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FontiL'ascesa della borghesia nell'Italia comunalea cura di Anna Maria Nada Patrone © 1974 – Anna Maria Nada Patrone Sezione I – La borghesia e l'avvento del comuneIntroduzionePer comprendere il fenomeno della formazione e del successivo sviluppo della borghesia, si devono tener presenti sia quelle forme di autonomia cittadina già attive in Italia sin dal IV secolo, sia il risveglio demografico ed economico che caratterizza la situazione dell'Europa, ed in particolare dell'Italia centro-settentrionale, dalla seconda metà del secolo X. Per il primo punto si ricordi che nei municipi italiani già in epoca romana esisteva un'assemblea generale di cittadini con il compito di eleggere i magistrati locali; nell'editto di Rotari (543) si parla di un preesistente conventus ante ecclesiam o conventus civium (assemblea dei cittadini di fonte alla chiesa cattedrale). In tale assemblea, a cui partecipava tutta la popolazione, naturalmente avevano più probabilità di farsi valere i notabili, che non sempre e non ovunque erano unicamente i discendenti degli antichi possessori romani, ma che spesso erano anche i personaggi più in vista per le loro possibilità finanziarie o per le loro qualità intellettuali e morali. Il conventus, in cui venivano trattate le questioni di politica interna cittadina (elezione del vescovo, amministrazione dei beni della chiesa e della città, lavori pubblici, norme sanitarie, diritto di cittadinanza, questioni relative al mercato ed all'annona) venne quindi diretto da un ceto relativamente ristretto, fervido di iniziative individuali e collettive, che nei disordini provocati dal mutare delle forze politiche (secolo VI – secolo X), dalle circostanze contingenti alla situazione delle singole città, era stato costretto molto spesso a prendere decisioni e provvedimenti in modo autonomo dal potere centrale, regio o imperiale, per salvaguardare gli interessi della collettività urbana ed era quindi maturo nel secolo XI per assumersi nuove e più piene forme di responsabilità. Per il secondo punto è ben noto che il risveglio del Mille, dovuto a motivi contingenti favorevoli (arresto delle incursioni ungare, sconfitta dei saraceni, presenza di un potere imperiale, quello degli Ottoni, ben organizzato e stabile) portò con sé una netta ripresa delle attività commerciali, una profonda trasformazione dei sistemi di tecnica e conduzione agraria, la formazione di molti borghi fuori le mura cittadine ed il conseguente allargamento delle cerchia murali per difendere e proteggere questi sobborghi, l'apertura di nuove arterie fluviali e stradali. In queste città, fervide di nuova vita, una minoranza attiva e produttiva di cittadini, che aveva dietro di sé una lunga esperienza di partecipazione alla amministrazione cittadina, maturata nei ricordati conventus civium, era ormai pronta ad esigere e reclamare quella piena autonomia urbana che verrà realizzata dai liberi comuni. Erano gli uomini nuovi, nella più larga accezione del termine, coloro che avevano saputo affermarsi lentamente ed avevano lavorato in tutti i campi della vita pubblica; erano cioè i rappresentanti di quegli operatori economici e di quegli uomini di legge che erano riusciti a primeggiare nelle città. Nonostante questa premessa, è però opportuno ricordare che il comune nacque in terreno signorile [1], o almeno da persone che erano legate più o meno strettamente con la classe signorile, cioè i secundi milites (piccoli signori rurali inurbati, funzionari pubblici), eminenti per la loro posizione economica e sociale ed interessati, già nell'epoca precedente, a tutte le principali manifestazioni della vita politica, giuridica, economica della città, avendo vissuto ed agito quasi sempre presso la curia di quei vescovi, che le necessità contingenti avevano spesso costretto a divenire i capi spirituali e temporali delle città. La lotta delle investiture fu determinante per la formazione delle autonomie cittadine e per l'affermarsi delle élites urbane. Salve alcune eccezioni, del resto ambigue, il clero riformato [2] non poté che appoggiare il nascente comune, non potendo assolutamente pretendere di ripristinare per sé quell'autorità temporale che era stata prerogativa dei vescovi del periodo precedente; certe sue posizioni intransigenti o polemiche contro le forze comunali lasciano tuttavia intendere che il clero cittadino era ben consapevole dei pericoli che questo suo atteggiamento comportava, cioè l'ascesa e la pressione politica di quei nuovi elementi sociali, saliti dal basso ed aspiranti ad entrare nella classe dirigente, quegli stessi elementi che avevano strumentalizzato la lotta delle investiture per affermarsi politicamente e che ora avevano tutte le intenzioni di sfruttare la situazione contingente per afferrare il potere (cfr. lettura 1, sezione II). Le prime magistrature comunali, i consoli, furono probabilmente scelte – salve rare eccezioni – tra le famiglie e le persone che erano state legate al vescovo da rapporti di dipendenza e che possedevano anche una certa pratica delle cose pubbliche, in quanto erano frequentemente giudici (cioè esperti di leggi che avevano studiato nelle scuole superiori di diritto) o causidici (cioè esperti di diritto che avevano frequentato soltanto le scuole locali). È però necessario sottolineare che questo monopolio politico di una cerchia ristretta di cittadini, provenienti per lo più – come già si è detto – dalle file della vecchia classe dirigente, era compensato dal fatto che essi in genere adottarono un programma politico-economico corrispondente ai reali interessi della parte più influente della collettività cittadina, cioè degli operatori economici. Un'apertura decisiva nel governo del comune si ebbe con l'avvento del regime podestarile (seconda metà del secolo XII). Le circostanze in cui la nuova magistratura venne introdotta ci provano che questo periodo del governo comunale fu un successo borghese. La presenza di podestà, specialmente nella fase intermedia dei podestà scelti nell'ambito delle famiglie cittadine (cfr. introduzione alla lettura 7), indica infatti quasi sempre un'influenza politica di elementi provenienti dal popolo, cioè dalla borghesia. Nel periodo podestarile le città presentano un volto nuovo, un accresciuto benessere; nel secolo XIII e ancora durante tutto il secolo XIV venne pure elaborata l'impalcatura giuridica cittadina: è infatti il momento delle statuizioni scritte, esplicitamente riconosciute dal potere imperiale dopo la pace di Costanza (1183) (cfr. lettura 4). Si tratta in realtà di una radicale trasformazione delle strutture politiche. Alla base più ristretta, su cui l'organizzazione comunale si era fondata ai suoi inizi, si sono ormai lentamente, ma decisamente, sostituiti gli strati più alti della borghesia, con una propria individualità politica ed economica. L'aspetto più importante di questa evoluzione cittadina è appunto la pressione esercitata sulla classe al governo dagli elementi della borghesia più influente economicamente, fino ad allora esclusi dal potere diretto ed emarginati dalle manifestazioni della vita pubblica. Il periodo podestarile è infatti caratterizzato dall'avvento del populus nella vita politica cittadina. Si tenga però ben presente che il termine populus non abbraccia l'intera popolazione cittadina e tantomeno gli strati più bassi, i piccoli artigiani, i salariati e la plebe; si tratta invece di quel gruppo sociale, formato per lo più da mercanti, da banchieri, da grandi operatori economici o da certi ristretti ceti artigianali, che riuscì a raggiungere un'influenza politica a tutto danno dell'oligarchia signorile precedente. Di conseguenza è bene avvertire che è assolutamente erroneo parlare di democrazia nel periodo comunale; infatti, pur essendovi ordinamenti che facevano teoricamente posto a larghi e nuovi strati sociali nel governo, la plebe urbana e contadina rimase sempre emarginata da qualsivoglia ingerenza nella conduzione politica del comune. Infatti alle cariche pubbliche erano eleggibili soltanto coloro che possedevano beni immobili o mobili sufficienti per risarcire i possibili danni o le eventuali malversazioni che avessero compiuto a danno della cittadinanza nell'esercizio del loro ufficio, in teoria per assicurare la città contro ogni possibile danno, in realtà per salvaguardare i privilegi di classe di quella ristretta élite urbana, formata dai ricchi borghesi e dai nobili inurbati costituenti ormai quasi un unico gruppo sociale, detto comunemente patriziato cittadino (e nei documenti contemporanei «magnati») [3]. Verso la metà del Duecento si assiste ad una nuova evoluzione del regime comunale: le organizzazioni di lavoro, le corporazioni, già determinanti nella vita economica, riuscirono ad imporsi anche in campo politico. Compare così il capitano del popolo e nei documenti ufficiali del comune è costante la presenza dei priori delle arti e di altri esponenti delle associazioni di mestiere accanto a quella dei membri consueti del consiglio comunale. Il sistema a populo avrebbe dovuto presentarsi come il sistema perfetto per stabilire la coesistenza tra due differenti organi costitutivi e per equilibrare il potere tra vecchie e nuove magistrature, ma tale equilibrio era inficiato dal fatto che il potere decisionale cadeva in tal modo completamente in mano del ceto medio. Infatti gli organi rappresentativi delle corporazioni erano naturalmente eletti e formati solo da elementi del ceto borghese; d'altro canto anche gli organi tradizionali della gestione comunale erano eletti da tutti i cittadini e quindi anche dai borghesi. È chiaro quindi che il consiglio generale del comune non poteva costituire un vero contrappeso al consiglio del popolo perché in esso sedevano e votavano insieme con i nobili anche i borghesi. La fase popolare potrebbe dunque sembrare una vittoria clamorosa della borghesia contro quelle famiglie o quei gruppi signorili che per quasi due secoli erano riusciti a tenere le redini del potere nel comune. Invece, se è pur vero che la «nuova gente» (mercanti, notai, banchieri, imprenditori) prevalse nella direzione del comune, in realtà il rinnovamento operato nella struttura sociale della classe dirigente dei comuni italiani non fu poi così radicale come appare a prima vista. Non solo il movimento del popolo fu spesso guidato da nobili transfughi dal proprio gruppo politico o per convinzione o per calcolo, ma l'elezione quasi sistematica di un nobile a capitano del popolo è una conseguenza innegabile dell'organica insufficienza ed incapacità della borghesia a dirigere il comune in piena autonomia. In realtà gli elementi popolari erano troppo impegnati nei loro affari per avere il tempo e la volontà di dedicarsi personalmente alla vita amministrativa e politica. Quindi anche il periodo del comune delle arti è contraddistinto dalla persistenza nei posti di comando di molti elementi della nobiltà cittadina. La situazione delle classi più umili della popolazione non migliorò affatto: anche in questo periodo la plebe e l'artigianato minuto continuarono ad essere esclusi dal diritto di organizzarsi in arti autonome e dal diritto di associazione (cfr. lettura 11, sez. III), rimasero soggetti alla giurisdizione disciplinare degli imprenditori e non videro neppure in minima parte attuarsi una loro partecipazione alla vita cittadina. Possiamo addirittura affermare che videro peggiorare la loro condizione, perché è in questo periodo che si verificò – almeno nei grandi centri – la separazione della forza-lavoro dai mezzi di produzione, cioè prese l'avvio lo sfruttamento capitalistico dei salariati. Si deve dunque concludere che anche nel periodo del comune popolare non vi fu la minima parvenza di democrazia, bensì il sistema politico adottato fu quello della più gretta plutocrazia. Nondimeno la vittoria popolare costituì un avvenimento d'importanza storica nella vita politica italiana, perché portò ad un allargamento decisivo della classe dirigente comunale. Questa nuova élite era ben salda nella convinzione che il comune nella sua politica interna ed esterna doveva rimanere sostanzialmente indipendente da ogni intromissione estranea e non tollerò – come invece si era verificato durante il reggimento politico della nobiltà – alcun limite a questa sua autonomia, tendendo, più che nei periodi precedenti, a liberare formalmente la vita politica cittadina da ogni intromissione, sia papale, sia imperiale. Il periodo del governo del popolo fu quindi una fase di rinnovamento e di consolidamento delle forze borghesi, in cui però erano già presenti i sintomi di quella crisi decisiva che avrebbe portato al passaggio alla signoria, verificatasi quasi ovunque tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, con forme diverse, ma con un'identità sostanziale di fasi e di risultati. I contrasti nell'interno del comune non erano stati sanati con l'assunzione del potere da parte della borghesia, anzi gli urti di famiglie o di gruppi continuarono a persistere tra le mura delle città, aggravati inoltre dal collettivo generale disinteresse per il bene comune della cittadinanza, che divenne l'aspetto caratterizzante della mentalità borghese di questo periodo. Era dunque fatale che in una siffatta condizione qualche personaggio abile ed energico, fosse di famiglia nobile o di estrazione borghese, riuscisse a farsi strada, prendendo nelle sue mani, più o meno esplicitamente e durevolmente a seconda dei casi, il potere, e divenendo signore della città. Nota bibliografica sulla borghesia e il potere politicoJ. HEERS, L'Occident aux 14e et 15e siècles. Aspects économiques et sociaux, Parigi, PUF, 1963; G. FASOLI, Gouvernés et gouvernants dans les Communes italiennes du XIe au XIIIe siècle, in «Recueil de la Societé J. Bodin», XXV (1966); G. FOURQUIN, Les soulèvements populaires au Moyen Age, Parigi, PUF, 1972 (ed. italiana a cura di A. M. NADA PATRONE, Milano, Mursia [in preparazione]); J. LARNER, Culture and Society. Italy 1290-1420, Londra, Batsford, 1971; J. BETHEL, Society and Politics in medieval Italy. The evolution of the civil life, Londra, 1973. C. VIOLANTE, La società milanese nell'era precomunale, Napoli, Laterza, 1953; ID., La società italiana nel basso Medio Evo, in «Itinerari», IV ( 1956), pp. 441-469; G. VOLPE, Medio Evo Italiano, Firenze, Sansoni, 1962 (I ed., Firenze, Vallecchi, 1923); E. SESTAN, La città comunale italiana dei secoli XI-XIII nelle sue note caratteristiche rispetto al movimento comunale europeo, in «Rapports du XI Congrès International des Sciences Historiques», III, Moyen Age, Stoccolma-Uppsala, 1960; G. LUZZATTO, Tramonto e sopravvivenza di feudalesimo nei comuni italiani del Medio Evo, in «Studi Medievali», II (1962); G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze, Sansoni, 1899; Torino, Einaudi, 1960; Milano, Feltrinelli, 1966; E. SESTAN, Italia medievale, Napoli, Ricciardi, 1967; G. FASOLI, Dalla civitas al comune, Bologna, Patron, 1969; P. BREZZI, I comuni medievali nella storia d'Italia, Torino, Eri, 1970; G. MARTINI, Basso Medioevo, in «La storiografia italiana negli ultimi vent'anni», Milano, Marzorati, 1970; V. RUTEMBURG, Popolo e movimenti popolari nell'Italia del Trecento e del Quattrocento, Bologna, Il Mulino, 1971; AA.VV., I problemi della civiltà comunale, Bergamo, Comune di Bergamo, 1971; G. FASOLI – F. BOCCHI, La città medievale italiana, Firenze, Sansoni, 1973. [1] Per l'uso costante in tutta l'antologia del termine «signorile» in sostituzione di quello tradizionale «feudale», secondo i suggerimenti delle più recenti correnti storiografiche, cfr. G. TABACCO, Fief et seigneurie dans l'Italie communale. L'évolution d'un thème historiographique, in «Le Moyen Age», LXXV (1969), n. 1, pp. 5-37; n. 2, pp. 203-218; ID., La connessione fra potere e possesso nel Medio Evo, Torino, Bottega d'Erasmo, 1972. [2] Si usa l'espressione «clero riformato» in opposizione al clero simoniaco e concubinario, normalmente di nomina imperiale. I vescovi riformati sono i vescovi eletti dal clero locale o nominati dai pontefici, sia durante la lotta per le investiture, sia dopo il concordato di Worms (1122). Per una chiara esposizione degli avvenimenti in relazione all'Italia ed ai fenomeni cittadini, cfr. C. VIOLANTE, L'età della riforma della Chiesa in Italia, in «Storia d'Italia» diretta da N. VALERI, vol. I, Torino, Utet, 1965. [3] Cfr. G. TABACCO, Interpretazioni e ricerche sull'aristocrazia comunale di Pisa, in «Studi Medievali», III s., III (1962), pp. 705-727. |
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Ultimo aggiornamento: 01/09/05 |