Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
11. Carestia, guerra e fenomeni d’eccezione nella “Cronica”
di Salimbene da Parma
In conformità con i tradizionali schemi narrativi degli annalisti
medievali, il celebre cronista Salimbene de Adam (nato nel 1221, entrato
nel 1238 nell’Ordine dei Frati Minori e morto dopo il 1288) accenna
alla vita delle campagne e dei contadini solo per annotare i fatti stupefacenti
o comunque straordinari, e in primo luogo gli sconvolgimenti provocati
da calamità atmosferiche, da invasioni di insetti, da pestilenze, guerre
e scorrerie. Nondimeno l’opera è ricca di notizie importanti per
la storia della società rurale e della produzione agricola: cfr.
L. MESSEDAGLIA, Leggendo la Cronica di frate Salimbene da Parma. Note
per la storia della vita economica e del costume nel secolo XIII,
in Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti,
Anno Acc. 1943-44, CIII, p. II, pp. 351-426. Con particolare attenzione
e precisione Salimbene prese nota dei periodi di carestia e dei prezzi
raggiunti allora dai grani e dagli altri generi alimentari. Abbiamo scelto
e tradotto qui cinque passi dalla Cronica, n. ed. critica a c. di
G. SCALIA, 2 voll., Bari, Laterza, 1966 (Scrittori d’Italia,
232-233): I, pp. 49, 274-275; II, pp. 706-707, 726, 742.
a/ Nell’anno dei Signore MCCXXVII vi fu una
grandissima carestia di grani e di generi alimentari: il prezzo corrente
del frumento era di 12-15 soldi di denari imperiali lo staio, quello
della spelta 5-6 soldi lo staio, quello della mèliga 8 soldi lo staio,
quello della carne suina 12 soldi la libbra.
b/ Vi fu in quel tempo (negli anni intorno al 1247)
una guerra violentissima, che durò molti anni. Gli uomini non potevano
arare né seminare né mietere né lavorare le vigne né vendemmiare né
abitare nei villaggi; questo soprattutto a Parma, a Reggio, a Modena,
a Cremona. Potevano lavorare solo nei pressi delle città, sotto la custodia
dei milites cittadini, che erano distribuiti in “quartieri”
corrispondenti a ciascuna porta della città: questi milites, armati,
stavano tutto il giorno a custodia dei lavoranti, e così i contadini
potevano attendere ai lavori agricoli. Ciò era reso necessario dal moltiplicarsi
di soldati mercenari, banditi e predoni, che catturavano e imprigionavano
la gente per ottenerne il riscatto. E rubavano i buoi, per mangiarseli
o per venderli. Se i prigionieri non venivano riscattati, li appendevano
per i piedi e per le mani, gli strappavano i denti e gli mettevano in
bocca rospi, per accelerare i tempi del riscatto: questo era più amaro
e abominevole di qualunque morte. Erano più crudeli dei demoni. E a
quel tempo incontrare un uomo per strada faceva piacere come incontrare
il diavolo […] Si moltiplicarono enormemente gli uccelli e gli
animali selvatici: fagiani, pernici e quaglie, lepri e caprioli, cervi,
bufali, cinghiali e lupi rapaci. Questi non trovavano pìù nei villaggi,
come una volta, agnelli, pecore e altre bestie da mangiare, perché i
villaggi erano stati tutti incendiati. Perciò i lupi si ammassavano,
numerosissimi, intorno ai fossati delle città e lanciavano grandi ululati
di fame; entravano di notte in città e divoravano gli uomini che stavano
dormendo sotto i portici o nei carri, divoravano donne e bambini e certe
volte sfondavano le pareti delle case e sgozzavano i bambini in culla.
c/ In questi sei mesi (seconda metà del 1271) il prezzo
di uno staio di frumento era di 8 soldi di denari imperiali e anche
più, il prezzo della spelta era di 12 denari grossi lo staio, quello
della mèliga di 13 denari grossi lo staio. Una libbra grossa di carne
suina costava 14 e anche 15, 16, 17, 18 soldi di denari imperiali. Una
libbra grossa d’olio d’oliva costava 2 soldi di denari imperiali.
Quattordici fichi secchi costavano 1 soldo di denari di Reggio, quattro
o cinque teste d’aglio 1 soldo, venti castagne col guscio 1 soldo,
dodici o tredici mandorle i soldo. Uno staio di farro costava tra i
12 e i 14 denari grossi. E anche degli altri generi alimentari vi era
in quest’anno estrema carestia.
d/ In quest’anno (1277) per ogni staio di fave
seminato si ritraeva una produzione di 18, 20 o 25 staia, dunque ancor
più di quello che si suol dire per proverbio: “Fava de Zenaro,
lo mozo per lo staro”, che significa: “quando si seminano
fave in gennaio, si riproducono tanto da far raccogliere un moggio per
ogni staio seminato”[1].
Tali sono le conoscenze e la cultura dei contadini.
e/ Nell’anno del Signore MCCLXXXII, indizione X, vi fu una tale
quantità di bruchi che non se ne ricordava l’eguale. Distrussero
tutti gli alberi da frutto – sia i fiori che le foglie – e questi assunsero
l’aspetto che hanno nel cuore dell’inverno, mentre prima
erano tutti fioriti. E quando i bruchi non avevano più niente da mangiare
sugli alberi da frutto, passavano sui salici e ne divoravano gemme e
germogli. Risparmiavano peraltro le foglie dei noci, credo perché troppo
amare. In prosieguo di tempo cadevano giù dagli alberi, grossi e rimpinzati,
se ne andavano per le vie e per i campi e finalmente morivano. Non erano
bruchi d’orto, ma un altro genere di bruchi. E quest’anno
vi fu grande carestia di grani, cioè di frumento, di spelta, di mèliga,
nonché di fave e di legumi e di ogni cosa.
[1] II proverbio in volgare
e il discorso di Salimbene si spiegano tenendo presente che il rapporto
tra staio e moggio era nel Parmense di 1 a 8, come osserva lo stesso
cronista in un altro luogo (ed. cit., I, p. 498).
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