Logo di Reti Medievali

Didattica

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione III – La proprietà fondiaria nella prima età comunale

Introduzione

Fino a tutto il secolo XII le famiglie dell’aristocrazia militare e le maggiori chiese e abbazie dell’Italia centro-settentrionale concentrarono nelle loro mani vasti possedimenti fondiari. Esisteva contemporaneamente un numero grandissimo di proprietari piccoli e medi: alcuni di essi, oltre a coltivare il proprio fondo, lavoravano anche su terra altrui, altri riuscivano ad assicurarsi la sussistenza lavorando soltanto terreni di loro proprietà. Molti medi e piccoli proprietari non erano coltivatori, ma svolgevano attività di tipo artigianale, commerciale, usurario: per loro la proprietà terriera era esclusivamente una fonte di rendita e l’integrazione di altre forme di guadagno.

La proprietà fondiaria rappresentava quindi un elemento comune a situazioni sociali e patrimoniali tra le quali c’erano differenze enormi. Il fenomeno non può stupire se si tiene presente che l’acquisto di terra rappresentava la forma di gran lunga più comune e importante di investimento, e in modo particolare per chi disponesse di somme di denaro modeste. Per i minori artigiani residenti nelle città, nei castelli e nei villaggi, e soprattutto per i contadini che fossero riusciti ad accumulare un conquestum (cfr. Sez. II, doc. n. 6), magari esercitando attività di tipo amministrativo per conto di proprietari maggiori (cfr. Sez. II, doc. n. 1), l’acquisto di un campo o di un poderetto era in genere l’unica opportunità di impiego dei propri guadagni – o per lo meno l’unica che offrisse una certa sicurezza; solo nelle città più evolute in senso capitalistico, e non prima del secolo XIII, divenne possibile investire risparmi anche modesti in titoli del debito pubblico, che fruttavano un interesse determinato.

Nell’epoca in cui si venivano organizzando le prime forme di governo comunale cittadino, il tratto dominante della struttura fondiaria delle campagne era costituito comunque dalle grandissime proprietà degli aristocratici e degli enti ecclesiastici, delle quali ci offre un esempio la donazione di Beatrice e Matilde di Canossa al monastero mantovano di S. Andrea (doc. n. 3). Le contesse cedevano una intera curtis, estesa su una superficie di oltre 2360 ettari, che non rappresentava se non una parte dei loro possedimenti. Nel documento l’indicazione dei confini è estremamente approssimativa, e così quella delle misure: affermando che la curtis comprendeva 32 iugeri “tra vigne, terre arative, prati e gerbidi” e “tremila iugeri di terre boschive” (nel territorio mantovano 1 iugero = ettari 0,78 circa), si voleva forse indicare soltanto che tra i terreni coltivabili e quelli da dissodare esisteva un rapporto di uno a cento; quanto alle dimensioni complessive della curtis donata a S. Andrea, uno studioso moderno ritiene probabile che fossero molto superiori ai 2360 ettari.

La genericità delle indicazioni topografiche e quantitative è un dato costante nei documenti privati della prima età comunale anche quando essi definiscono entità fondiarie molto più limitate di quanto non fosse la curtis di Beatrice e Matilde. Nella donazione di Ranieri di Adamo al monastero umbro di S. Maria Val di Ponte (doc. n. 1) l’autore mostra di ignorare quali fossero le dimensioni del “manso che detiene Pietro Rucio”: egli deve promettere infatti di integrare la donazione con la cessione di altri terreni – indicati, anche questi, in maniera assai generica – nel caso che l’estensione del manso non raggiunga una determinata misura. In moltissime fonti manca poi qualunque accenno di tipo quantitativo (si vedano, per tutti, i due contratti riuniti sotto il n. 5).

L’estrema indeterminatezza e imprecisione dei contratti dei secoli XI e XII pone una gravissima limitazione alla nostra possibilità di conoscere la struttura fondiaria del tempo; ma rappresenta anche, di per sé, un fatto storico che suggerisce alcune considerazioni obbiettive di carattere generale. La persistenza di determinate strutture agrarie per lunghi periodi di tempo, la mobilità relativamente scarsa della terra e il carattere consuetudinario dei rapporti agrari contribuiscono infatti a spiegare il carattere vago e indeterminato delle formulazioni degli atti privati. Nei secoli XI-XII si hanno numerosi esempi di terre e di diritti fondiari posseduti per più generazioni da un medesimo gruppo familiare; la proprietà delle chiese era in linea di principio inalienabile e poteva dunque rimanere immutata anche a grande distanza di tempo; i contadini di determinati villaggi mantennero per decenni certi diritti consuetudinari al godimento di boschi e pascoli, mentre le loro proprietà individuali, in molti casi, potevano essere alienate solo a residenti dello stesso villaggio. A questi potenti fattori di stabilità del possesso terriero si aggiungeva il carattere ereditario e consuetudinario dell’insediamento e del lavoro contadino sulle terre padronali: per tornare su uno dei documenti citati sopra (n. 1), il “manso che detiene Pietro Rucio a Lupaccione” era stato detenuto probabilmente anche dal padre e dal nonno di costui, o doveva comunque costituire un insieme di terre organizzato da antico tempo come “manso”, cioè come unità di coltura di una famiglia contadina.

Per tutti questi motivi, le espressioni e le definizioni che a noi sembrano vaghe o confuse non lo erano probabilmente affatto per i contraenti di allora: la persistenza di una medesima struttura fondiaria attraverso più generazioni faceva infatti sì che determinate superfici agrarie fossero perfettamente identificabili in base a indicazioni topografiche sommarie o al nome del contadino residente; quanto alla definizione delle misure, essa non costituiva, il più delle volte, che un elemento accessorio.

Nel caso di possedimenti amplissimi come la curtis di Beatrice e Matilde entrano in gioco anche altre considerazioni. A parte il fatto che l’estensione e la natura dei beni (essenzialmente, si è visto, una grande distesa di boschi) mai avrebbero consentito definizioni rigorose di confini e di misure, si deve tenere presente che le cessioni di intere curtes (molto frequenti sino ai primi decenni del secolo XII) non costituivano, in effetti, veri e propri trasferimenti di “proprietà fondiaria” nel senso moderno del termine. Come abbiamo spiegato nella prima Sezione, la curtis dei secoli XI e XII non era una grande azienda agraria o un determinato insieme di appezzamenti, di boschi, di poderi contadini, insomma di superfici agricole o incolte; era invece una circoscrizione territoriale, sopra la quale si esercitava il dominio di uno o più signori. La cessione di una curtis a famiglie aristocratiche o – come è documentato più spesso – a enti ecclesiastici comportava appunto la cessione del dominio signorile, della generale potestà sulle cose e soprattutto sulle persone del territorio curtense.

Più in generale, possiamo affermare che i maggiori possedimenti fondiari della prima età comunale rappresentavano in primo luogo, per le grandi famiglie e per gli enti ecclesiastici, la base per l’esercizio di poteri pubblici (nelle forme che abbiamo descritto nella Sez. I), e che non erano tanto una fonte di rendita e di intenso sfruttamento economico quanto uno strumento di potenza politica, utilizzato per stringere vincoli di subordinazione o di alleanza. Ciò spiega tra l’altro come il dominio dei laici su intere curtes e villaggi (ville) andasse disperso, da un lato, attraverso una serie di concessioni feudali, dall’altro attraverso innumerevoli atti di donazione alle chiese: con queste ultime le famiglie nobili avevano infatti legami sia di natura personale (vescovi, canonici, abati e monaci provenivano normalmente dall’aristocrazia fondiaria della regione in cui sorgevano le loro chiese e i loro monasteri) che di natura istituzionale (fondate molte volte da grandi proprietari laici, chiese, cappelle e abbazie rimanevano a lungo sotto il patronato di questi e dei loro discendenti).

La donazione di terra alle chiese (docc. nn. 1 e 3) era poi la tipica “opera pia” dei secoli XI e XII, l’atto dal quale i laici si ripromettevano il “rimedio dell’anima” e manifestazioni tangibili della riconoscenza divina anche “in questo secolo”: la malattia e l’imminenza della morte, la partenza per un pellegrinaggio, per la crociata o per qualunque altro tipo di spedizione armata erano altrettante occasioni perché le famiglie distraessero una parte delle proprie terre e dei propri uomini e li cedessero gratuitamente alle chiese.

Per i piccoli proprietari la rinunzia alla terra in favore di un ente ecclesiastico poteva essere determinata, oltre che dalle motivazioni religiose, da incentivi di altro tipo. Spesso, dopo aver donato il proprio fondo, essi ne ricevevano nuovamente il godimento (cfr. doc. n. 4), con quelle forme di concessione che analizzeremo tra breve; il vantaggio di privarsi della proprietà per ridursi nella condizione di concessionari consisteva, talora, nella possibilità di ottenere in godimento altra terra oltre a quella donata alla chiesa, più spesso nel semplice fatto di venire inseriti in un complesso aziendale più vasto ed efficiente, quindi meno vulnerabile in caso di avversità economiche, e di vedersi garantita una protezione della chiesa nei confronti dei maggiori proprietari laici e dei loro agenti. Anche se sono molto meno documentati, rapporti di tale natura si instaurarono anche tra piccoli proprietari e signori laici, nell’epoca in cui questi ultimi erano gli unici detentori di una forza armata e i titolari, di diritto o di fatto, di poteri pubblici nelle campagne.

La terra era dunque uno strumento di potere, un mezzo per procurarsi la salvezza eterna, un pegno di protezione e di alleanza, una forma corrente di remunerazione per fedeltà e servigi. Proprio per l’estrema diffusione del possesso fondiario e per il fatto che la terra era assolutamente predominante tra le fonti di ricchezza, gli uomini attingevano ad essa per tutta una serie di usi e di necessità di ordine non strettamente economico.

Ma queste stesse ragioni, unite alla mancanza di un sistema di credito ordinato e sicuro, rendevano inevitabile il ricorso alla terra – cioè la sua liquidazione – per ogni persona che si trovasse ad avere un bisogno immediato di denaro. Quando le famiglie dell’aristocrazia militare dei secoli XI e XII versavano in una necessità simile, esse non ricorrevano, disinteressate com’erano alla gestione economica dei propri beni, a una intensificazione e razionalizzazione dello sfruttamento del lavoro contadino, ma semplicemente impegnavano o ponevano in vendita un pezzo del patrimonio terriero. Medi e piccoli proprietari, per difficoltà di accesso al mercato dei prodotti agricoli o per le dimensioni eccessivamente ridotte dei propri fondi, potevano trovarsi nell’impossibilità di crearsi un risparmio o comunque di far fronte a una necessità improvvisa di moneta: in tali circostanze anch’essi dovevano quindi procedere a una liquidazione totale o parziale della terra.

Tale liquidazione assumeva spesso una forma caratteristica di pegno. Il proprietario stipulava un atto di vendita per una somma determinata, che gli veniva versata immediatamente; ma si riservava il diritto di riacquistare la proprietà della terra nel caso che avesse restituito quella somma, eventualmente maggiorata di interessi, al compratore-creditore (doc. n. 5a). La presenza o meno di un intermediario, l’indicazione o meno di un termine per la restituzione del denaro, le differenti forme in cui gli interessi venivano determinati, davano luogo a una serie di varianti in questo tipo di contratti; e non mancano esempi di prestiti su pegno (doc. n. 5b) che si manifestano in una forma più semplice che non la compravendita con clausola di riscatto. Due sono comunque i punti sostanziali da afferrare. Se il creditore non veniva soddisfatto, egli diveniva proprietario del bene impegnato, indipendentemente dal valore di quest’ultimo (che verisimilmente era più elevato rispetto alla somma concessa in prestito); inoltre, sino alla restituzione del debito, il creditore usufruiva in tutto o in parte della terra che aveva in pegno, riscuoteva cioè i canoni o raccoglieva i prodotti in luogo del debitore: il prestito su pegno fondiario implicava dunque sempre, per la sua stessa natura, una percezione di interessi da parte del creditore, anche quando nel contratto non fosse indicato esplicitamente un saggio di interesse in termini monetari.

Nel diritto romano dell’età imperiale era stata vietata l’appropriazione diretta e definitiva del pegno da parte del creditore ed erano stati imposti limiti rigorosi al godimento dei frutti del bene tenuto in pegno, poiché sia l’una che l’altra pratica offrivano ai creditori la possibilità di lucri che erano ritenuti eccessivi. Ma nel corso del Medioevo il prestito su pegno fondiario, nella forma qui descritta, si riaffermò e rappresentò anzi per lungo tempo il tipo più diffuso di rapporto creditizio.

In questa attività si impegnarono in particolar modo preti, chiese e monasteri dell’Italia centro-settentrionale. Nel diritto canonico era stato sancito da lunga data il divieto del prestito a interesse, ma la speciale forma di prestito che abbiamo descritto consentiva di mascherare il carattere usurario dell’operazione: essa si configurava infatti come una normale compravendita, munita di una semplice clausola aggiuntiva; la percezione degli interessi era implicita, e quindi dissimulata, nel godimento dei frutti del bene impegnato; era infine possibile far figurare nella compravendita un prezzo fittizio, più elevato di quello realmente versato dal compratore-creditore. Oltre a essere aggirato ed eluso con questi procedimenti, il divieto canonico del prestito a interesse era spesso semplicemente ignorato, e violato senza preoccupazioni né conseguenze: esso non costituì mai, in realtà, un ostacolo effettivo all’esercizio del credito, nemmeno per sacerdoti ed enti ecclesiastici.

Chiese e monasteri acquisirono dunque vasti possedimenti non solo grazie alle donazioni e alle concessioni di cui abbiamo parlato sopra, ma anche mettendo a profitto la loro forte disponibilità di denaro liquido. L’esazione delle decime e la riscossione regolare di canoni e censi facevano affluire nel loro “tesoro” e nelle loro “caneve” (magazzini) una quantità di moneta e di derrate generalmente assai superiore alle necessità di spese correnti delle comunità ecclesiastiche. Nei secoli dell’Alto Medioevo si erano inoltre accumulati presso le chiese ingenti depositi di oggetti preziosi, che nel corso dei secoli XI e XII furono in gran parte immessi in circolazione, come mezzi di pagamento destinati all’espansione del patrimonio fondiario (per l’uso dei preziosi come mezzo di pagamento cfr. doc. n. 6a).

Tale espansione rappresentò talora un parziale recupero di quello che era stato l’immenso patrimonio delle chiese nell’età carolingia e ottoniana. In quel tempo (inizio del secolo IX-fine del secolo X) le gerarchie ecclesiastiche, in particolar modo i vescovi, erano investiti di una serie di pubblici poteri e costituivano un elemento essenziale della struttura politica e amministrativa del regno d’Italia. Allora più che mai i possedimenti ecclesiastici erano stati strumenti di dominio e di governo: il che vuol dire, in concreto, che erano l’oggetto di frequentissime concessioni a funzionari laici, a famiglie potenti, a esponenti minori dell’aristocrazia militare, a persone di mediocre livello sociale che si ponevano sotto la protezione delle chiese e offrivano a loro volta il proprio appoggio per ogni evenienza politica e militare. Le concessioni di beni ecclesiastici a questa vasta “clientela” di laici assumevano la forma del beneficio feudale e delle varie forme di cessione a lungo termine che descriveremo più avanti; in linea di principio il diritto di proprietà rimaneva alle chiese, di fatto il divieto canonico di alienazione dei beni ecclesiastici era eluso, perché i concessionari laici finivano col disporre a proprio piacimento delle terre e spesso le concedevano a loro volta, o addrittura le vendevano, a terze persone.

Nell’età della riforma della Chiesa, tra la metà del secolo XI e gli inizi del XII, vi fu negli ambienti ecclesiastici un movimento di reazione contro questo processo dispersivo: una parte dei “tesori”, cioè delle ricchezze in denaro e oggetti preziosi, accumulati presso le chiese cattedrali, fu destinata al recupero dei beni fondiari perduti, mentre il divieto di alienazione dei beni ecclesiastici veniva ribadito e fatto osservare con maggior rigore che nel passato; una parte sostanziale dei possedimenti vescovili venne affidata in autonoma gestione al clero della chiesa cattedrale, costituito in una organizzazione di tipo comunitario, la canonica, che fu uno degli strumenti principali della riforma ecclesiastica, della rinnovata vitalità economica e dell’incremento patrimoniale delle chiese cattedrali nei secoli XI e XII. Fiorì inoltre tutta una serie di abbazie e di congregazioni monastiche che avviarono un processo lento ma metodico di acquisizione di terreni, spesso beneficiando di alcuni fenomeni di disgregazione dei maggiori patrimoni laici e incamerando castelli e territori già appartenenti a famiglie dell’aristocrazia militare.

Anche i beni ecclesiastici rappresentarono comunque, sino a tutto il secolo XII, uno strumento di potere e di governo sugli uomini piuttosto che una “proprietà fondiaria” destinata esclusivamente allo sfruttamento economico. All’interno delle gerarchie si verificarono spesso situazioni di grande tensione, nelle quali i vescovi potevano essere indotti a disporre dei beni della cattedrale per acquistare i necessari appoggi politici: tale il caso del vescovo scismatico di Cremona, che secondo i suoi accusatori avrebbe svenduto boschi, derrate e strumenti agricoli e avrebbe fatto ampio ricorso a concessioni feudali “per conquistare stabilmente, con la forza, il seggio vescovile che aveva usurpato” (doc. n. 9). Dilapidazioni dell’entità di quelle attribuite al vescovo cremonese costituivano, certo, un fenomeno eccezionale dovuto a particolari circostanze. Le concessioni di benefici feudali da parte di vescovi, canonici e abati costituivano invece una prassi corrente. Il rapporto che veniva così istituito tra le chiese e i loro beneficiari era assai diverso a seconda della posizione sociale di questi ultimi, che potevano essere contadini, piccoli proprietari, artigiani oppure persone di condizione assai elevata (cfr. i due atti tradotti qui sotto il n. 10): ma in ogni caso le relazioni di subordinazione, di “clientela” o di alleanza che gli ecclesiastici riuscivano ad instaurare grazie a simili concessioni comportavano la rinunzia ad esercitare un controllo economico diretto sulla terra e sulla produzione agricola.

Questa scissione tra la proprietà giuridica, nominale del territorio rurale e la gestione effettiva delle varie unità economiche che lo componevano fu comune a tutte le grandi aziende, ecclesiastiche e laiche, dei secoli XI e XII. Ad accentuare il fenomeno contribuì il processo di dissoluzione del cosiddetto “sistema curtense”, cioè di quella che era stata la tipica organizzazione economica e amministrativa della grande proprietà nelle epoche carolingia e ottoniana. Una gran parte delle terre lavorative si trovava allora suddivisa in tanti poderi detti “mansi”, ciascuno dei quali era concesso (generalmente a lungo o a lunghissimo termine) a una famiglia contadina di condizione libera o servile: come corrispettivo della concessione, i coltivatori erano tenuti a versare una quota della produzione annuale (differenziata a seconda del prodotto: metà del vino, un terzo dei grani ecc.) oppure una quantità annuale fissa di derrate o ancora dei canoni in denaro; ma soprattutto erano tenuti a dedicare un numero consistente di giornate lavorative (spesso due o tre giornate per settimana) alla coltivazione della “parte dominicale” o “dominico” (pars dominica, dominicum, domnicatum), cioè di quelle terre che i proprietari non avevano frazionato e ceduto al pari dei “mansi”, ma mantenevano sotto la loro diretta gestione economica. Alla lavorazione del dominico partecipavano anche degli schiavi, i quali non avevano in concessione alcuna terra ma ricevevano direttamente dal padrone vitto, vestito e alloggio. Dalla produzione del dominico, consegnata integralmente ai proprietari, questi ultimi prelevavano infatti quanto era necessario ad assicurare la sussistenza annuale degli schiavi; ai contadini dei mansi, che venivano a lavorare sul dominico, era assicurato in genere il pasto della giornata.

Nei documenti dei secoli XI e XII ricorrono molto spesso i termini “manso” (cfr. ad es. doc. n. 2 e Sez. I, docc. nn. 5, 7, 9) e “dominico” (cfr. ad es. doc. n. 5b e Sez. I, docc. nn. 1 e 2), a designare rispettivamente il podere su cui lavorava una famiglia contadina e le terre gestite direttamente dal proprietario. Ma le terre dominicali appaiono adesso frazionate e disperse, e sono comunque in netta minoranza rispetto ai mansi e ad altre terre date in concessione ai coltivatori oppure a imprenditori intermedi. Una classe di schiavi rustici non esisteva più (cfr. Sez. II, Introd.); proprio la difficoltà di provvedere direttamente al loro mantenimento era stata una delle ragioni determinanti che avevano indotto i grandi proprietari a restringere sempre di più la parte dominica della curtis e a creare nuovi mansi: su questi erano stati insediati gli schiavi (destinati a fondersi con gli altri contadini dipendenti nell’unica categoria dei servi della gleba), perché provvedessero essi medesimi alla propria sussistenza e versassero ai proprietari un canone.

Con lo sviluppo di questa gestione economica indiretta e con la drastica riduzione del dominico, venne scomparendo il sistema di prestazioni d’opera che aveva costituito l’elemento centrale dell’ordinamento curtense. Nella prima età comunale i detentori di mansi non dedicavano una parte importante del proprio lavoro alla messa a coltura della terra dominicale, che non rappresentava più una parte considerevole e relativamente compatta dei grandi possedimenti: quando anche erano contemplate nelle concessioni fondiarie, le prestazioni d’opera si riducevano a poche giornate annuali di lavoro o ad un numero determinato e ridotto di servizi di trasporto (cfr. docc. nn. 2, 4, 6). Le menzioni di “dominico” nei documenti non attestano dunque che una sopravvivenza, destinata a sparire lentamente, dell’antico “sistema curtense”. Nel corso dei secoli XI-XII, poi, sotto l’impulso di un forte incremento demografico, dell’accresciuta mobilità della terra e quindi di un accentuarsi del fenomeno del frazionamento agrario, venne progressivamente intaccata anche la compattezza dei mansi e il termine stesso decadde o mutò di significato. Si sfaldarono così tutti gli elementi costitutivi della curtis, che era intesa ormai come entità circoscrizionale e non più come la forma tipica di organizzazione economica della grande proprietà.

Il “sistema curtense” aveva assicurato a suo tempo una certa coesione a patrimoni anche estesissimi e dispersi; le grandi dinastie laiche e le potenti abbazie dei secoli IX e X disponevano spesso di boschi e di terre distanti tra loro decine e decine di chilometri: il raggruppamento di questi beni in tante curtes, ciascuna delle quali aveva una sua struttura organizzativa articolata e autonoma, garantiva l’indispensabile decentramento dell’amministrazione economica. Tale era stata ad esempio la situazione della celebre abbazia di Bobbio, che ancora nel secolo XI possedeva fondi lontani oltre cento chilometri dalla sede abbaziale (doc. n. 8). In quest’epoca, tuttavia, il caso era ormai eccezionale: le numerosissime fondazioni monastiche del secolo XI e le abbazie di più antica origine che – al contrario di Bobbio – procedettero nell’età comunale ad una riorganizzazione del loro patrimonio, costituirono attorno a sé dei complessi fondiari meno estesi e articolati di una volta, ma più compatti.

Dopo avere ottenuto una cospicua dotazione iniziale da vescovi o da famiglie nobili, chiese e monasteri si sforzavano infatti di consolidare e di intensificare la proprietà in luoghi circoscritti e non tanto distanziati, attraverso un processo lentissimo ma continuo di arrotondamento fondiario, che talora lo studioso coglie esaminando le indicazioni di confine negli atti privati (cfr. docc. nn. 1 e 5b). Gli enti ecclesiastici che per questa via riuscirono a comporre consistenti nuclei di proprietà fondiaria procedettero quindi, verso la metà del secolo XII, a forme nuove di decentramento, che non avevano nulla a che vedere con la rete di curtes dell’età carolingia e ottoniana. Adesso i vari monasteri affidavano la gestione dei vari nuclei di proprietà a una serie di chiese minori, di canoniche rurali e di piccoli ospedali, dipendenti dalla sede centrale; i monaci cistercensi istituirono e diffusero il sistema delle “grange”, unità autonome di organizzazione e di direzione del lavoro contadino e di raccolta della produzione locale.

Il processo verso una restrizione geografica, una maggiore compattezza dei patrimoni e nuove forme di decentramento si riscontra anche nelle famiglie dell’aristocrazia militare. Nel loro caso, tuttavia, si trattò puramente e semplicemente del frazionamento progressivo di vasti territori che, appartenuti a grandi famiglie dei secoli X e XI, si erano via via suddivisi – generalmente in parti eguali – tra i diversi componenti di ogni generazione; si formavano così tanti nuclei familiari separati, proprietario ciascuno di una porzione dei castelli e delle terre degli antenati: la maggiore coesione dei beni corrispondeva perciò a un ridimensionamento drastico, e piuttosto che di decentramento si deve parlare di spartizione definitiva delle maggiori eredità fondiarie.

Le grandi proprietà dell’aristocrazia militare e degli enti ecclesiastici furono investite dunque, nei secoli XI e XII, da un processo storico duplice e, sotto un certo punto di vista, contraddittorio. Da un lato si verificò un progressivo ridimensionamento dei patrimoni, che avrebbe potuto condurre a una maggiore coesione interna. D’altro canto, con lo sfaldamento della “parte dominica” e con il venir meno della schiavitù rustica e del sistema di prestazioni d’opera, si andò perdendo completamente ogni forma di gestione economica diretta da parte dei proprietari. Essi affidavano la grande maggioranza dei fondi a servi della gleba oppure a coltivatori liberi, in ogni caso per lunghissimo termine e su di una base essenzialmente consuetudinaria.

Era infatti assai raro che in quest’epoca venissero stipulati contratti fondiari a breve o a medio termine. Più in generale, si può affermare che solo in una minoranza di casi i rapporti tra proprietari e lavoratori erano regolati da contratto e quindi redatti per iscritto. D’altra parte l’esame dei contratti dei secoli XI e XII giunti sino a noi conferma, anzi accentua l’immagine di un fortissimo distacco, verificatosi all’interno dei maggiori possedimenti, tra la proprietà giuridica e l’effettiva gestione economica della terra. Alludiamo alle concessioni feudali (cfr. doc. n. 10), delle quali abbiamo dato un cenno qui sopra, e soprattutto alle varie forme assunte in età comunale dai contratti di enfiteusi o di tipo enfiteutico (docc. nn. 2, 4, 6; Sez. IV, n. 13).

L’enfiteusi era un istituto giuridico formatosi in età antica, dietro l’impulso di tre circostanze economiche che avrebbero poi caratterizzato anche l’Alto Medioevo: l’arretratezza degli strumenti di lavoro agricolo, la concentrazione di importanti estensioni di terra, parzialmente incolta o poco produttiva, nelle mani di singoli proprietari e infine la scarsa propensione di costoro a investire grandi capitali in opere di dissodamento, messa a coltura e miglioramento delle terre. In tali condizioni riusciva opportuno affidare alcuni terreni a impresari agricoli o direttamente ai coltivatori, per un periodo di tempo molto lungo (alcuni decenni, l’intera vita del concessionario, due o tre generazioni) e in cambio di un canone annuale modesto o addirittura simbolico.

La contropartita economica di concessioni del genere non consisteva in effetti nel canone, bensì nel lavoro di miglioramento agricolo (“enfiteusi” deriva da un verbo greco che significa appunto “fare piantagioni”, “mettere a coltura”) . Il canone aveva una funzione essenzialmente “ricognitiva”, era cioè richiesto dal concedente perché venisse periodicamente ribadito il suo diritto di proprietà: trattandosi di una concessione di lunga durata, c’era infatti la possibilità che il concessionario, trascorso un certo periodo di tempo, rivendicasse il possesso definitivo della terra per prescrizione. Nel diritto giustinianeo si era stabilito che chi avesse posseduto beni immobili per trenta anni, senza contestazioni, non potesse più esserne privato; perciò in molte concessioni enfiteutiche medievali i proprietari; oltre a stipulare il versamento del canone, fissavano in ventinove anni la durata del rapporto, che poteva essere poi rinnovato per altri ventinove anni e così di seguito (cfr. doc. n. 2).

Ma la lunga durata dell’enfiteusi rendeva necessaria qualche forma di garanzia anche per il concessionario: vincolarsi a un’impresa di miglioramento agricolo senza alcuna prospettiva di poterne recedere se non dopo ventinove anni o più sarebbe apparso infatti a chiunque, nonostante la lieve entità del canone, un rischio intollerabile. Si stabiliva pertanto che il concessionario (“enfiteuta”) potesse in qualsiasi momento vendere la terra ad altre persone, purché queste subentrassero al suo posto e adempissero, nei confronti del proprietario, a tutti gli obblighi (versamento del canone, impegno alle opere di miglioramento ed eventuali obblighi accessori) ai quali era tenuto il loro predecessore. Questa ampia disponibilità del fondo padronale da parte del concessionario costituiva la caratteristica tipica del rapporto di enfiteusi e la sua sostanziale diversità rispetto a ogni altra forma di concessione fondiaria.

I grandi proprietari, soprattutto ecclesiastici, fecero nel Medioevo un uso larghissimo delle concessioni di tipo enfiteutico. Diciamo “di tipo enfiteutico” perché a seconda delle diverse regioni, dei diversi periodi e di determinate consuetudini notarili compaiono differenze anche importanti tra un contratto e l’altro; il termine stesso di enfiteusi non era diffuso dovunque: talora concessioni del tipo che abbiamo descritto erano assimilate al beneficio, cioè alla concessione feudale, o si parlava semplicemente di “investitura”, mentre in Lombardia, nel Veneto, in Toscana e in altre zone si affermò una forma di contratto, detto di “livello”, che aveva le stesse caratteristiche sostanziali dell’enfiteusi.

Non sempre il canone stabilito in questi contratti era puramente simbolico: a volte il concessionario doveva versare una consistente quota di prodotti (cfr. doc. n. 2), a volte era istituita una correlazione precisa tra eventuali opere di miglioramento agricolo ed eventuali riduzioni, o temporanee remissioni, del canone (doc. n. 6b; e cfr. anche Sez. I, n. 9, e Sez. IV, n. 13). Spesso i concessionari non erano agricoltori, ma persone che cedevano la terra in coltivazione a terzi: questi concessionari intermedi lucravano la differenza tra il canone dovuto loro dai contadini e quello, assai minore, che andava versato al proprietario. Numerosi ecclesiastici cedettero terre in livello, dietro versamento di un tenue canone, a famiglie aristocratiche con le quali sembrava opportuno stringere relazioni, o semplicemente ai propri familiari o ai propri fedeli. Chiese e abbazie ricorrevano infine alle concessioni enfiteutiche per fare fronte alle loro necessità di denaro liquido senza dover ricorrere all’alienazione definitiva, che era proibita dal diritto canonico; in tal caso esse offrivano le terre in concessione enfiteutica a condizioni vantaggiosissime, stabilendo cioè un canone assolutamente simbolico: l’enfiteuta otteneva la concessione in cambio del versamento di una somma, come in una normale compravendita.

Si vede come in molti casi le concessioni di terra a lunghissimo termine non riguardassero superfici da dissodare, o comunque non avessero più la loro contropartita essenziale nel lavoro di miglioramento agricolo. La contropartita poteva invece consistere o nel pagamento di un prezzo una tantum o nell’istituzione di un vincolo personale di alleanza, di “amicizia” feudale, di subordinazione personale, oppure nella riscossione di canoni fondiari di una certa consistenza.

Solo quest’ultimo caso lasciava al concedente la possibilità di esercitare un controllo periodico e di recuperare prima o poi il possesso effettivo della terra ceduta. Nell’atto di donazione al monastero di S. Andrea (doc. n. 3) le contesse Beatrice e Matilde sancirono il divieto di “vendere, donare o cedere in permuta” i beni donati e di “alienarli a titolo di enfiteusi o di livello o di beneficio o in altro modo”, e ammisero soltanto la facoltà di assegnarli “in livello […] dietro versamento di un canone”. Ma non bastava la riscossione del canone per assicurare al proprietario il mantenimento a lungo termine dei propri diritti: occorreva anche che i concessionari fossero persone di condizione economica e sociale inferiore alla sua. Questa esigenza viene esplicitata nel documento di Beatrice e Matilde (l’eventuale livello avrebbe dovuto essere concesso “a persone di condizione inferiore”) e in molti contratti di tipo enfiteutico dell’età comunale: così nel documento del monastero di S. Cipriano di Murano (n. 6b) si vuole evitare che i livellari vendano le terre “a persone più potenti”, e leggeremo in un contratto dei primi del Trecento (Sez. IV, doc. n. 13) il divieto, imposto ai destinatari di una “locazione e conduzione” di tipo enfiteutico, di cedere la terra “a milites, a enti ecclesiastici, a schiavi o domestici” (questi ultimi avrebbero agito necessariamente per conto dei loro padroni). La facoltà di alienare il fondo a terzi, riconosciuta al concessionario, restava infatti ancora il punto qualificante dei rapporti di questo tipo (cfr. doc. n. 8) e i proprietari concedenti dovevano salvaguardarsi dalla possibilità che le terre finissero nelle mani di aristocratici, di chiese e di facoltosi gruppi familiari, nei confronti dei quali avrebbero potuto difficilmente esercitare una qualunque forma di controllo.

Si deve tuttavia avere ben presente che i destinatari di queste concessioni a lungo termine godevano di un’ampia disponibilità della terra anche quando erano contadini o comunque persone di modesta condizione sociale. Il diritto individuale ed esclusivo del proprietario alla gestione economica dei beni, la sua piena facoltà di uso e di abuso, l’esercizio da parte sua di un controllo rigoroso e frequente sulla conduzione dei campi erano connotati del tutto estranei alla grande “proprietà fondiaria” dei secoli XI e XII. Per lungo tempo le stesse condizioni materiali della produzione agricola non consentirono che si instaurassero rapporti di tipo diverso tra i grandi proprietari e i loro contadini. Nella prima età comunale non solo le regioni montane, ma anche gran parte delle colline e delle pianure erano disseminate di foreste, boscaglie e sterpeti; i terreni di fondovalle erano paludosi, le zone pianeggianti soggette costantemente alle inondazioni e a persistenti ristagni delle acque. Condotte in un’estrema povertà di mezzi tecnici, le opere di disboscamento e di sistemazione agraria si realizzavano secondo un ritmo secolare, attraverso il lavoro di più generazioni contadine. È in questo quadro che si inseriscono e trovano una loro giustificazione il carattere consuetudinario dei rapporti agrari, la frequenza di concessioni a lunghissimo termine e la tenuità dei canoni in denaro, il fatto che i servi della gleba mantenessero attraverso generazioni il godimento dei “mansi” e non ne fossero mai allontanati per volontà dei proprietari.

Questi connotati e queste motivazioni sono particolarmente evidenti nelle concessioni di tipo enfiteutico fatte collettivamente ai residenti di un determinato territorio o alle comunità contadine insediate in zone di dissodamento e di bonifica: si rileggano la convenzione tra l’abate Gotescalco e gli uomini di Nonantola (Sez. I, doc. n. 1) e l’investitura “in perpetuo” dei contadini di S. Benedetto Po (Sez. I, doc. n. 9) e si veda, qui oltre, il rinnovo della concessione della badessa Friderunda ai residenti di Cervignano e dei dintorni (doc. n. 2). Nei documenti di questo genere e nelle altre fonti della prima età comunale emerge anche un altro dato importante; che si inquadra a sua volta nella situazione materiale delle campagne e nel tipo di rapporti agrari che abbiamo descritto: il peso assunto dai diritti collettivi di godimento – accordati ai concessionari di terre signorili – su boschi, pascoli e terreni incolti. Nel documento dell’abate Gotescalco (Sez. I, doc. n. 1) il riconoscimento del carattere ereditario delle concessioni fondiarie si accompagnava infatti alla cessione delle terre dominicali “con le loro selve e paludi e pascoli” affinché i concessionari potessero “goderne, farvi pascolare le bestie e tagliar legna”. I concessionari della badessa Friderunda di Aquileia avrebbero goduto collettivamente “del diritto di raccolta, di pascolo e di aratura” entro un territorio determinato (qui oltre, doc. n. 2). Nella selva di Formigada gli abati di S. Andrea avrebbero fatto “pascolare i loro porci e quelli dei propri rustici”, cioè dei propri dipendenti e concessionari (doc. n: 3). Nelle “pertinenze” dei fondi del territorio padovano sono contemplati spesso “i diritti di raccolta e di pascolo e il godimento delle terre incolte” (cfr. doc. n. 6a). L’arciprete di S. Maria di Monte Velate vantava su un bosco “il diritto di farvi mangiare e pascolare i porci, e non soltanto quelli di sua proprietà […], ma anche quelli degli altri uomini” che dipendevano dalla chiesa (doc. n. 7). Agli inizi del secolo XIII, la convenzione tra i conti di Tintinnano e i loro uomini (Sez. I, doc. n. 10) contemplava per questi ultimi la facoltà di “andare sulle terre non coltivate a provvedersi della legna, dell’acqua e dell’erba necessarie agli uomini e alle bestie”.

Lo sfruttamento di boschi e incolti costituiva una integrazione necessaria delle deboli risorse della coltivazione agricola. Oltre che sui cereali inferiori, quali la spelta e la mèliga (sorgo), l’alimentazione dei contadini era largamente fondata sulla carne di maiale: di qui l’importanza dei querceti; le castagne erano un altro elemento importante nell’alimentazione umana; il legname dei boschi e degli sterpeti costituiva praticamente l’unico tipo di combustibile, e le sue ceneri erano impiegate per fertilizzare i campi. Per la fertilizzazione si ricorreva comunque soprattutto, già nella prima età comunale, al concime animale, e per questo era necessario che fosse sempre assicurata alle comunità rurali la facoltà di far pascolare le bestie e di raccogliere il fieno nei terreni dominicali.

Queste necessità erano tanto più impellenti quando i concessionari delle grandi tenute signorili venivano insediati su terreni da dissodare, da sistemare o comunque da migliorare. Una volta avviate le opere di dissodamento e di bonifica, potevano essere imposti ai concessionari canoni più elevati per i terreni a coltura (cfr. Sez. I, doc. n: 9), ma restavano comunque acquisiti i loro diritti di godimento su boschi ed incolti. Naturalmente i signori potevano esigere dei censi come corrispettivo della raccolta di legname, del pascolo di suini e di ovini, della caccia e della pesca (cfr. Sez. I, docc. nn. 1, 6, 11 c. 385, e qui oltre, n. 7) o svolgere un’azione limitatrice e di disciplina (cfr. Sez. I, doc. n. 7). Ciò non toglie che lo sfruttamento collettivo dei terreni non dissodati, inquadrato sotto l’autorità signorile, fosse strettamente complementare al regime della grande proprietà fondiaria nella prima età comunale. Esso costituiva, insieme al carattere ereditario e consuetudinario delle concessioni e all’intensità dei diritti accordati ai concessionari, un tratto essenziale dei rapporti agrari del tempo, e contribuiva ad accentuare il distacco tra la “proprietà” giuridica delle terre e la disponibilità, lo sfruttamento e il controllo economico effettivi.

Nota bibliografica sulla proprietà fondiaria nella prima età comunale

Tra le indagini di maggior respiro sulle strutture della proprietà fondiaria nei secoli XI e XII dobbiamo richiamate quelle del TORELLI, Un Comune cit. (da lui derivano i dati sulla curtis di Beatrice e Matilde di Canossa, che abbiamo riportati nella Introduzione) e del CONTI, La formazione…, I, cit. Intorno alla natura e all’evoluzione dei patrimoni ecclesiastici molte importanti osservazioni e indicazioni di ricerca si trovano diffuse nei saggi di C. VIOLANTE, ora raccolti nel volume Studi sulla Cristianità medioevale. Società istituzioni spiritualità, Milano, Vita e Pensiero, 1972; allo stesso autore si deve il merito di avere attribuito il giusto peso ai prestiti su pegno fondiario, stipulati dagli enti ecclesiastici nei secoli X-XII: si vedano i saggi: Per lo studio dei prestiti dissimulati in territorio milanese nel secolo XI, in Studi in onore di Amintore Fanfani, I, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 641-735, e Les prêts sur gage foncier dans la vie économique et sociale de Milan au XI siècle, in “Cahiers de civilisation médiévale”, V (1962), pp. 147-168, 437-459. Sul “sistema curtense” si consulti in primo luogo lo studio di G. LUZZATTO, I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche italiane dei secoli IX e X, edito nel 1909 e poi ripubblicato nella raccolta di saggi del medesimo autore: Dai servi della gleba agli albori del capitalismo. Saggi di storia economica, Bari, Laterza, 1966, pp. 1-177.

© 2000
Reti Medievali
Ultimo aggiornamento: 17/2/05