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Didattica > Fonti > Le campagne nell’età comunale > II, 5

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione II – La servitù della gleba

5. Il priore di S. Andrea di Carrara libera un servo della gleba

In appendice al libro del VACCARI, L’affrancazione cit., pp. 187-217, è pubblicata una interessante serie di ventidue atti di affrancazione di servi, compiuti da proprietari laici o ecclesiastici dei territori toscano ed emiliano: l’analisi di questi atti e la loro comparazione risulta molto utile e istruttiva. Noi abbiamo scelto due documenti della serie, stipulati rispettivamente nel 1251 e nel 1255, dove alla liberazione del servo si accompagna la rinunzia, da parte di quest’ultimo, a qualunque diritto sulle terre da lui coltivate. In questo primo documento (p. 202, n. XI) viene indicato il prezzo versato dal servo per ottenere la libertà. In realtà egli rimane un dipendente della chiesa di Carrara, al cui titolare presta giuramento di fedeltà, e conserva così il godimento della terra a titolo di feudo; ma si precisa che si tratta di un feudo “retto ed onorifico”, tale cioè da non pregiudicare la libertà personale del fedele: precisazione necessaria in un’epoca nella quale i vincoli feudali, che originariamente erano per definizione vincoli tra persone libere, venivano spesso estesi ai dipendenti contadini della signoria.


In nome di Dio, amen. Nell’anno millesimo duecentesimo cinquantesimo primo dalla Sua Natività, indizione nona, il quarto giorno dopo l’inizio del mese di maggio. Il Signor Enrico, priore della chiesa di S. Andrea di Carrara, agendo in nome e per conto della sua chiesa, con il consenso del Signor Accorso, canonico di S. Frediano di Lucca e della detta chiesa di S. Andrea, e di Berlingeri, converso di S. Andrea, liberò e sciolse Martino del fu Pilliccione da Torano, che secondo l’asserzione del Signor Enrico era villano e manente della detta chiesa, da ogni villanatico e da ogni condizione di villanaggio e da ogni obbligo di residenza e di omaggio e da ogni servitù della gleba, liberandolo insieme al suolo e alla gleba, su cui risiedeva o avrebbe dovuto risiedere e si diceva che risiedessero egli e suo padre o i suoi ascendenti, e liberandolo da ogni genere e specie di servitù e da ogni condizione ascrittizia […] e colonaria […] e di censito […] e da ogni condizione di qualunque tipo […] cui fosse vincolato, sottomesso, ascritto, tenuto, obbligato, sottoposto o sottomesso […] Così che Martino e i suoi eredi e tutta la progenie che da lui discende e discenderà siano d’ora in poi sempre liberi e sciolti dai vincoli di cui sopra […] e a ciascuno di loro sia lecito andare dovunque voglia, secondo il suo proprio arbitrio, e dimorare dove preferisca e fare in ogni circostanza quello che gli piaccia, così come ciò è lecito ai cittadini romani e a quanti sono veramente liberi, ingenui [1] e sciolti da legami e non sottoposti né vincolati al suolo, alla gleba, a determinati obblighi personali […]

E a conferma di quanto sopra il Signor priore dichiarò di aver ricevuto da Martino, come contropartita della liberazione suddetta, 20 lire di denari imperiali […] che affermò di dover spendere nell’interesse della chiesa, e precisamente per rifare il mulino superiore della chiesa situato nella località di Brolo, che fu distrutto e incendiato dai Pisani in guerra [2] […]

Fatto in Carrara, nella chiesa di S. Andrea (segue l’elenco dei testimoni).

Subito dopo, nello stesso luogo e dinanzi agli stessi testimoni, Martino rinunziò definitivamente […] in favore del priore, che agiva in nome della chiesa di S. Andrea, a tutto il podere, ai possessi fondiari e ai beni mobili e immobili che egli e suo padre avevano detenuto per concessione del priore e della chiesa […]

Subito dopo, nello stesso luogo e dinanzi agli stessi testimoni, il priore […] diede e concesse a Martino, a titolo di feudo retto ed onorifico e dietro corresponsione di un canone determinato, tutto il podere, tutti i possessi fondiari e i beni che Martino aveva avuto, detenuto e posseduto in nome della chiesa suddetta. Così che Martino, i suoi eredi maschi e le femmine – ove non vi siano eredi maschi – abbiano e detengano questo podere e questi possessi e beni e ne usufruiscano a titolo di feudo retto ed onorifico: e al priore e ai suoi successori o agli aventi causa sia versato annualmente un canone di 2 soldi di denari imperiali, in buona moneta […] Martino e il suo genero Prete giurarono al priore […] fedeltà contro qualunque persona ed ente [3].

[1] Sono riecheggiate qui le formule classiche di manomissione degli schiavi; ingenui si dicevano presso i Romani gli uomini nati liberi, in contrapposizione ai libertini, cioè agli schiavi liberati.

[2] Le alienazioni di beni ecclesiastici, quindi anche le emancipazioni di schiavi e le affrancazioni di coloni, erano proibite dal diritto canonico, salvo in casi di grave necessità finanziaria o di palese opportunità economica: ecco il motivo di questa dichiarazione del priore Enrico.

[3] Ricorda il documento della Sez. I, n. 6 (nota 1). Cfr. Sez. I, doc. n. 2.

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UpUltimo aggiornamento: 17/01/05