Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione
Nelle fonti dei secoli XI-XIV la parola servus (al
femminile: ancilla) ha lo stesso significato che aveva nel latino
classico: indica lo schiavo, cioè un uomo che è proprietà
di un altro uomo e che può essere oggetto di alienazione alla stregua
di un pezzo di terra, di una casa, di una bestia dal lavoro. Secondo il
diritto romano, lo schiavo non poteva compiere nessun atto che avesse
valore giuridico: se vendeva o donava dei beni, la vendita o donazione
era nulla; la sua unione con una donna non poteva essere considerata matrimonio,
non produceva cioè alcun effetto civile.
Nell’Italia dei Comuni esistevano molti uomini di simile condizione,
ma – a differenza da quanto era avvenuto nell’età romana
e nei primi secoli del Medioevo – essi costituivano una piccola
minoranza della popolazione agricola. La gran parte degli schiavi e delle
schiave era addetta infatti al servizio domestico presso famiglie abbienti
e si concentrava nelle città maggiori. Una categoria particolare
era quella dei “servi di masnada” o “masnadieri”
(cfr. docc. nn. 2 e 7), posseduti per lo più da famiglie aristocratiche
e impiegati da queste come milizia privata e personale, come messi, agenti
ed esecutori materiali delle loro volontà. Ai servi di masnada
erano assegnate spesso in godimento case e terre: essi potevano così
trasformarsi in agricoltori e una volta che avessero ottenuto dai padroni
la “manomissione” (cioè un atto solenne di liberazione),
in medi o piccoli proprietari fondiari.
La maggioranza dei contadini non si trovava in condizioni di schiavitù,
ma era legata da altre forme di dipendenza personale. La loro condizione
giuridica è designata nelle fonti con termini disparati. Nell’Italia
settentrionale si parla in genere di rustici (docc. nn. 3 e 4),
in Toscana di villani (docc. nn. 1, 2, 5); dovunque è
diffuso il termine di “manenti” (docc. nn. 5-10), che viene
dal verbo latino manere (= “risiedere”, “dimorare”)
e accenna all’obbligo di non abbandonare il fondo senza il consenso del
padrone (obbligo di “manenza”). Anche in età romana
molti coltivatori erano vincolati da quest’obbligo, pur essendo liberi
sotto ogni altro aspetto, e venivano chiamati coloni (la loro
condizione: colonatus); nell’età dei Comuni, quando erano
fiorenti gli studi di diritto romano e questo veniva applicato e adattato
a tutti i rapporti sociali, si riprese il termine coloni e lo
si usò alternativamente alle parole rustici, villani,
“manenti” della lingua volgare (docc. nn. 2, 8, 9, 10). Riesumando
tutta una terminologia con cui nei testi romani si erano designate forme
diverse di colonato, notai e giuristi dei secoli XII-XIV parlarono nelle
loro carte di inquilini, di censiti, di “ascrittizi”
(docc. nn. 5, 7, 8, 9, 10), senza che ai differenti termini corrispondessero
differenze reali nelle condizioni giuridiche dei contadini. Così
i dotti inquirenti nella causa tra la Badia fiorentina e il colonus
Benivieni (doc. n. 2) chiedono a un testimone “che tipo di colono
era Benivieni”: e il testimone risponde che Benivieni era un villano,
cioè non fa altro che tradurre in, volgare toscano il termine romanistico.
Quanto agli storici moderni, essi sogliono definire tutti questi villani,
rustici, “manenti”, coloni, inquilini
ecc. con l’unico termine di “servi della gleba”.
Questo termine non è completamente felice, per motivi che chiariremo
in seguito. Tuttavia è bene continuare ad usarlo, sia perché
mette in luce un aspetto molto importante dei rapporti di dipendenza contadina
sia perché sono le stesse fonti a suggerirne l’impiego. Il termine
deriva da quello che era il tratto più caratteristico del colonato
romano, cioè dal divieto di abbandonare la terra del padrone: il
colono era “ascritto” (adscriptus = “vincolato”)
alla gleba (“zolla”, e cioè “terra”,
“fondo”). Il fatto stesso che nei secoli XII-XIV sia stato
ripreso il termine colonatus per indicare i rapporti di dipendenza
contadina dimostra come a quel tempo la residenza obbligatoria sul fondo
fosse un elemento essenziale di tali rapporti. Abbiamo accennato del resto
alla grande diffusione del termine “manenti”, che trae origine
dal vincolo di residenza.
La cessazione dell’obbligo di residenza è un contenuto essenziale
degli atti di affrancazione dei contadini dipendenti: “liberò
e sciolse Martino […], villano e manente […], da ogni villanatico
[…] e da ogni obbligo di residenza e di omaggio e da ogni servitù
della gleba […]. Così che Martino e i suoi eredi e tutta la progenie
che da lui discende e discenderà siano d’ora in poi sempre liberi
e sciolti dai vincoli di cui sopra […] e a ciascuno di loro sia lecito
andare dovunque voglia […] e dimorare dove preferisca” (doc. n.
5; e vedi anche il n. 6).
Molti elementi contribuiscono a farci individuare nell’obbligo di residenza
il punto centrale della dipendenza contadina. Si trattava, come risulta
dai documenti nn. 1, 2, 5, 6, 8, 9, di un vincolo ereditario: ora nel
Medioevo il fatto di essere costretti a determinati obblighi per condizione
di nascita, e non per volontà personale, implicava già di
per sé l’esclusione dalla categoria degli uomini liberi. A parte
questo, la facoltà di potersi spostare, di poter fissare ad arbitrio
la propria residenza era concepita come un requisito essenziale della
libertà. Per un contadino essere privo di questa libertà
comportava restrizioni di altri diritti essenziali. Fin dall’età
romana il patrimonio personale del colono era concepito come una specie
di pegno, di garanzia per il padrone: questi avrebbe avuto diritto ad
impossessarsene nel caso che il colono, trasgredendo al suo obbligo fondamentale,
avesse abbandonato il fondo. Una conseguenza molto importante, che si
manifestò sia in età romana che nel Medioevo, era che il
contadino non potesse disporre dei propri averi senza il consenso del
padrone.
Era riconosciuta tuttavia al contadino la facoltà di disporre del
denaro che si fosse procurato col proprio lavoro. Se infatti, dopo aver
dedotto il canone dovuto al padrone, le cose necessarie al sostentamento
della propria famiglia e degli animali, le sementi per l’anno successivo
e le scorte, egli disponeva ancora di un’eccedenza di prodotto agricolo,
poteva venderla e accumulare così, in una serie di anni, un patrimonio
mobiliare suo personale (spesso designato nelle fonti con il termine conquestum:
cfr. doc. n. 6). Un possibile impiego del patrimonio così costituito
era l’acquisto di terre, con la conseguenza che il contadino veniva a
trovarsi nella duplice posizione di servo della gleba e di piccolo o medio
proprietario. Un altro impiego poteva consistere nell’acquisto della libertà:
versando una somma al padrone, il servo otteneva di essere affrancato.
Ereditario, l’obbligo di residenza si estendeva a tutto il nucleo
familiare del contadino dipendente. Le sue figlie e le sue sorelle potevano
sposarsi liberamente solo con contadini che dipendessero dal medesimo
padrone, in modo che il numero complessivo di braccia, di forze lavorative
sulle terre padronali rimanesse immutato: era questo – il lettore
lo tenga ben presente – lo scopo essenziale del rapporto di servitù.
Perché le donne di condizione servile contraessero matrimonio con
uomini liberi, o dipendenti da un padrone diverso dal loro, era necessario,
ancora una volta, il consenso padronale.Il vincolo alla “gleba”
colpiva dunque un’altra libertà fondamentale delle persone.
Esso era l’elemento determinante in un sistema di restrizioni, che
poneva la gran parte dei contadini al di fuori dello stato di libertà.
La condizione di questi servi medievali presentava un gran numero di analogie
con quella dei servi dell’età romana, cioè degli
schiavi: restrizione della capacità di compiere atti giuridici
(ma disponibilità di un patrimonio personale: il “peculio”
degli schiavi, il conquestum dei servi della gleba: cfr.il doc.
n. 6, dove i due termini sono abbinati), impedimenti ai matrimoni. Di
più, essendo legato alla terra padronale, il servo della gleba
ne seguiva i trasferimenti: quando il proprietario alienava il fondo a
un’altra persona, il servo diveniva dipendente di quest’ultima; appariva
così che anch’egli, come lo schiavo, fosse un oggetto degli scambi
tra uomini liberi.
D’altra parte, fin dalla tarda età imperiale romana era venuta
lentamente mutando la condizione personale degli schiavi rustici.
Adibiti al lavoro dei campi, sempre meno spesso essi erano mantenuti dal
padrone: in genere ricevevano un fondo in coltivazione, al pari degli
altri contadini, traevano da questo il sostentamento per la propria famiglia
e versavano al padrone un canone. Le leggi degli imperatori romani avevano
concesso agli schiavi di poter disporre, entro certi limiti, dei beni
che si fossero procacciati con il proprio lavoro (il “peculio”);
la legislazione ecclesiastica riconosceva validità religiosa al
matrimonio degli schiavi.
Così, per effetto di un duplice processo storico, le condizioni
dei servi della gleba e quelle degli schiavi rustici vennero
a fondersi, e si formò un unico rapporto di dipendenza contadina.
Una prova di questa fusione è proprio il fatto che nelle lingue
volgari il termine “servo”, derivato dall’antico servus
= schiavo, sia stato adottato per designare la nuova categoria di dipendenti
contadini. Siccome d’altronde esistevano persone adibite al servizio domestico,
la cui condizione era identica a quella dei servi antichi, così
negli idiomi volgari si creò un termine tutto nuovo per designarle;
esse provenivano, grazie ai commerci e alle razzie, dai Balcani e dai
paesi dell’Oriente europeo, erano dunque in grandissima parte di lingua
e di nazionalità slava: da sclavi = Slavi derivarono appunto i
vocaboli volgari “schiavi”, “Sklaven” ecc. Ma
nel latino dei secoli XI-XIV, cioè nella lingua dotta dei giuristi
e dei notai, si continuava ad usare – come abbiamo già indicato
– il termine servi. Nella misura in cui esistevano interferenze
tra il latino dei giuristi e dei notai e la lingua volgare, si creavano
numerose possibilità di equivoco: “servo” si diceva
anche di schiavi domestici, servus equivale talvolta
nelle fonti a rustico e a villano, cioè a servo
della gleba.
La fusione degli schiavi rustici e dei servi della gleba in un’unica
forma di dipendenza contadina si era già compiuta agli inizi dell’età
comunale. Tra la metà del secolo XI e la metà del secolo
XII le fonti parlano piuttosto raramente delle condizioni dei contadini
e non lasciano cogliere alcuna distinzione importante tra i differenti
tipi di dipendenza; in seguito esse contengono riferimenti sempre più
numerosi e dettagliati alle condizioni dei contadini: compaiono allora
tutti quei termini (rustici, villani, coloni
ecc.) nei quali gli storici moderni identificano, come si è detto,
l’unica categoria dei “servi della gleba”. Ma tra la metà
del secolo XII e la metà del secolo XIV questa forma di dipendenza
contadina non era caratterizzata soltanto dal vincolo alla terra e dalle
conseguenti restrizioni di libertà (limiti alla capacità
di alienazione e di matrimonio). Essa comportava anche una serie complessa
di obblighi, che passiamo ad analizzare sulla base di alcuni tra i documenti
qui raccolti.
I villani Ferretto e Benivieni, che dipendevano rispettivamente
dai canonici della cattedrale senese e dagli abati della Badia fiorentina
(docc. nn. 1 e 2) versavano censi annuali in denaro o in natura e donativi
vari (“pesci, uccelli e lepri”: doc. n. 1; pollame, uova,
lino, olive, vino: doc. n. 2), ed eseguivano per i loro padroni una serie
di lavori: Ferretto tagliava legna e faceva pali, contribuiva alla fabbricazione
di “fornaci e calcinai”, portava la calce ai canonici e andava
a pescare dietro loro ordine; Benivieni faceva per gli abati “calcinaio
e calcina”, era adibito alla manutenzione di un mulino e compiva
lavori di muratura e servizi di guardia presso un castello della Badia.
Ambedue i villani versavano un’imposta diretta (dazio)
e fornivano albergarie. Benivieni era soggetto all’autorità giudiziaria
degli abati: “era di dominio pubblico nel paese – afferma un teste
– che Rinucciolo e il figlio Benivieni davano agli agenti dell’abate [...]
penalità, banni [...]”; quanto a Ferretto, sembra che i canonici
lo avessero violentemente spogliato di alcuni suoi beni per punirlo di
un’offesa recata ai loro agenti: dal contesto si comprende chiaramente
che l’azione dei canonici non era considerata un atto illegittimo di vendetta
privata, bensì l’espressione naturale di una loro autorità
giudiziaria.
Soggetti alla giurisdizione dei padroni e al loro potere di “banno”
erano anche i servi della gleba (rustici) del territorio di Vercelli,
che furono affrancati in massa dal Comune di Vercelli con la nota legge
del 10 luglio 1243 (doc. n. 4); dal testo della legge si apprende che
i padroni esigevano inoltre contributi vari (“maltollètte,
angarìe, parangarìe ed altre innumerevoli estorsioni”)
e riscuotevano il fodro. Nel territorio modenese un uomo stretto da vincoli
“di manenza e di servitù della gleba” (doc. n. 6) era
tenuto per consuetudine a “prestazioni di denari e di opere”,
al versamento di imposte (colte) e alla concessione di albergarie.
Una celebre legge bolognese (doc. n. 9) lamenta il fatto che tutti i contadini
dipendenti fossero “obbligati a fornire […] servizio militare
e cavalcate, oppure collette o altre contribuzioni, oppure donativi
di maiali, determinate albergarie, cera, capponi, focacce e altre prestazioni
di carattere speciale o generale”.
Si deve osservare che in queste fonti il vincolo alla gleba viene appena
menzionato, quando non è addirittura passato sotto silenzio. Non
si tratta di una particolarità dei documenti scelti da noi, bensì
di un fatto assolutamente generale nelle fonti italiane dell’età
dei Comuni. Non c’è dubbio che Ferretto, Benivieni e gli altri
villani di Toscana, i rustici di Vercelli, i manenti
e i coloni dell’Emilia fossero legati al fondo, cioè che
il padrone avesse il diritto di muovere contro di loro un’azione rivendicativa
nel caso avessero abbandonato il fondo per trasferirsi in città
o sopra un nuovo podere. Ma sia nelle carte private che negli atti processuali
o nei solenni documenti di affrancazione dei secoli XIII e XIV si insiste
soprattutto su quel complesso di obblighi e di prestazioni di i cui abbiamo
fornito esempi qui sopra: soggezione all’autorità giudiziaria e
al potere coercitivo del padrone, oneri di natura militare presso i castelli,
fodro e albergaria, imposte speciali, censi, donativi e “angarie”.
Si tratta, come il lettore avrà già constatato, dei medesimi
rapporti di dipendenza che caratterizzavano il regime signorile. Anche
le restrizioni alla capacità di alienare beni e di contrarre matrimonio,
che abbiamo messo qui in relazione con il vincolo alla gleba, presentano
una stretta analogia con il controllo sulle alienazioni e sui matrimoni
esercitato dai signori, e di cui abbiamo visto esempi nella Sezione precedente.
Le fonti comunali insistono a tal punto sugli obblighi di natura signorile
dei servi, che lo storico è portato senz’altro a identificare dipendenza
signorile e servitù della gleba. Per cogliere il senso profondo
di questa identificazione è necessario ricordare quale era stata
l’evoluzione del regime signorile nel medesimo periodo. Abbiamo veduto
nella Sezione precedente come, dalla metà del secolo XII, fosse
stato eroso il carattere pubblico e territoriale del dominio signorile
e come l’esercizio di questo dominio fosse sempre più contestato
da parte soprattutto di medi e piccoli proprietari fondiari. La potestà
del signore venne così a restringersi alle sole persone che risiedevano
e lavoravano su terra di sua proprietà. Mentre infatti nei confronti
dei medi e piccoli proprietari egli riusciva a mantenere la propria autorità
solo imponendo vincoli di tipo feudale o stipulando convenzioni, i servi
rimanevano integralmente soggetti alla sua autorità giudiziaria,
fiscale e patrimoniale. La soggezione personale ed ereditaria, che caratterizzava
il loro stato, era ormai la base principale su cui potesse fondarsi la
potestà signorile.
Ma anche questa base era vacillante. Il processo di contestazione dell’autorità
signorile, promosso dai liberi alloderi, coinvolse anche i servi della
gleba. Tra le due categorie non esisteva infatti una precisa linea di
demarcazione. Il fatto stesso che per un lungo periodo di tempo fossero
stati tutti soggetti all’autorità signorile aveva costituito un
elemento di fusione. Grazie al conquestum molti servi si erano
procurati fondi di loro proprietà e lavoravano su questi oltre
che sulle terre del signore. Un esempio molto tipico e interessante è
quello del villano Ferretto (doc. n. 1 ). Il padre di Ferretto
era stato “castaldo”, cioè amministratore laico, dei
canonici di Siena; fu certo grazie a questa attività che egli e
Ferretto si procurarono i mezzi per comperare “molti beni allodiali”:
a questo punto Ferretto cercò di sottrarsi al dominio dei canonici
e chiese alle autorità cittadine di “essere annoverato tra
gli alloderi”, cioè tra i liberi proprietari.
Inoltre, proprio perché il vincolo servile era ereditario, potevano
trovarsi nella condizione giuridica di servi i discendenti di famiglie
che, nel corso di generazioni, avevano accumulato notevoli ricchezze e
raggiunto una elevata posizione sociale: tale il caso di Jacopo di Buono
e di Bartolo di Giunta (il secondo era “giudice e notaio”!),
che il monastero di Passignano liberò nel 1279 “da ogni vincolo
[…] di colonia” (doc. n. 8). Quanto più il
valore delle terre e delle ricchezze personali del servo superava quello
del fondo a lui concesso dal signore, tanto più risultava inevitabile
una contestazione dei diritti signorili, analoga a quella mossa dai liberi
“alloderi” e di cui si è parlato nella Sezione precedente.
Si capisce dunque come i signori abbiano cercato di instaurare quei vincoli
feudali, dei quali abbiamo visto esempi nella Sezione precedente, anche
per mantenere il proprio dominio sui servi. In alcuni casi il servo veniva
affrancato, in cambio della completa rinunzia a ogni suo diritto sul fondo,
ma subito dopo il padrone glielo concedeva di nuovo a titolo feudale (doc.
n. 5). Spesso invece la qualifica di colono e quella di fedele si trovano
senz’altro giustapposte e indicano la stessa categoria di persone (cfr.
docc. nn. 9 e 10); il servo della gleba è designato talora come
“uomo” (homo) del signore (docc. nn. 1 e 2), cioè
con il termine che designava il vassallo feudale: come quest’ultimo, egli
poteva essere tenuto a prestare l’“omaggio” (homagium,
hominagium) (cfr. ancora il doc. n. 5, dove il villano appare
vincolato all’omaggio già prima dell’atto di affrancazione e della
concessione in feudo).
Il lettore comprende adesso perché abbiamo affermato che “servo
della glebaӏ un termine storiografico non completamente
felice. Esso sottolinea un solo aspetto del rapporto di dipendenza contadina
e, potendosi applicare indifferentemente ai coltivatori non liberi dell’Alto
Medioevo come a quelli dei secoli XII-XIV, non consente di cogliere le
caratteristiche specifiche di questo ceto nei diversi periodi. Si può
continuare senz’altro a parlare di “servi della gleba” per
l’epoca dei Comuni, purché sia ben chiaro che si trattava allora
di un ceto estremamente differenziato al suo interno, spesso caratterizzato
da un vincolo di tipo feudale e comunque sempre da forme di dipendenza
personale che non erano altro se non la manifestazione ordinaria della
dipendenza signorile. Solo tenendo presenti questi aspetti è possibile
comprendere il significato e la portata delle famose leggi, che alcuni
Comuni cittadini promulgano in materia di servitù della gleba.
Per lungo tempo le classi al potere nelle città non tennero un
atteggiamento netto e definito nelle controversie, che continuamente opponevano
i signori ai propri dipendenti. Abbiamo veduto nella Sezione precedente
(doc. n. 8) che nel 1185 i consoli di giustizia di Asti confermarono la
“potestà” e il districtus dei canonici della
cattedrale sopra i sudditi ribelli del territorio di Quarto, escludendo
solo quei poteri di natura fiscale e militare che erano rivendicati ormai
dal Comune cittadino. Negli stessi anni i consoli e i consiglieri di Siena
si trovarono a dover prendere una difficile decisione nella lite tra i
canonici della loro cattedrale e il villano Ferretto (doc. n.
1b): i diritti signorili dei canonici erano incontestabili, ma Ferretto
possedeva beni in piena proprietà (“allodi”) e le autorità
cittadine erano tenute “in virtù del loro giuramento al Comune
senese a difendere nei confronti di chiunque gli alloderi e i diritti
e le ragioni di questi”. Posti in imbarazzo, consoli e consiglieri
demandarono il giudizio a un’altra autorità, il giudice imperiale
Federico il quale diede torto al villano. Nella prima metà
del Duecento, gli Statuti di Treviso negavano l’estensione dell’autorità
signorile a tutti i residenti di un determinato territorio, ma riconoscevano
i diritti del signore sui propri rustici (Sez. I,. doc. n. 11
) e le più antiche rubriche degli Statuti di Vercelli sanzionavano
in pieno l’autorità giudiziaria dei signori nei confronti dei rustici
(qui oltre, doc. n. 3).
Già in quest’epoca, tuttavia, la subordinazione di gran parte della
popolazione rurale a signori ecclesiastici e laici appariva difficilmente
conciliabile con l’affermazione della sovranità cittadina. Anzitutto
era praticamente impossibile, una volta ammessa e tutelata l’autorità
di un signore sui suoi servi, evitare che venisse estesa a un numero sempre
maggiore di persone. Quando un servo sposava una donna estranea alla giurisdizione
del signore, questi poteva accampare dei diritti sulla persona e sui beni
di costei. Ecco perché i legislatori di Vercelli, pur ammettendo
che i rustici venissero sottratti alla giurisdizione cittadina,
vollero includere una clausola che salvaguardasse “tutti i diritti
dotali delle mogli dei rustici” (doc. n. 3, c. 231). Ma
il mezzo più ordinario con cui un signore poteva estendere il proprio
dominio era un altro: quando i rapporti di forza lo consentivano, egli
esercitava pressioni su piccoli proprietari e liberi coltivatori perché
questi si assoggettassero allo stato di servitù. Questo pericolo
spinse alcuni Comuni, come quello di Parma nel 1234, a vietare l’instaurazione
di nuovi rapporti di dipendenza: si riconosceva invece la legittimità
del vincolo alla gleba per chi si trovasse già in tale condizione
(doc. n. 7b).
Anche ammesso che si fosse riusciti a circoscrivere l’autorità
dei signori e a consentirne l’esercizio solo su chi era da lunga data
in condizione servile, sussisteva tuttavia un pericolo serio per la stabilità
interna delle città. Nel corso dei secoli XII e XIII vi furono
numerosi trasferimenti di residenti del contado entro le mura urbane (si
veda il caso di quel Benivieni, che dopo aver lavorato sulle terre della
Badia fiorentina era venuto a dimorare in una “propria casa”
in Firenze: doc. n. 2). Quest’emigrazione dalla campagna alla città
interessò sia i ceti rurali più agiati (proprietari fondiari
di una certa importanza, che nell’espansione del mercato cittadino, dell’artigianato,
dell’attività mercantile e usuraria trovavano nuove opportunità
di impiego del denaro) sia contadini poveri, che si staccavano dal proprio
nucleo familiare quando questo era troppo numeroso per poter vivere del
solo lavoro agricolo. Gli uni e gli altri erano soggetti in genere a un
signore e questi poteva aver consentito o tollerato il loro allontanamento
dalla terra perché si era potuto così impossessare dei loro
fondi o perché, interessato esclusivamente alla percezione di un
certo reddito, non si curava della consistenza numerica della famiglia
contadina.
Con l’accresciuta importanza dei vincoli di dipendenza personale e con
la progressiva erosione dell’autorità signorile – fenomeni che
raggiunsero la fase critica, come abbiamo detto, verso la fine del secolo
XII – questa tolleranza da parte dei signori dovette essere sempre meno
frequente. Così essi potevano spingersi a rivendicare i propri
diritti di signoria su famiglie residenti in città e che si erano
magari inurbate una o due generazioni prima. Per troncare questa possibilità
di continue contestazioni, questa ricorrente minaccia sui discendenti
di antichi coloni e su contadini che avessero acquisito lo stato
di cittadinanza, i legislatori comunali furono portati a stabilire delle
norme di prescrizione: dopo un certo periodo di tempo, a decorrere dal
momento in cui un uomo si era inurbato, egli non poteva più essere
rivendicato dal signore come suo colono.
Il termine di prescrizione più frequente fu quello di dieci anni,
adottato per esempio negli Statuti di Parma (doc. n. 7a). Al lettore non
deve sfuggire un aspetto essenziale di questa legge. Essa non aveva valore
per alcun membro della famiglia contadina, nel caso che il capofamiglia
fosse rimasto sul fondo; nel caso di fratelli che detenessero “in
comune” la terra padronale, non era tutelata l’emigrazione in città
di uno solo tra essi. I legislatori favorivano dunque il trasferimento
in città di interi nuclei familiari, non di persone singole: era
estranea alle autorità comunali la preoccupazione, che invece doveva
avere spinto tanti contadini in città, di migliorare la condizione
economica della famiglia contadina nel suo complesso grazie a un alleggerimento
della pressione demografica sul fondo e a una diversificazione delle attività
dei singoli membri.
Considerazioni analoghe devono essere fatte a proposito di una rubrica
dello Statuto di Vercelli (doc. n. 3, c. 246), che consentiva a chiunque
di poter “venire ad abitare nella città di Vercelli, nonostante
l’eventuale fodro o un pignoramento dei suoi beni eseguito o imposto dal
signore o la stipulazione di una promessa od obbligo di non abbandonare
la terra del signore”, purché l’inurbato abitasse in città
“con la famiglia per dieci anni di seguito”. Era dunque una
norma più favorevole rispetto a quella emanata a Parma: a Vercelli
infatti non si tutelavano i contadini solo dopo che fossero trascorsi
dieci anni, ma al contrario si assicurava sin dall’inizio la loro libertà.
Anche in questo caso, tuttavia, era contemplata l’emigrazione di una intera
“famiglia” e si diceva espressamente che della terra doveva
essere fatta “completa rinunzia al signore”.
Disposizioni simili a queste di Parma e di Vercelli si trovano in numerosi
Statuti cittadini del secolo XIII. Nella pratica esse favorivano l’inurbamento
di medi o piccoli proprietari non coltivatori o di contadini che avessero
rinunziato completamente alla terra; e non consentivano che singoli contadini
abbandonassero il podere su cui lavoravano ancora i propri familiari.
Nella legislazione comunale non c’era dunque alcuna intenzione di sottrarre
manodopera al lavoro delle terre signorili (sotto questo aspetto, anzi,
i diritti dei signori si trovavano ad essere tutelati), ma solo la volontà
di garantire – entro certi limiti e a determinate condizioni – lo stato
di libertà delle famiglie che lavoravano e abitavano stabilmente
entro le mura urbane.
Verso la metà del Duecento alcuni Comuni cittadini si spinsero
più oltre, e sanzionarono la piena libertà personale di
tutti i residenti nel contado. Anche qui non si espresse la volontà
di distruggere la base economica del potere signorile, bensì quella
di eliminare l’autorità giudiziaria, militare, fiscale, politica
insomma, che i signori ancora vantavano sui propri servi della gleba.
Se i signori si fossero limitati e a percepire canoni fondiari e ad imporre
la permanenza delle famiglie contadine sulla terra, i Comuni non sarebbero
certo intervenuti in forme così radicali. Ma il tratto caratteristico
della servitù della gleba, tra XII e XIII secolo, era appunto la
soggezione dei servi ai poteri signorili, cioè a poteri di natura
essenzialmente pubblica.
Per i compilatori dello Statuto vercellese del 1241, il riconoscimento
della potestà dei signori sui rustici aveva implicato
una diminuzione dell’autorità giudiziaria dei magistrati cittadini;
proprio dal primo capitolo dello Statuto risulta che il podestà,
al quale spettava il governo e la tutela su tutti “gli uomini del
districtus e della giurisdizione cittadina”, doveva ammettere
una gravissima deroga a questi suoi poteri: “giuro che non costringerò
i signori a rendere giustizia ai propri rustici per delitti che
abbiano commesso contro di loro” (doc. n. 3, cc. 1 e 231). Ben presto
una simile riduzione di autorità apparve intollerabile: nel 1243
questa norma fu abrogata insieme ad altre di analogo contenuto. Gli autori
della legge di abrogazione (doc. n. 4) sottolinearono come, dalla potestà
dei signori “sulle persone dei loro uomini”, si trovasse “ad
essere ridotta la giurisdizione cittadina”.
Un altro elemento importante venne addotto a motivazione della legge:
poiché i rustici erano soggetti a “fodri, banni,
maltollètte ecc.”, “essi venivano sempre di più
a trovarsi nell’impossibilità di accollarsi e di sostenere gli
oneri pubblici imposti dalla città e dal Comune di Vercelli”.
Per questo furono dichiarati “liberi e immuni […] nei confronti
dei rispettivi signori”, ai quali ultimi era fatto divieto di esercitare
giurisdizione, di vantare diritti di successione, di esigere tributi,
di imporre prestazioni d’opera a carattere angariale: tutti aspetti del
potere signorile che abbiamo analizzato nella Sezione precedente. Restavano
fermi i canoni dovuti ai signori “come corrispettivo dei fondi e
delle terre” concesse ai rustici; del vincolo alla gleba
non si faceva parola, perché la questione era stata già
definita nello Statuto del 1241 (doc. n. 3, c. 246) nel senso che abbiamo
veduto.
La motivazione essenzialmente politica di questa famosa “abolizione
della servitù della gleba” del 1243 è messa in risalto
anche dalla clausola in cui si negava il “beneficio” dell’affrancazione
“a coloro che in alcun tempo si rendano avversari e ribelli ai reggitori
e al Comune di Vercelli”; nonché dall’uso della legge stessa
come mezzo di pressione nei confronti di alcune comunità rurali,
che sarebbero state escluse “da ogni libertà, affrancazione
e immunità” se non si fossero presentate “agli ordini
del podestà o del reggitore del Comune di Vercelli”.
Anche le leggi fiorentine di affrancazione (cfr. doc. n. 10) furono determinate
dalla necessità di evitare una diminuzione di sovranità
politica nel territorio. La canonica della cattedrale di Firenze possedeva
nel Mugello un insieme assai consistente di terre e di coloni
e, nell’estate del 1289 si apprestava a farne atto di vendita agli Ubaldini,
una grande casata signorile che era stata a lungo in aperta ostilità
con il Comune di Firenze. Le autorità comunali cercarono di evitare
questa transazione; l’occasione fu offerta (o creata) da una petizione
di comunità rurali del Mugello, i cui delegati fecero presente
ai consiglieri di Firenze che la vendita dei beni canonicali agli Ubaldini
avrebbe comportato una seria detrazione “alle prerogative e alla
giurisdizione del Comune di Firenze”, e chiesero che il Comune si
portasse compratore al posto degli Ubaldini. I consiglieri decisero a
maggioranza di occuparsi della questione, che presentava qualche difficoltà
sul piano finanziario, dato che gli Ubaldini avevano offerto ai canonici
una cifra molto notevole; inoltre l’interesse del Comune all’acquisto
delle terre e degli uomini del Mugello avrebbe potuto indurre i canonici
ad alzare il prezzo o ad accelerare, per il timore di una qualche pressione
dei consiglieri di Firenze, la vendita agli Ubaldini.
Era questa seconda eventualità che le autorità comunali
dovevano innanzitutto scongiurare, e lo fecero con molta abilità.
Nei giorni immediatamente successivi alla petizione degli uomini del Mugello
fu elaborato un provvedimento, emanato in forma solenne e definitiva il
6 agosto del 1289, che si pretendeva ispirato a criteri generali di libertà
ma in realtà era concepito su misura per la questione in corso.
Esso vietava e dichiarava nulla ogni compravendita di fedeli e coloni
o di diritti sulle loro persone: sarebbero state consentite solo le vendite
fatte al Comune di Firenze; era anche ammessa la vendita dei diritti signorili
sopra un colono fatta al colono stesso, vale a dire l’affrancazione dietro
un compenso in denaro.
Con quest’ultima precisazione i legislatori volevano probabilmente aprire
la via a una soluzione molto vantaggiosa per loro: la canonica avrebbe
potuto vendere la libertà ai singoli coloni del Mugello,
ricavando da essi la somma che aveva pensato di ottenere dagli Ubaldini.
Sin dal primo momento, infatti, i consiglieri fiorentini avevano espresso
l’intenzione di far pagare ai coloni stessi il loro riscatto
dagli oneri servili. Ma sembra che una vendita in tante piccole rate non
convenisse agli ecclesiastici della cattedrale fiorentina; e forse essi
si appigliarono alle norme del diritto canonico che vietavano la vendita
dei servi e degli altri beni della chiesa e consentivano solo la permuta,
cioè lo scambio di beni con altri beni e non con denaro. Questo
significava anche che le autorità fiorentine, se avessero voluto
acquistare servi e terre del Mugello, avrebbero dovuto prima comprare
dei beni immobili da cedere alla canonica in permuta. Ci si orientò
infatti verso tale soluzione, che comportando tempi piuttosto lunghi diede
agio ai canonici di alzare il prezzo e al Comune di cercare la via per
far pagare ai coloni il costo della loro affrancazione.
Nel corso della faticosa trattativa i dirigenti del Comune emanarono una
nuova disposizione di contenuto generale: il 3 febbraio del 1290 stabilirono
che tutte le persone “non soggette alla giurisdizione del Comune
di Firenze”, le quali possedessero entro il contado fiorentino terre
e coloni, avrebbero dovuto cederle (con atto di vendita o di
permuta) al Comune stesso o comunque avrebbero dovuto liberare i propri
coloni. La deliberazione non faceva parola dei canonici, ma era
chiaramente intesa a fare pressione su di loro: erano essi che, in quanto
soggetti alla giurisdizione ecclesiastica, si sottraevano “alla
giurisdizione del Comune di Firenze”.
Le leggi fiorentine del 1289-1290 furono emanate dunque in una precisa
contingenza e sventarono un pericolo immediato e ben determinato. Ma se
ad esse venne data una formulazione generale, ciò non dipese dall’astuzia
o dall’ipocrisia dei legislatori: in realtà la minaccia che i diritti
signorili su coloni e fedeli rappresentavano per la sovranità
cittadina era un dato costante, e richiedeva un provvedimento che potesse
aver valore indipendentemente dalla questione del Mugello. A molti anni
di distanza,quando tale questione non era più che un ricordo, la
legge del 6 agosto 1289 venne ripresa quasi integralmente in uno Statuto
cittadino (doc. n. 10), e fu così sanzionato il suo valore generale.
I compilatori di questo Statuto, elaborato negli anni 1322-1325, prestarono
particolare attenzione agli enti ecclesiastici, estranei all’autorità
giudiziaria e fiscale del Comune; non fu ripreso il drastico provvedimento
del 3 febbraio 1290, che del resto era servito a suo tempo come semplice
strumento di pressione: ma fu sancito per ogni “persona, ente o
collettività non soggetta alla giurisdizione del Comune”
il divieto di acquistare diritti sulle persone; ai laici si concedeva
la facoltà di acquistare “da qualunque chiesa, ecclesiastico,
convento di religiosi”, insieme ai beni fondiari, i diritti sulle
persone, purché i compratori procedessero poi a liberarle “dal
vincolo di fedeltà”.
Nella motivazione della legge si esprime anche la preoccupazione che “gli
impotenti e i deboli non siano indebitamente oppressi dai magnati e dai
potenti”. Questa non è una semplice clausola retorica, ma
l’accenno a un’importante necessità interna delle città,
che ebbe altrettanto peso, nel movimento di affrancazione dei servi, della
necessità di espansione nel contado, e le cui radici vanno cercate
nella struttura del ceto dirigente cittadino nella seconda metà
del Duecento.
Dall’inizio del secolo erano venute acquistando un peso sempre maggiore,
accanto alle famiglie degli antichi proprietari fondiari, quelle dei mercanti;
dei banchieri e dei maggiori artigiani; la stessa organizzazione di un
apparato di governo, con una propria complessa struttura amministrativa
e fiscale, aveva offerto ai ceti “borghesi” l’opportunità
di grandi guadagni e di un’ascesa sociale. I capitali accumulati con la
mercatura e con il prestito a interesse erano investiti in gran parte
in proprietà fondiarie, gestite in forme nuove rispetto all’epoca
della signoria (ne riparleremo nella Sez. IV). Nel Comune “democratico”
della seconda metà del secolo XIII il potere era concentrato nelle
mani di una minoranza di persone; sia “nobili” che “borghesi”:
poche centinaia di famiglie governavano su parecchie migliaia di abitanti
della città e del contado. Ma questi regimi sostanzialmente oligarchici
erano perennemente insidiati dal loro stesso interno.
Unite nell’oppressione dei ceti sociali inferiori (contadini, piccoli
proprietari fondiari, artigiani minori residenti in città o nel
contado, operai salariati e i numerosi miserabili privi di lavoro), le
famiglie al potere erano infatti divise da divergenti interessi economici,
a seconda che fondassero il loro reddito prevalentemente sul possesso
fondiario o sulle attività commerciali e bancarie. Ma soprattutto
erano soggette a bruschi mutamenti nella reciproca posizione economica,
perché sia la produzione agricola che i profitti delle attività
bancarie e commerciali andavano soggetti a forti fluttuazioni. Nella previsione
di un proprio improvviso indebolimento o di una rapida ascesa altrui,
le famiglie tendevano a ricercare appoggi le une nelle altre, e a creare
in tal modo blocchi e fazioni che minavano ulteriormente la stabilità
del potere.
La vita politica dei Comuni cittadini nei secoli XIII e XIV fu interamente
dominata dalla necessità di trovare un equilibrio interno e quindi
di rimuovere quei fattori che potessero agevolare l’improvvisa ascesa
o l’improvviso declino delle famiglie e riunire un potere eccessivo nelle
mani di singoli gruppi familiari. Di qui il principio della breve durata
e della rotazione in tutte le cariche pubbliche, il frequente ricorso
a magistrati e ad arbitri forestieri, i divieti e le limitazioni delle
spese di carattere non produttivo, l’estrema cautela nella ripartizione
delle imposte e tanti altri aspetti delle legislazioni cittadine. Di qui
anche la necessità di limitare la potenza dei “nobili”,
dei “potenti” o “grandi” o ”magnati”,
cioè delle grandi famiglie, caratterizzate non tanto dall’entità
delle ricchezze o dall’estensione dei possessi fondiari quanto dal dominio
che esercitavano su una quantità di schiavi, di servi di masnada,
di servi della gleba e fedeli. Questa necessità fu all’origine
dei numerosi provvedimenti “antimagnatizi” emanati nei Comuni
dalla metà del Duecento in poi, e si rifletté anche nelle
leggi che disciplinavano o abolivano la servitù della gleba.
Nel contesto delle limitazioni allo strapotere delle grandi famiglie va
letto dunque il riferimento all’oppressione dei “magnati”
e dei “potenti” nella legge fiorentina del 1322-1325 (doc.
n. 10). Anche i famosi provvedimenti bolognesi di affrancazione (cfr.
doc. n. 9) devono essere inquadrati nella lotta antimagnatizia. Negli
anni 1256-1257 erano stati liberati tutti gli schiavi e i servi di masnada
esistenti nella città e nella diocesi di Bologna, in seguito a
una transazione fra Comune e proprietari e dietro indennizzo di questi
ultimi; il 3 giugno del 1257 si era proclamata solennemente l’abolizione
della schiavitù e della servitù di masnada, cioè
di quei rapporti di dipendenza personale che più di altri minacciavano
la stabilità del governo comunale, perché erano particolarmente
vincolanti e perché su di essi si fondava la forza armata delle
famiglie nobili e potenti.
Ma già in questo provvedimento le autorità comunali si mostravano
consapevoli del fatto che stretti legami di dipendenza sarebbero potuti
risorgere in altre forme, e in particolare sulla base dei rapporti di
servitù della gleba. Nel 1282 un ordinamento ostile ai nobili e
ai magnati del contado dichiarava nulli i contratti, stipulati recentemente,
che istituivano vincoli di tipo feudale: ma annullava anche, in una forma
più esplicita rispetto al provvedimento dei 1257, i contratti che
istituissero un rapporto di servitù della gleba. In realtà
questa “certa forma di schiavitù” (quasi species
servitutis) tendeva a riaffermarsi per contratto o a perpetuarsi
per consuetudine: nel 1304, denunciando l’operato di “nobili e potenti”,
il Consiglio del Popolo dovette abrogare in forma generale tutti i vincoli
di dipendenza colonica, signorile, feudale (doc. n. 9).
All’origine delle leggi cittadine, che disciplinarono o addirittura abolirono
la servitù della gleba, vi furono quindi gli interessi e le necessità
del ceto dirigente cittadino nel suo complesso: affermazione dell’autorità
militare, giudiziaria e fiscale nel contado, tutela dei cittadini originari
del contado, mantenimento dell’ordine e dell’equilibrio interno. Ma queste
leggi esercitarono un influsso importante anche sui rapporti economici
tra proprietari e contadini. Fino agli inizi del secolo XIII tali rapporti
avevano prevalentemente carattere ereditario e consuetudinario: di generazione
in generazione la famiglia contadina risiedeva e lavorava sul fondo padronale,
senza che venissero prese in considerazione né la possibilità
di un abbandono del fondo da parte della famiglia nel suo complesso né
quella di un allontanamento impostole dal padrone, e corrispondeva censi
e prestazioni che si mantenevano generalmente inalterati per lunghissimi
periodi di tempo.Venendo meno la servitù della gleba i contadini
acquisivano la piena disponibilità della propria persona e del
proprio lavoro, i signori acquisivano la piena disponibilità delle
proprie terre.
Che anche i signori potessero ritrarre un vantaggio dalle affrancazioni
è provato dal fatto che furono talora essi stessi a promuoverle.
A volte, quando i coloni erano particolarmente abbienti e la
loro condizione di servitù puramente formale, l’affrancazione non
faceva altro che sanare questa situazione abnorme, con un vantaggio reciproco
(doc. n. 8). Spesso l’affrancazione era un atto di vendita come un altro,
dato che il servo pagava un prezzo per ottenere la libertà (doc.
n. 5). Si deve anche pensare che molti signori, vedendo la propria autorità
contestata dai contadini più autonomi e minacciata dal Comune cittadino,
considerassero le affrancazioni come un male minore, cercassero cioè
di vendere diritti che altrimenti sarebbero stati loro sottratti. Il punto
centrale è comunque un altro: l’atto di affrancazione implicava
normalmente la rinunzia del colono a ogni diritto di godimento sul fondo
padronale (docc. nn. 5 e 6). Per questo aspetto la legislazione cittadina
e gli atti privati di affrancazione andavano nello stesso senso. Lo Statuto
di Vercelli, che tutelava la libertà dei contadini venuti “ad
abitare nella città di Vercelli”, prescriveva anche che essi
rinunziassero a ogni diritto sulla terra del padrone (doc. n. 3, c. 246).
I legislatori fiorentini e bolognesi non si preoccuparono di riconoscere
ai servi affrancati alcun diritto alla permanenza sul fondo. La determinazione
dei rapporti economici tra i proprietari e i loro ex servi veniva così
demandata alla libera contrattazione fra le parti.
Si comprende come la cessazione dei rapporti di servitù nelle campagne
avesse conseguenze diversissime a seconda della diversa posizione economica
e sociale degli ex servi e degli ex signori. Abbiamo detto che il ceto
dei servi era molto differenziato al suo interno, e che numerosi servi
si erano costituita una proprietà allodiale, a volte piuttosto
consistente: per questi lo scioglimento dei vincoli servili rappresentò
un netto miglioramento sociale. I più benestanti potevano risiedere
in città, senza il timore che il signore li rivendicasse come propri
servi, e far lavorare i loro allodi da affittuari o da mezzadri. Ma per
il contadino che non avesse proprietà, o disponesse di una proprietà
troppo piccola per la sussistenza della famiglia, la cessazione del vincolo
alla gleba non aveva necessariamente un significato positivo: per lui
era indispensabile poter lavorare sul fondo padronale, quindi la sua dipendenza
economica dall’ex signore si manteneva in pieno, anzi era aggravata dal
fatto che le leggi sancissero la piena disponibilità del fondo
da parte dell’ex signore.
Anche per i signori la fine dei rapporti servili apriva più di
una prospettiva. Acquisita la piena disponibilità della terra,
essi potevano cederla ai coltivatori in affitto o a mezzadria; agli antichi
rapporti ereditari e consuetudinari si sostituivano in tal modo dei contratti
a termine, rinnovabili e quindi modificabili alla scadenza, nei quali
gli obblighi del contadino potevano essere meglio specificati e adeguati
agli interessi padronali; se non era più possibile esigere prestazioni
di tipo signorile, la loro perdita poteva essere compensata con un aumento
dei canoni fondiari. Non tutti i signori avevano la capacità o
la possibilità di compiere una conversione così profonda
dei loro sistemi di sfruttamento. Molti non intendevano rinunziare a esercitare
un dominio sulle persone, a legare a sé i lavoratori con un vincolo
che non fosse di natura semplicemente economica. Così, dopo aver
concesso al servo la libertà, e dopo avere acquisito la disponibilità
del fondo, un signore poteva nuovamente concederlo all’ex servo a titolo
di feudo “retto ed onorifico” (così nel doc. n. 5;
anche il riferimento alle concessioni “a titolo di feudo gentile”,
contenuto nel doc. n. 3, c. 246, va letto in questo contesto).
Abbiamo già parlato di questi rapporti di fedeltà, tipici
dell’età dei Comuni; si è anche visto come le autorità
di Bologna e di Firenze avversassero la costituzione di quei vincoli feudali
che perpetuassero, sotto altra forma, i rapporti di dipendenza servile.
Quando ai signori era impedita ogni forma i restaurazione del proprio
dominio e quando essi erano incapaci di organizzare nuove forme di sfruttamento
economico, rimaneva loro la possibilità di vendere la terra per
realizzare un guadagno immediato. L’abolizione della servitù costituì
dunque un fattore importante nello sviluppo di un duplice processo economico,
che contrassegnò la storia delle campagne italiane nell’età
comunale: l’affermazione dei rapporti contrattuali e di nuove forme di
sfruttamento del lavoro contadino, da un lato, dall’altro una accresciuta
mobilità della terra e di conseguenza una più veloce circolazione
del denaro e una generale e continua redistribuzione della proprietà
fondiaria.
Nota bibliografica sulla servitù della gleba
Sul passaggio dalla schiavitù romana alla servitù medievale,
al quale non abbiamo potuto dedicare che un accenno brevissimo, e sulla
caratterizzazione dei rapporti servili nella società medievale
europea, si legga la bella sintesi di M. BLOCH, Come e perché
finì la schiavitù antica, trad. it. in Lavoro e
tecnica nel Medioevo, n. ed., Bari, Laterza, 1969, pp. 221-263 (la
prima edizione originale del saggio risale al 1947). Per l’Italia
la ricerca di lunga più importante è quella di P. VACCARI,
L’affrancazione dei servi della gleba nell’Emilia e nella
Toscana, Bologna; Zanichelli, 1926, dove sono citati e discussi tutti
gli studi di un certo respiro, che gli storici antecedenti avevano dedicato
al problema della servitù della gleba e alle diverse leggi comunali
di affrancazione. In seguito la bibliografia su questi problemi non si
è arricchita di contributi molto importanti. Il successivo libro
del VACCARI, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba,
Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 1939, è
utile come raccolta di fonti ma non aggiunge analisi nuove rispetto al
saggio del 1926, del quale riprende argomenti e discussioni in forma eccessivamente
sintetica. Sulle leggi bolognesi di affrancazione è interessante
l’articolo di L. SIMEONI, La liberazione dei servi a Bologna
nel 1256-57, in “Archivio storico italiano”, CIX (1951),
pp. 3-26. |