Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI –
metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
12. Dal “Trattato di agricoltura” di Pietro De Crescenzi Verso il 1299 il giudice bolognese Pietro De Crescenzi tornò nella
sua città, dopo avere percorso per trent’anni gran parte dell’Italia
centrale e settentrionale in qualità di consigliere e assessore al servizio
di vari podestà o di altri magistrati cittadini. Si era allontanato
da Bologna per non lasciarsi coinvolgere, come egli scrisse, nella “perversa
divisione” della città, cioè negli scontri politici tra opposti
gruppi familiari culminati nella persecuzione della Parte Ghibellina,
alla quale apparteneva. Durante la forzata lontananza dalla sua patria,
aveva avuto agio di leggere “molti libri di uomini sapienti, antichi
e moderni” e di osservare nelle diverse regioni d’Italia
“le varie pratiche dei coltivatori agricoli”: tornato a
Bologna, si ritirò all’età di settant’anni in una sua tenuta
di campagna e diede compimento a un’ampia trattazione sull’agricoltura
che aveva iniziato da tempo e che ultimò intorno al 1305. L’opera
ebbe una diffusione immediata negli ambienti colti, in parte per il
tramite dei Frati Predicatori ai quali Pietro De Crescenzi era particolarmente
legato, e fu tradotta presto in volgare toscano e poi in numerose lingue
europee: un prezioso elenco dei codici dei secoli XIV-XV (a c. di L.
FRATI) e delle edizioni a stampa sia del testo latino che delle traduzioni
(a c. di A. SORBELLI) si trova nel volume della SOCIETÀ AGRARIA
DI BOLOGNA, Pier de’ Crescenzi (1233-1321). Studi e documenti,
Bologna, Cappelli, 1933, pp. 259 sgg. Al grande successo del trattato
contribuì in misura determinante il suo carattere umanistico e letterario.
L’opera è costituita in effetti secondo un metodo essenzialmente
compilativo, risulta cioè in primo luogo di una serie di citazioni,
ampi estratti e riassunti dalle opere degli autori latini (Catone, Varrone,
Virgilio, Columella, Palladio) e dei filosofi medievali (soprattutto
Avicenna e Alberto Magno); le osservazioni dirette e originali sono
assai consistenti, ma appaiono concepite spesso come aggiunte e integrazioni
alle affermazioni delle « autorità ». È del tutto sporadica la testimonianza
del controllo sperimentale di un’asserzione di Alberto Magno (cfr.
qui sotto, nel testo c), e sono piuttosto marginali
i riferimenti alle esperienze pratiche di agricoltori e di osservatori
contemporanei. Mentre dedica molte pagine all’allevamento dei
cavalli e delle api, Pietro De Crescenzi attribuisce invece uno scarso
rilievo alle opere di dissodamento e di bonifica, né dimostra alcun
interesse per gli strumenti di lavoro e per i problemi del bilancio
dell’azienda agricola, del mercato, dei contratti agrari. D’altra
parte la sua opera non ha un carattere strettamente agrario (nonostante
il titolo: Liber ruralium commodorum, che si potrebbe rendere con Trattato
pratico di agricoltura): è piuttosto una compilazione di carattere scientifico
generale, dove hanno largo spazio l’enunciazione delle proprietà
medicinali dei singoli prodotti, il resoconto di fenomeni singolari
o curiosi, l’elencazione di specie vegetali e animali indipendentemente
dalla loro rilevanza per la vita rurale. Nonostante la sua dimensione
letteraria e compilativa, l’opera rappresenta una fonte preziosa
non solo per la storia della cultura scientifica e dell’erudizione
in Italia, ma anche per la storia delle campagne tra il secolo XIII
e il XIV. Abbiamo scelto quattro brani che riteniamo assai rappresentativi
della tessitura del discorso di Pietro De Crescenzi (con la giustapposizione
di cultura libraria e di osservazione diretta: cfr. in particolare il
testo b, dal libro II), della destinazione dell’opera
a grandi o comunque agiati possidenti (cfr. i testi a,
d, dai libri I e VIII rispettivamente), dello schema
descrittivo delle specie vegetali (testo c, dal libro
V). Speriamo di poter contribuire a suscitare un interesse per questo
autore, dal quale molti scrittori di storia hanno tratto dati e citazioni
ma che non è stato esaminato mai con la cura e l’impegno adeguati.
La mancanza di un’edizione critica costituisce al tempo stesso
una riprova di questo disinteresse e un ostacolo serio allo studio di
Pietro De Crescenzi. Noi abbiamo condotto la traduzione da uno dei codici
del secolo XIV, il Vaticano Latino 1529 (cc. 5-5v, 11-11v, 38v, 61-61v),
utilizzando anche il Vaticano Latino Ottoboniano 1569 e la più recente
edizione dei volgarizzamento italiano: Trattato della Agricoltura
di Piero De’ Crescenzi traslatato nella favella fiorentina, rivisto
dallo ’Nferigno Accademico della Crusca, ridotto a migliore lezione
da BARTOLOMEO SORIO P.D.O. di Verona…, 3 voll., Verona, Tip.
Vicentini e Franchini, 1851-1852. Il passo che avevamo citato nell’Introduzione
era tratto dal libro XI (Vat. Lat. 1529, c. 88). a/ Della disposizione interna della corte. L’interno della corte deve essere disposto in questo modo. Al
centro della facciata anteriore dev’essere fatta l’apertura
per la via d’ingresso, larga almeno dodici piedi; sulla parte
opposta dev’essere aperta l’uscita sull’aia, sulla
vigna o sui campi che stanno dietro la corte, della medesima larghezza:
la larghezza indicata consente infatti il passaggio di un carro carico
di fieno o di messi. Nelle due aperture si facciano le porte, nobili
o rustiche, come piacerà al padrone, tali comunque da poter essere chiuse
la notte con stanghe di ferro e chiavi; sopra le porte si costruirà
un tetto o “casa”, perché l’ingresso si mantenga pulito e asciutto
e le porte non infracidiscano rapidamente per effetto delle piogge e
della rugiada. Una metà della corte, sul lato di una delle due porte,
dev’essere riservata al padrone e disposta nel modo che segue.
Lungo la strada che attraversa la corte si faccia la casa padronale,
con il lato più lungo sulla strada e poco estesa in profondità; lo spazio
che non rimane chiuso dalla casa sarà chiuso da una siepe alta o da
un muro. Grande o piccola, costruita in muratura o meno, la casa deve
essere comunque ricoperta di tegole oppure di canne, a seconda delle
possibilità e dei desideri del padrone. In questa parte della corte,
lungo i suoi bordi, si pianterà una pergola con i più nobili generi
di viti: giunte a un’altezza di otto o dieci piedi, queste formeranno
un bel pergolato, che si estenderà lungo i bordi della corte e aderirà
agli alberi di cui si è detto sopra [1].
Poi, all’interno della corte e a una distanza di cinque o sei
piedi dai suoi bordi, si pianteranno tutt’intorno alberelli bassi,
tipo fichi e melograni – se lo consente la qualità del clima – e nocciuoli,
giuggioli e cotogni. Al centro di questa parte della corte si pianteranno
poi alcuni peri e meli, distanti tra loro almeno venti piedi: e in prosieguo
di tempo vi si innesteranno con accurato impegno generi diversi di pero
e di melo, in modo che giungano a maturazione uno dopo l’altro
per tutti i mesi dell’estate e dell’inverno. Con forti recinzioni
i frutti di queste viti e di questi alberi, riservati esclusivamente
al padrone, verranno sottratti alla sfacciata voracità dei contadini.
In questa parte si faranno ancora un ameno giardino e l’orticello
padronale, sarà custodita e protetta la cara comunità delle api, e ancora
le tortore e i ricci e i leprottini, nel modo che esporrò a suo luogo.
Nell’altra metà della corte si costruiranno le altre case e le
capanne, lungo tutto il bordo della corte oppure soltanto su due terzi
o su un terzo di esso, a seconda delle esigenze della famiglia colonica
e degli animali da governare, lasciando sgombra la parte centrale della
corte. Gli edifici migliori, posti in una parte determinata, saranno
destinati all’abitazione dei coloni, gli altri agli animali da
governare. Presso le case dei contadini si farà il forno e – nel caso
che non vi sia una fonte – il pozzo, nel punto più adatto e nell’osservanza
delle modalità e delle forme consuete: basta che il pozzo sia il più
possibile lontano dai fossati che circondano la corte e dal letamaio,
così da evitare che l’umore putrido dei fossati e del letame arrivi
al pozzo attraverso le occulte vie della terra. La fossa adibita alla
maturazione del letame dovrà in effetti essere scavata nella parte opposta
della corte, accanto alle capanne delle bestie e il più possibile lontano
dalla casa padronale. Se poi il padrone è così nobile e potente da disdegnare
di risiedere in una stessa corte con i suoi coloni, gli sarà facile
far dimorare un custode, detto “castaldo”, nel luogo disposto come
sopra, e fare la propria dimora in un altro posto, ornato di palazzi
e di torri e di giardini nel modo che riterrà conforme alla propria
nobiltà e potenza. Riservo a una trattazione ulteriore gli ammaestramenti
relativi all’aia, ai granai e alla cantina, alla colombaia, al
pollaio, alle stalle e ai fienili. b/ Del letame e del nutrimento delle piante. Da quanto si è detto risulta dunque che il letame è una di quelle cose
che concorrono in particolar modo a mutare la pianta di selvatica in
domestica. In effetti la selvatichezza di una pianta non consiste in
altro se non nella carenza di coltura e nella difformità del sapore
dei suoi frutti rispetto alle esigenze umane, mentre la pianta si dice
domestica quando, grazie alla coltivazione, il sapore diviene adeguato
al gusto e all’utile degli uomini. Che questo risultato si ottenga
con il letame, è provato da ciò che vediamo accadere negli animali;
difatti tutti gli animali domestici hanno più carne degli altri, per
l’abbondanza dell’alimentazione, e a seconda delle diversità
di alimentazione assumono molte diverse qualità e colori diversi, e
il sapore delle loro carni è differente da quello delle carni degli
animali selvatici: quindi la stessa cosa si deve verificare per le piante,
in modo proporzionale, in seguito alla somministrazione del nutrimento,
come dice frate Alberto [2].
Palladio [3] dice che il concime
dev’essere ammassato in un luogo a ciò destinato, che sia ricco
di umore e che sia collocato nella parte posteriore della corte e rivolto
verso l’esterno, per evitare il puzzo. L’abbondanza di umore
comporterà questo vantaggio, che andranno in putrefazione i semi di
piante spinose eventualmente presenti nello sterco. Il migliore sterco,
specialmente per gli orti, è quello degli asini; poi viene quello delle
pecore, delle capre, dei giumenti. Pessimo quello dei maiali, ottime
le ceneri. Lo sterco dei colombi è quello che ha più calore, e in genere
quello degli uccelli è abbastanza utile, tranne che quello degli uccelli
di palude. Cassio scrive invece, a quanto riferisce Varrone [4],
che lo sterco migliore è quello dei colombi, che dopo viene quello dell’uomo
e in terzo luogo quello delle capre, delle pecore e degli asini. Quello
dei cavalli non va bene se non per i prati. Lo sterco che sia stato
in riposo per un anno è assai proficuo e non produce erbe; se è invecchiato
più a lungo dà minor giovamento. Ma per i prati è adatto il concime
fresco, se si vuole abbondanza di erbe. Un sostituto dello sterco può
essere rappresentato dai detriti del mare, sciacquati in acque dolci
e mescolati con altri rifiuti. Varrone scrive che presso la fattoria
ci devono essere due letamai, oppure uno diviso in due parti: nel corso
dell’annata deve essere deposto in uno il concime fresco, perché
si maturi, mentre dall’altro si preleverà il concime per darlo
ai campi. Inoltre il letamaio è migliore se le pareti e la sommità sono
protette dal sole con rami e con fronde: non bisogna infatti che quel
succo, che è richiesto dalla terra, stia a contatto col sole; perciò
gli esperti fanno in modo che al letamaio affluisca l’acqua, per
virtù della quale viene trattenuto il succo. I campi devono essere concimati
con più frequenza in collina, più di rado in pianura; e devono essere
concimati quando la luna è calante: in questo modo verranno danneggiate
le erbacce, come scrive Palladio. Columella [5]
afferma che per uno iugero bastano ventiquattro carri di sterco, diciotto
se in pianura. Ma da noi i contadini ce ne mettono il doppio e anche
più (i Toscani non tanto). Il numero dei monticelli di concime, che
devono essere disfatti e sparsi, dovrà poi essere corrispondente alla
superficie che si può arare nella giornata, per evitare che il letame
si secchi e divenga inutilizzabile. Il letame viene dato ai campi in
ogni stagione che precede l’estate. Se non lo si sarà potuto dare
nel periodo opportuno, allora, prima della semina, si spargeranno nei
campi le ceneri dello sterco, come fossero sementi, oppure vi si getterà
con la mano lo sterco delle capre e poi lo si mescolerà alla terra col
sarchiello. È bene non concimare troppo tutto in una volta, bensì spesso
e poco per volta. Un campo che sia ricco d’acqua ha bisogno di
più sterco, un campo secco di meno. Se poi non si dispone di abbondante
letame, il procedimento seguente può fare ottimamente le funzioni dello
sterco; nelle terre sabbiose e secche si spargano creta e argilla, nelle
terre cretose e troppo dense la sabbia. Tale pratica è adatta alle messi
e rende le vigne bellissime; difatti la concimazione delle vigne col
letame suole viziare il sapore del vino. Nei campi a coltura e nelle
vigne si possono ancora seminare i lupini, nei mesi di agosto e di aprile
o di maggio, e quando hanno quasi completato la loro crescita rovesciarli
sottoterra, perché così ingrassano vigne e terre come il letame; ma
tale ingrassamento dura al massimo due anni. Dalle parti di Toscana
gli agricoltori esperti seminano i lupini nel periodo in cui si seminano
anche le rape, cioè verso la fine di luglio e gli inizi di agosto, nelle
terre coltivate oppure nelle stoppie, dopo averle arate due volte; ne
seminano circa tre corbe [6]
per ogni iugero e coprono il seme con l’erpice. Poi, in ottobre,
tagliano i lupini con le zappe, li mettono nei solchi e qui seminano
il frumento, coprendone quindi i semi con l’aratura: e l’estate
raccolgono così del buon frumento. I Milanesi invece seminano rape grosse,
e dopo che son cresciute le sotterrano. Altri seminano la lenticchia,
e la sotterrano quando ha raggiunto la pienezza del suo sviluppo. Altri
poi rendono molto fertili dei terreni, che per la loro magrezza produrrebbero
poco o niente, irrigandoli nel modo seguente: dopo aver tolto le messi
dai campi, vi immettono l’acqua con un sistema ordinato di solchi
o di canaletti. Meglio se si tratta di acqua torbida di torrente, che
apporti nuova terra sulla superficie del campo e, colmandone i solchi,
lo appiani; questo soprattutto se il campo è cretoso: infatti quando
è di terra leggera, basta dell’acqua chiara. Irrigazioni del tipo
descritto sono utili soprattutto d’estate, quando l’acqua
resta sotto i raggi del sole cocente, e grazie a ciò il campo viene
ingrassato moltissimo. È ancora un’affermazione dei Milanesi,
ed è una pratica comunemente osservata da tutti, che se nei luoghi dove
va piantato il lino si seminano i lupini e poi si sotterrano – senza
aspettare necessariamente che siano cresciuti, ma anche quando sono
appena nati – ciò ingrassa molto la terra. Dicono inoltre che se si
lasciano ammollare i lupini nell’acqua per alcuni giorni, finché
non emettano un bel germoglio, e poi li si semina a mano e si ara la
terra, questa ne viene molto ingrassata. Affermano lo stesso per le
ceneri: e perciò bruciano il letame e ne seminano a mano le ceneri e
poi rivoltano la terra, con i semi del lino o con qualunque altro seme.
Il letame va dato ai campi, alle vigne, agli orti e agli alberi soprattutto
a partire dalle Calende di settembre (1° settembre), per tutti i mesi
che seguono fino a maggio. E quando viene il gran gelo lo si può opportunamente
spargere sopra le messi che siano già spuntate. Può essere sparso sul
terreno anche nei mesi successivi al maggio, al tempo della grande calura,
purché lo si ricopra con la terra per evitare che venga disseccato dai
venti o dal sole; e lo si può dare anche alle vigne e agli alberi, purché
sia stato ben maturato. È da sapersi che con un carro di paglia si fanno
cinque o sei carri di letame e che una concimazione con lo sterco degli
animali rende la terra feconda per non meno di sei anni. Va notato ancora
che si può formare letame anche senza animali, in questo modo: si gettano
d’inverno la paglia o altri strami nelle vie fangose, nelle corti,
nei fossati e nelle fosse d’ogni tipo, vi si lasciano per quindici
giorni o giù di lì perché siano pestati e infradiciati a lungo dalle
piogge, si ammassano dopo qualche giorno in un grande monte di letame,
dalla sommità larga in modo da poter ritenere l’acqua piovana,
e dopo averli lasciati così per tutta l’estate si spargono nei
campi. c/ Del nespolo. Il nespolo è un albero ben conosciuto. I suoi frutti possono essere
grossi, domestici e moderatamente agri oppure selvatici, piccoli e molto
agri. Tollera sia il clima caldo che il temperato e il freddo e richiede
terra sabbiosa, grossa o anche ghiaiosa, alla quale sia frammista rena
oppure argilla con sassi. Si pianta in marzo o in novembre con talèe,
ma dopo aver concimato il terreno in maniera che il concime ricopra
ambedue i capi della talèa. Si può anche piantare per seminagione; ma
allora bisogna aspettare a lungo prima che cresca. L’innesto si
può fare nel nespolo stesso, nel pero, nel melo, nel biancospino e nel
cotogno; il rametto da innestare dev’essere preso dalla parte
mediana dell’albero – perché quelli che sono in cima sono difettosi,
a meno che non siano eccezionalmente rigogliosi – e deve essere innestato
in una fenditura del tronco, non nella corteccia, che vuota e magra
com’è non procurerebbe alcun nutrimento. Alberto poi dice che
quando l’innesto del nespolo si effettua sul tronco di una pianta
diversa, cioè del melo, del pero o di un qualche arbusto spinoso, il
frutto cresce più grande ma privo di nocciolo, al contrario di quanto
avviene quando cresce dal legno della propria pianta. Ma io ho fatto
spesso l’innesto sul pero, sul melo, sul cotogno e sul biancospino
e non ho trovato che i frutti mancassero di noccioli né che aumentassero
di grandezza. Se poi in qualche regione mancano i nespoli, è stato sperimentato,
a quanto dice Alberto, che inserendo un ramoscello di pesco nel tronco
della spinamagna – che è simile al faggio nel legno e nella corteccia
ed è chiamata volgarmente spina faggina – crescono i nespoli più grandi
e più buoni che mai si siano visti. Il nespolo ama essere potato e zappato
tutt’intorno; se si spandono alle sue radici letame e ceneri delle
viti, ciò lo rende fertile. Gli si deve dar forma in modo che i rami
siano a un certo livello dal suolo, cioè a circa quattro piedi, e che
si distendano all’infuori e verso l’alto sino a sovrastare
l’altezza dei buoi. Se viene invaso dai vermi bisogna purgarlo
perforandolo con un ago di bronzo, secondo Palladio, e infondendovi
morchia oppure orina vecchia d’uomo oppure calce – ma con moderazione,
perché l’albero può risentirne – oppure decotto di lupini: si
ritiene tuttavia che questo renda l’albero sterile. Se è infestato
dalle formiche, queste si uccidono con argilla rossa stemperata in aceto
e cenere. Se i frutti si staccano, taglieremo una barba dalle radici
e la ficcheremo in mezzo al tronco su cui è stato fatto l’innesto.
Per conservare le nespole bisogna raccoglierle quando non sono ancora
mature. Esse si mantengono a lungo anche sull’albero; oppure si
possono conservare in orciuoli impeciati, o disponendole in fila e sospese
da terra oppure, quando sono mezze mature, lasciando loro il picciuolo
e facendole maturare per cinque giorni nell’acqua salata e immergendole
poi spesso finché non vengano più a galla. Vanno raccolte nelle giornate
serene e a mezzodì e vanno poste nella paglia, separate l’una
dall’altra per evitare che si guastino stando a contatto. Se vengono
raccolte troppo mature, allora si possono conservare nel miele. Con
i nespoli si possono fare delle belle siepi, piantandoli. fitti o propagginandoli
oppure innestandoli lungo tutta la siepe su biancospini e cotogni. Le
nespole sono fredde e secche in primo grado. Hanno la proprietà di tonificare
lo stomaco e fanno cessare le coliche biliari e il vomito, sono diuretiche
e hanno valore più come medicina che come cibo. Sono infatti poco nutrienti
e costituiscono un cibo pesante; è più indicato mangiarle prima dei
pasti che dopo, perché danno tono allo stomaco e non nuocciono alla
sua muscolatura. d/ Delle cose che si possono fare nei terreni campestri per trarne
diletto. Nei campi reca un grande diletto la bellezza della loro posizione:
e che il campo sia grande, consistente non già in una serie di malformati
pezzetti di terra bensì in un’unica, grande e ininterrotta estensione
che abbia confini diritti. Per questo ogni diligente padre di famiglia
deve cercare di comprare in prossimità dei suoi campi piuttosto che
altrove e di vendere i campicelli più lontani e di rettificare i confini
tra i suoi campi e quelli dei vicini, cedendo in permuta costoro le
superfici sporgenti e tortuose. Egli deve poi circondare il campo con
fossati e con siepi di pruni verdi, nelle quali inserirà, a intervalli
regolari, degli alberi adatti. Nell’interno del campo farà poi
in modo che i fossati, con i canalicoli di scolo che sono indispensabili
nei terreni pianeggianti, vengano il più possibile diritti, cercando
comunque sempre di adeguarsi a ciò che è utile al campo: nei campi infatti
l’utile deve essere anteposto al dilettevole (mentre nei giardini
si deve adottare il criterio opposto) e perciò bisogna sempre scegliere
quelle alternative che assicurino una maggior ricchezza di prodotti.
Si deve inoltre fare in modo, per quanto si può, che attraverso il campo
scorrano dei corsi d’acqua, per mezzo dei quali lo si possa irrigare
quando ve ne sia bisogno e sottrarre alle acque in caso di necessità.
Attraverso i campi spaziosi si devono poi tracciare delle vie che consentano
un comodo accesso a ogni parte del campo al padre di famiglia – sia
a piedi che a cavallo – e ai coloni con i loro carri e i loro buoi.
Tutte queste cose recano diletto, e sono al tempo stesso utili.
[1] Nel capitolo precedente,
dove l’autore si era diffuso sui fossati, sulle siepi e sugli
argini o bordi (ripae = rive) che devono circondare la corte nonché
sugli alberi da píantare lungo di essi: salici, pioppi, olmi.
[2]Alberto Magno, il grande
teologo domenicano del secolo XIII.
[3] Scrittore latino del IV
secolo, autore di un vasto trattato di agricoltura.
[4] Varrone Reatino, 116-27
a.C., erudito e autore di un celebre trattato di agricoltura.
[5] Trattatista di agricoltura
del secolo I d.C.
[6] La corba, misura di volume
per gli idi, corrispondeva a circa 78 litri.
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