ad
un prezzo inferiore rispetto a quello offerto da altri compratori. Dal
dominio del signore sui beni fondiari del territorio derivava inoltre un
suo controllo sui matrimoni dei sudditi, dal momento che ogni matrimonio
comportava un trasferimento di beni dalla sposa allo sposo: così, prima di
concedere in matrimonio le proprie figlie o le proprie sorelle, i sudditi
dovevano chiedere il consenso del signore; anche tale diritto si traduceva
spesso in una imposta, riscossa dal signore in occasione del matrimonio.
Nelle fonti raccolte qui (docc. nn. 1, 6, 7, 8, 10) si leggono numerosi
riferimenti alle questioni delle successioni ereditarie, delle vendite e
dei matrimoni, in contesti e con formulazioni differenti di cui il lettore
dovrà cercare di cogliere di volta in volta gli aspetti specifici.
Il
territorio entro cui il dominus esercitava questo complesso di
diritti e di prerogative faceva capo, normalmente, a un castello.
L’insieme degli obblighi e dei servizi dei sudditi trovava infatti la sua
principale contropartita e la sua ragion d’essere, almeno originariamente,
nella protezione accordata dal signore in caso di guerra; nucleo ed
essenziale strumento di questa difesa era, come abbiamo visto, il
castello: di qui la sua importanza come centro di organizzazione del
territorio. La circoscrizione territoriale che faceva capo al castello
viene designata ordinariamente nelle fonti con il termine curtis.
Questo termine (che noi abbiamo sempre mantenuto nella sua forma latina,
per l’impossibilità di trovare un corrispondente adeguato nel lessico
italiano moderno) indicava nell’Alto Medioevo un organismo economico –
l’insieme dei campi, terreni incolti, e boschi appartenenti a un grande
proprietario e gestiti da questi secondo una certa forma di sfruttamento
del lavoro contadino (ne parleremo nell’Introduzione alla Sez. III). Nei
secoli XI-XIV la parola venne usata invece per designare, come si è detto,
la circoscrizione che dipendeva da un determinato castello ed entro la
quale il signore del castello esercitava la propria autorità signorile o
districtus.
Nelle fonti i termini curtis e
districtus si trovano spesso abbinati, quando non sono
addirittura l’uno sinonimo dell’altro, e acquistano un duplice
significato. Districtus può indicare sia l’autorità signorile –
come abbiamo spiegato a suo luogo – sia l’ambito geografico in cui essa si
esercita: e da qui viene il nostro vocabolo “distretto”. Curtis,
oltre a indicare l’ambito geografico, sintetizza talora le diverse
prerogative signorili, simboleggia il diritto all’esercizio di determinati
poteri indipendentemente dalle persone fisiche che si trovano ad
esercitarli. In quest’ultimo senso è impiegato più spesso, dal secolo XII,
il termine curia (cfr. docc. nn. 2, 5, 9, 10 c. 12 e Sez. II, n.
2): nelle fonti si legge che determinate imposte e diritti spettano alla
curia, e con questa parola viene indicato al tempo stesso
l’ambito territoriale che dipende dal castello (cioè la curtis) e
l’autorità sovrana esercitata in tale ambito dal signore, dai suoi
rappresentanti, da persone che eventualmente compartecipassero dei poteri
signorili. La stessa duplicità di significato si riscontra nelle fonti per
quanto riguarda il castello, centro del dominio signorile: in determinati
contesti, infatti, i termini castrum e castellum non
indicano il nucleo fortificato nella sua materialità – con l’insieme delle
sue mura, dei suoi edifici, delle sue piazze ed orti – bensì possono
riferirsi al complesso dei diritti di cui è titolare il signore del
castello e all’esercizio della sua sovranità.
La duplicità di
significato assunta dai termini districtus, curtis, curia,
castrum, va ricondotta al fatto che i poteri signorili erano sempre
legati a un’entità fisica, cioè appunto al castello e alla circoscrizione
curtense che faceva capo ad esso. Il fenomeno presentava due aspetti,
altrettanto importanti e densi di conseguenze storiche. In primo luogo,
gli abitanti delle campagne dipendevano da un determinato signore non in
seguito a un loro atto di soggezione e nemmeno perché quel signore avesse
ricevuto a titolo individuale – dall’imperatore o da un’altra autorità
sovrana – un diritto sulle loro persone, bensì perché le terre su cui essi
risiedevano o lavoravano erano comprese in un determinato territorio, cioè
entro la curtis che dipendeva dal castello di quel signore.
L’esercizio dei poteri signorili si svolgeva secondo un principio di
“territorialità”, tant’è vero che le fonti parlano spesso della
giurisdizione, del diritto a ricevere prestazioni d’opera ecc. come di
altrettanti attributi o “pertinenze” di un determinato territorio e quindi
di un determinato castello.
Qui si innesta il secondo aspetto del
fenomeno che andiamo riassumendo: dal momento che i diritti signorili
erano legati al castello, venne ad assumere particolare importanza la
proprietà del castello da parte del signore. Egli non era, di norma, unico
proprietario di questo centro fortificato: singole case, piazze ed orti
potevano appartenere a disparate famiglie abitanti nel castello. Il
signore possedeva in genere un palazzo, le fortificazioni, alcune case e
superfici; nelle signorie laiche, il dominatus era spesso diviso
tra più persone (che generalmente risalivano a un comune antenato o erano
comunque imparentate tra loro: cfr. doc. n. 10), e ciascuna di esse aveva
la sua propria casa entro le mura del castello. Ora il potere signorile,
nella misura in cui faceva capo al castello, finiva per apparire vincolato
alle proprietà materiali che il signore o i signori possedevano nel
castello. Con la conseguenza importante che, quando uno di essi vendeva o
comunque alienava una casa, una piazza o una torre ad altre persone, si
intendeva alienata a queste ultime, automaticamente, anche una parte delle
prerogative signorili.
Restava tuttavia ferma la distinzione tra
signoria e proprietà. Da un lato, infatti, per i proprietari di beni
immobili nel castello che non appartenessero alla consorteria dei
domini la proprietà di tali beni non comportava l’esercizio di
diritti signorili né l’esenzione dagli oneri verso i domini: così, nella
“rocca” di Tintinnano, gran parte dei proprietari di case, piazze ed orti
erano semplici abitanti del luogo, dovevano un censo ai conti della
“rocca” e non potevano disporre liberamente di questi immobili (doc. n.
10, cc. 5-7). Dall’altro lato, la porzione di diritti signorili che
spettava a un dominus entro la curtis e nel castello non
era eguale, ma era generalmente superiore, alla porzione di beni immobili
che egli deteneva in proprietà; così, quando egli alienava “la propria
quota, cioè la metà, un quarto ecc., del castello e della curtis
di N.” (espressione corrente nei documenti, e che si presta ad essere
equivocata) si intendeva alienata la metà, un quarto ecc., del complesso
dei diritti signorili esercitati nel castello ed entro la curtis,
insieme a un numero di edifici e di terre che rappresentava,
verisimilmente, meno della metà, di un quarto ecc., di tutti i beni
fondiari di quell’ambito territoriale.
Benché signoria e proprietà
rimanessero due entità distinte, tuttavia si determinava tra loro una
connessione continua, sia per il vincolo istituzionale tra esercizio
dell’autorità signorile e territorio – negli aspetti che abbiamo
illustrato – sia perché i signori erano anche, di fatto, grandi
proprietari fondiari e detentori degli edifici più importanti nei
castelli. Tale connessione tra signoria e proprietà, tra poteri pubblici e
possessi fondiari arrivò anzi al punto che non soltanto le cessioni di
castelli e di fortificazioni, ma addirittura le semplici alienazioni di
terreni, boschi, campi, vigne, compiute dai signori, potevano essere
accompagnate dall’alienazione di prerogative signorili. In definitiva
queste erano frazionate, vendute, impegnate o concesse in godimento in
maniera del tutto ordinaria: trasferimenti di poteri signorili sono
attestati dai documenti nn. 3, 4, 5, 7, dove il lettore noterà la
connessione costante con il trasferimento di beni fondiari. Una
trasferibilità così ampia delle prerogative signorili implicava anche che
esse potevano venire smembrate, nel senso che un signore poteva cedere,
insieme a un castello, a una casa o a un semplice pezzo di terra, soltanto
alcuni dei diritti signorili annessi (l’albergaria, tanto per fare un
esempio) e riservarne altri per sé (cfr. doc. n. 3).
I poteri pubblici
nelle campagne erano dunque considerati alla stregua di normali beni
patrimoniali. Ma la “patrimonializzazione” della signoria assumeva anche
un altro aspetto, altrettanto interessante e importante: l’esercizio dei
singoli poteri e diritti si concretava nella percezione di altrettante
forme di reddito, e questo contenuto economico finiva normalmente per
prevalere rispetto all’originaria funzione pubblica della signoria. Così
l’autorità giudiziaria era esercitata in grande misura – come si è detto –
per assicurare al signore le dovute prestazioni; milizia, fodro,
albergaria e obblighi di assistenza si traducevano in entrate di carattere
più o meno ordinario, e lo stesso avveniva per i diritti sulle
successioni, sulle vendite e sui matrimoni; la sovranità su strade, fiumi,
pascoli e selve implicava riscossioni in denaro e in natura; a queste si
aggiungevano una quantità di censi (polli, uova, formaggi ecc.) e di
servizi (di zappatura, di vendemmia ecc.) analoghi a quelli che esigevano
i semplici proprietari fondiari. Nei documenti della nostra raccolta (si
vedano ad esempio un documento toscano: n. 5; uno piemontese: n. 7; uno
veneto: Sez. III, n. 6) il lettore potrà constatare la continua
giustapposizione di tributi e obblighi di natura pubblica ai censi e agli
oneri tipicamente agricoli e fondiari.
Le famiglie dell’aristocrazia
militare (milites) e i maggiori enti ecclesiastici esercitarono
indisturbati il loro potere, nelle forme che abbiamo descritto, fino agli
inizi del secolo XII: cioè finché mantennero una posizione di assoluto
predominio sia come proprietari fondiari sia come titolari delle diverse
attribuzioni dell’autorità pubblica. Poi tale predominio si andò
restringendo in ambedue i campi. Per quanto riguarda la proprietà, furono
i laici a subire la crisi più profonda, a causa dell’assoluta noncuranza
che i milites avevano per la gestione economica delle proprie
ricchezze; la proprietà ecclesiastica conservò invece a lungo grandi
dimensioni e vitalità economica, ma fu minata dalla sua scarsa mobilità e
dal sistema di concessioni a lungo termine che prevaleva al suo interno e
che finiva in genere per sottrarre le terre al controllo diretto delle
chiese: su tali questioni ritorneremo nelle Sezioni III e IV.
D’altra
parte la fine delle invasioni, un certo aumento di produttività della
terra, la messa a coltura di nuovi suoli e la conseguente ripresa degli
scambi commerciali comportarono il lento e progressivo rafforzamento, nei
villaggi e nei castelli, di un ceto di piccoli e medi proprietari. Nel
secolo XII questi tolleravano sempre peggio che una parte del proprio
reddito fosse dovuta al signore senza che a questo prelievo
corrispondessero concessioni fondiarie. D’altronde era ormai difficile per
i signori fondare imposizioni e prerogative sulla funzione “pubblica”
della loro autorità. Era infatti divenuto prevalente, come si è detto,
l’aspetto patrimoniale della signoria; le imposizioni e le prerogative
signorili non rappresentavano cioè se non una fonte di reddito, alla quale
non corrispondeva alcun “servizio” di natura pubblica (amministrazione
della giustizia, organizzazione dell’esercito ecc.) : tanto è vero che
esse potevano essere normalmente suddivise, vendute, date in affitto o in
pegno, smembrate in vari modi.
Queste contraddizioni interne al regime
signorile furono poste in luce man mano che nuove forze e nuovi centri di
potere venivano rivendicando, con successo sempre maggiore, l’esercizio
dei poteri sovrani nelle campagne. Le prime contestazioni del potere
signorile furono mosse dai piccoli e medi proprietari del contado, oppure
da famiglie e da comunità di villaggio che avevano in concessione beni di
proprietà del signore o diritti di godimento su boschi, pascoli e terreni
incolti nel territorio dominato dal signore. Delle lotte che questi ceti
sostennero contro i signori noi possiamo conoscere solo raramente le forme
e lo svolgimento. La stessa esistenza di pressioni, contrasti e scontri ci
è attestata, di solito, solo al momento del loro esito finale: quando cioè
vennero stesi dei documenti scritti , nei quali, sotto forma di
concessione unilaterale del signore o di patto stipulato tra questi e i
suoi sudditi, erano determinati chiaramente i poteri e i diritti delle due
parti.
Gli aspetti centrali di queste convenzioni erano l’esclusione di
arbìtri nell’esercizio del potere signorile (cfr., in particolare, il doc.
n. 1), il divieto di imporre ulteriori censi e prestazioni, oltre a quelli
dovuti per consuetudine o fissati comunque nella convenzione (cfr., in
particolare, il doc. n. 2), la traduzione dei servizi dovuti al signore in
quantità determinate di denaro o di prodotti agricoli (cfr., in
particolare, il doc. n. 10). Ma già dai primi anni del secolo XII si
assiste anche alla pura e semplice remissione, da parte dei signori, di
certi tributi e di certe prestazioni personali, e soprattutto al passaggio
di una parte dei poteri giurisdizionali e fiscali nelle mani dei medi e
piccoli proprietari residenti nel castello e nel territorio (doc. n. 2).
Nel corso dei secoli XII e XIII questi espressero proprie forme di
organizzazione, di controllo e di rappresentanza. Si vennero così formando
dei Comuni di villaggio e di castello, fondati su forme di divisione o di
compartecipazione dei poteri tra gli esponenti di questa “aristocrazia”
locale e gli antichi signori (doc. n. 10).
La pressione e la lotta dei
ceti residenti nelle campagne conduceva a una diversa organizzazione del
regime signorile, non alla sua eversione. In ogni tipo di convenzione tra
signori e sudditi era sancita la sovranità signorile sul territorio.
Difficilmente le cose sarebbero potute andare altrimenti, dato che i
signori mantenevano ancora agli inizi del Duecento grandi possessi
fondiari e che i loro sudditi erano anche, almeno in parte, concessionari
di terre di loro proprietà. Il lettore noterà che in tutte e tre le
convenzioni qui riprodotte (docc. n. 1, 2 e 10) la limitazione dei poteri
signorili si accompagna alla definizione delle varie forme di concessione
fondiaria che legavano signori e sudditi. Molte volte la stessa
organizzazione delle comunità di villaggio e la stessa definizione dei
rapporti tra i loro membri e il signore era diretta conseguenza di
un’ampia concessione di terre; ciò avveniva soprattutto quando il signore
destinava a un insieme di famiglie contadine zone inabitate da
colonizzare, boschi e incolti da mettere a coltura, terreni che dovevano
essere difesi dalle acque: un esempio di grande interesse in questo senso
è offerto dalla concessione dell’abate di Polirone, della fine del secolo
XII (doc. n. 9).
Nel pieno svolgimento di questa complessa evoluzione
dei rapporti tra signori e sudditi, mentre si venivano configurando
svariate forme di comunità rurali e di organizzazione dei poteri locali, i
termini della situazione furono completamente mutati dall’intervento delle
autorità cittadine. Tra l’ultimo quarto del secolo XI e la metà del secolo
XII si era definitivamente affermata nelle città una forma di governo
autonomo, con proprie magistrature civili e una propria organizzazione
militare; questo nuovo organismo di potere, il Comune cittadino, era
dominato da proprietari fondiari che risiedevano stabilmente in città, da
vassalli e da funzionari laici del vescovo (che era stato l’autorità
cittadina dominante nei secoli X e XI) e della chiesa cattedrale, da
famiglie che integravano i redditi fondiari con l’esercizio delle attività
di prestito, di cambio e di commercio, da famiglie di giudici e notai. Il
reddito di queste persone derivava generalmente dal possesso fondiario e
talora anche dall’esercizio dell’autorità signorile nel contado. Ma nella
misura in cui avevano legato le proprie fortune e il proprio potere allo
sviluppo della città, dove avevano case e torri, nella misura in cui erano
interessate alla difesa della città, al consolidamento delle sue
istituzioni e alla sua espansione economica, esse promossero l’estensione
dei poteri del Comune sopra tutto il contado e l’affermazione della sua
autorità giudiziaria, militare e fiscale sulle terre che facevano capo ai
castelli e ai loro signori.
Naturalmente quest’azione divenne sempre
più incisiva man mano che nei Comuni si andò rafforzando il peso politico
di due ceti sociali: quei proprietari fondiari, spesso provenienti dal
contado, che non esercitavano diritti signorili, non erano personalmente
legati a famiglie signorili ed erano interessati soprattutto a estendere e
a far coltivare liberamente, in ogni punto del contado, le proprie terre;
le famiglie di mercanti e banchieri, interessate al controllo dei mercati
del contado e all’espansione delle finanze cittadine e preoccupate
anch’esse di poter investire liberamente i propri capitali nella
terra.
L’affermazione della sovranità cittadina sulle campagne fu un
processo lento, che si svolse con ritmi, modalità ed esiti differenti da
luogo a luogo; la lotta contro i signori non fu condotta in comune dalle
autorità cittadine e dai medi e piccoli proprietari residenti nel contado,
poiché erano diverse le motivazioni delle une e degli altri. Noi abbiamo
scelto tre fonti, che attestano fasi successive della contestazione del
dominatus e differenti atteggiamenti delle autorità cittadine.
Nel 1130 i consoli milanesi sancirono la dipendenza dei rustici
di Calusco dai canonici di Bergamo (doc. n. 4); i rustici (con
questo termine si designavano generalmente nell’Alta Italia i dipendenti
della signoria, fossero o meno lavoratori della terra) avevano sollevato
l’importante questione della residenza, sostenevano cioè che un signore
potesse esercitare il suo dominio solo su chi risiedeva nel suo territorio
e non su chiunque vi detenesse beni fondiari: contestavano cioè un aspetto
limitato del principio “territoriale”, ma non ottennero soddisfazione dai
consoli.
Cinquanta anni dopo i canonici di Asti rivendicavano nella
curtis di Quarto la loro “giurisdizione […] sia per i beni
allodiali che per i mansi” (doc. n. 7); la ribellione di alcuni alloderi
si sarebbe manifestata, secondo l’atto di accusa, in forme di estrema
violenza: e sembra che non solo non venisse rispettata la sovranità
signorile sugli allodi, ma che i canonici dovessero addirittura difendersi
dalle spoliazioni dei propri beni patrimoniali. Anche in questo caso i
magistrati cittadini si pronunziarono in favore dei signori (doc. n. 8),
ma vollero chiarire che non erano dovute a questi ultimi tre prestazioni
di carattere pubblico: il fodro, l’obbligo di fare da ambasciatori e
quello di partecipare alle spedizioni militari. I Comuni affermavano ormai
pienamente, nell’ultimo quarto del secolo XII, la propria autorità in
campo fiscale, amministrativo e militare; riconoscevano in genere la
sovranità dei signori sopra curtes e castelli, ma cercavano di
avocare a sé la riscossione delle imposte e il controllo del sistema
difensivo nel contado.
Ad altri cinquant’anni di distanza, vediamo un
interessante esempio di limitazione dei poteri signorili negli Statuti del
Comune di Treviso. Tra il XII e il XIII secolo si veniva formando in
ciascun Comune una forma di legislazione autonoma: si ponevano per
iscritto le consuetudini giuridiche locali, che andavano osservate nei
rapporti civili tra privati, e si raccoglievano in una compilazione unica
i regolamenti interni dei vari organi di governo comunale, i patti e i
giuramenti che dovevano regolare le relazioni del Comune con i feudatari,
con determinati signori o con altri Comuni, le deliberazioni più
importanti dei consigli cittadini in materia di diritto civile e penale,
di finanza e di opere pubbliche, di rapporti con gli ecclesiastici, con le
corporazioni, con le comunità e i signori del contado. Queste compilazioni
presero nome di “Statuti” e sono tra le fonti più importanti per la storia
dei Comuni. Nel Comune di Treviso, dove l’influenza di ceti feudali e
signorili era grande, nondimeno l’esercizio di “qualunque tipo di
giurisdizione” nel contado fu severamente disciplinato dagli Statuti degli
anni 1207-1231 (doc. n. 11). Nessuno avrebbe potuto imporre tributi né
sottrarre beni sotto qualunque pretesto se non ai propri rustici e ai
propri servi, cioè a quanti gli erano legati personalmente da un vincolo
di dipendenza: questo il punto centrale delle disposizioni statutarie qui
tradotte, che consentiranno comunque al lettore attento molte precisazioni
e osservazioni particolari.
Dal contenimento degli arbìtri e della
prepotenza signorili (doc. n. 1), al tentativo di restringere l’ambito
entro cui si esercitava la signoria (doc. n. 4), alla ribellione violenta
contro alcune sue prerogative essenziali (doc. n. 7), alla delimitazione
di queste da parte delle autorità cittadine (doc. n. 11), le fonti qui
raccolte delineano una tendenza storica di fondo, il cui punto di arrivo
sarebbe stato la scomparsa del carattere “territoriale” della signoria.
Dalla fine del secolo XII l’impulso decisivo in questa direzione era dato
ormai dai Comuni cittadini, che rivendicavano a se stessi la sovranità su
tutti i castelli e i territori del contado. Su questo terreno poteva
verificarsi, in certi casi, una convergenza oggettiva tra l’azione delle
classi dirigenti cittadine e il movimento dei proprietari e dei detentori
di terre residenti nel contado.
Contro questa tendenza di fondo si andò
sviluppando una reazione da parte dei signori, secondo una duplice
direttiva. Da un lato si accelerarono la stipulazione di patti e
convenzioni con i piccoli e i medi possessori locali e l’organizzazione
dei Comuni di castello e di villaggio, fondati sul condominio dei poteri
tra i domini e i residenti del luogo. Se la convenzione tra la
badessa di S. Sisto e gli uomini di Guastalla, dell’inizio del secolo XII
(doc. n. 2), costituisce un esempio piuttosto raro per la sua epoca, al
contrario il piccolo Statuto della “rocca” di Tintinnano, elaborato nel
1207 per definire i rapporti tra la consorteria signorile e il Comune
degli uomini di Tintinnano (doc. n. 10), non è che un esempio – peraltro
di straordinario interesse – di un tipo di transazioni allora assai
frequente.
Dall’altro lato i signori, man mano che perdevano terreno
quanto al dominio territoriale e alla sovranità sui liberi proprietari,
tentavano di recuperare una parte di potere con l’istituzione di vincoli
di natura personale. In particolare, concedendo nuove terre e diritti
d’uso, oppure rinnovando antiche concessioni fondiarie, essi cercarono di
legare a sé i concessionari con il vincolo feudale: quest’obbligo di
obbedienza e di aiuto materiale, che nei secoli IX-XI era stretto tra
uomini liberi e aveva come contenuto essenziale la prestazione del
servizio militare da parte del vassallo, venne ora esteso sempre più
spesso a piccoli proprietari, a contadini e in genere a tutti i detentori
di terre del signore. In moltissime fonti posteriori alla metà del secolo
XII i dipendenti del signore appaiono infatti tenuti al giuramento di
fedeltà. Questo rapporto personale di fidelitas è attestato nei
documenti dei canonici novaresi e astigiani (nn. 6 e 7); i coniugi del
territorio fiorentino che cedettero al monastero di Passignano due
contadini (doc. n. 5) li dichiararono sciolti “da ogni giuramento”,
espressione che si riferisce sicuramente al giuramento di fedeltà. Altri
esempi saranno offerti in documenti delle Sezioni II (nn. 2, 5, 9, 10) e
III (n. 10).
È interessante notare come continui a manifestarsi,
accanto al vincolo personale, il principio del dominio territoriale dei
signori: quando i canonici di Asti sostengono che la curtis di
Quarto “appartiene” a loro, intendono dire che esercitano sovranità
signorile su tutto il territorio della curtis; i signori toscani parlano
di diritti esercitati “in base […] alla curia di Roffiano”; gli
inquirenti nella causa per il dominio dei canonici di Novara sopra gli
uomini di Cànnero si preoccupano di chiarire “se Cànnero fosse
curtis di per sé”, cioè se fosse subordinata o meno a un altro
organismo territoriale. Nelle tre fonti, che per questo aspetto sono
assolutamente tipiche della loro epoca, si giustappongono in maniera
confusa l’elemento territoriale e l’elemento personale, l’autorità
pubblica e i diritti patrimoniali dei signori.
L’organizzazione dei
Comuni di villaggio e di castello, da un lato, e dall’altro l’estensione
dei rapporti feudali nelle campagne, garantirono ai signori il
mantenimento di molte loro prerogative sino alla fine del Medioevo ed
oltre, ma in un ambito più limitato rispetto alle forme originarie del
dominio signorile. Nelle comunità locali, infatti, essi dovevano
condividere il potere con i loro ex sudditi (cfr. docc. nn. 2 e lo),
mentre la signoria feudale era condizionata dalla possibilità di fare
larghe concessioni fondiarie, che in prospettiva avrebbero indebolito la
forza economica dei signori, e comunque non aveva più nulla a che vedere
con l’antica sovranità territoriale. Per questi motivi la “reazione
signorile” di cui si è parlato non venne contrastata decisamente dalle
classi dirigenti delle città. Ai Comuni di villaggio e di castello fu
concessa una larga autonomia entro l’ambito politico, amministrativo e
finanziario degli Stati territoriali cittadini: anzi le autorità cittadine
si fecero spesso garanti del rispetto degli Statuti rurali, dei patti e
delle convenzioni stipulati tra signori e comunità locali e
dell’osservanza, da parte dei residenti del contado, di obblighi e doveri
nei confronti dei signori. Una volta che le città si erano assicurate il
dominio politico sui castelli del contado, imponendo atti di sottomissione
e di garanzia e istituendo propri organi di controllo, esse potevano
demandare a signori e Comuni locali l’organizzazione della difesa e della
finanza locale, i compiti di polizia campestre e la giurisdizione nelle
cause minori.
Anche i nuovi legami feudali furono in larga misura
tollerati e rispettati dalle autorità cittadine. Qui tuttavia le cose
potevano presentarsi in termini differenti. Infatti, quando i rapporti di
forza lo consentivano, i signori tendevano a ricostituire su questa base
di legami personali le antiche forme di potere; inoltre, man mano che
perdevano il proprio dominio sull’insieme del territorio, erano portati a
inasprirlo nei confronti di quanti risiedevano e lavoravano sulle terre di
loro proprietà. L’istituzione dei vincoli di fedeltà non rappresentava,
spesso, che un aspetto di questo più generale inasprimento del dominio dei
grandi proprietari nobili ed ecclesiastici: non si trattava allora di un
fenomeno nuovo, che le autorità cittadine potessero disciplinare e
controllare, bensì di un tentativo di ritorno all’indietro, che esse –
come vedremo nella Sezione seguente – dovettero sforzarsi di
contrastare.
Nota bibliografica sul potere signorile nelle campagne
Per un inquadramento generale della storia della signoria nell’Europa
medievale si può leggere R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo,
I: Ordinamento curtense e clientele vassallatiche; II: Signoria
rurale e feudo, tra. it. Bologna, Il Mulino, 1971 e 1974 (ediz. Originale
francese del vol. I: 1959, 2ª ediz. riveduta 1968; del vol. II: 1970),
corredato di ampia bibliografia. Più sintetico è il libro di G. FOURQUlN,
Seigneurie et féodalité au Moyen Age, Paris, Presses Universitaires
de France, 1970. In ambedue gli studi la parte dedicata all’Italia
è esigua. Sulla storia del regime signorile del nostro Paese non esiste
alcun lavoro di carattere generale, ma si può vedere adesso il rapido
e magistrale profilo di G. TABACCO, La storia politica e sociale.
Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni di Stati regionali;
in AA.VV., Storia d’Italia, II, cit., 1, pp. 3-274, in
particolare pp. 113-127, 150-180 (con ampie referenze bibliografiche).
Per il resto, lo studioso deve raccogliere una serie di indicazioni sparse
in monografie dedicate ai singoli signori e in saggi su questioni determinate.
Così il problema della territorialità è stato trattato da P. VACCARI,
La territorialità come base dell’ordinamento giuridico del contado
nell’Italia medioevale, 2ª ed., Milano, Giuffrè, 1963 (la prima
edizione risale al 1921), e per le istituzioni sociali connesse ai castelli
si deve ricorrere principalmente all’articolo di F. CUSIN, Per
la storia del castello medioevale, in “Rivista storica italiana”,
Ser. V, IV (1939), pp. 491-542. Tra gli studi su singoli enti, titolari
di diritti signorili, è di particolare importanza R. ROMEO, La signoria
dell’abate di Sant’Ambrogio di Milano sul comune rurale di
Origgio nel secolo XIII, in “Rivista storica italiana”, LXIX (1957),
pp. 340-377, 473-507, poi ristampato con il titolo Il comune rurale
di Origgio nel secolo XIII, Assisi, Carucci, 1970. |