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Didattica

Fonti

Predicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)

a cura di Roberto Rusconi

© 1981-2006 – Roberto Rusconi


Sezione I – L'inquadramento religioso delle popolazioni nell'alto medioevo

Introduzione

Nel complesso della sua attività legislativa Carlo Magno dedica ampio spazio alle istituzioni ecclesiastiche. In particolare, mentre in Italia, nel corso della dominazione dei Longobardi, i vescovi erano rimasti del tutto estranei all'ordinamento statale, nell'impero carolingio essi assumono il ruolo di organi esecutivi del potere sovrano: essi debbono vigilare sul clero e sui monasteri, ma soprattutto sulla moralità del popolo cristiano. Nel programma politico di Carlo Magno e dei riformatori carolingi le istituzioni ecclesiastiche territoriali — diocesi e parrocchie — hanno la precisa funzione di assicurare la più ampia coesione ideologica del corpo sociale. Per ottenere questo risultato è necessario che i chierici a più stretto contatto con la popolazione — i sacerdoti in «cura d'anime» — posseggano una cultura religiosa almeno elementare, fatta di poche rudimentali conoscenze, e siano in grado di assicurare la celebrazione dei riti liturgici e la amministrazione dei sacramenti. Quanto alla predicazione, essa è limitata ai giorni festivi e consiste nella ripetizione delle raccolte di sermoni e omelie dei secoli precedenti (docc. 1 e 2).

In questi secoli, certo, non è la comunicazione di un messaggio religioso a prevalere nella vita religiosa di ogni giorno. Alle istituzioni ecclesiastiche compete di inquadrare le popolazioni al loro livello, quello religioso: in questo la predicazione al popolo resta un fatto sostanzialmente marginale, rispetto ai riti sacramentali (soprattutto battesimo e sepoltura).

Non bisogna, però, sottovalutare il fatto che la liturgia ecclesiastica veniva celebrata in latino, una lingua comprensibile solo in parte a popolazioni rurali presso le quali si stava affermando gradualmente l'uso delle varie lingue volgari. Di qui la necessità di assegnare un ruolo diverso alla predicazione: rendere intelligibile alla massa dei fedeli la dottrina religiosa che la élite chiericale si tramanda per iscritto in latino. E per fare questo occorre che la predicazione sia tenuta in maniera regolare, capillare e soprattutto in lingua volgare. A questo fine mirano le disposizioni emanate nell' 813 da Carlo Magno (doc. 3) prima della convocazione dei concili provinciali di Tours (doc. 4) e di Magonza, Reims, Arles, Chalôns-sur-Saône (doc. 5). Mentre in questi ultimi emergono ampiamente le difficoltà pratiche che il programma carolingio incontra nell'assicurare una predicazione assidua in tutte le terre dell'impero, la diciassettesima disposizione del concilio di Tours indica con estrema chiarezza il segno ideologico di questa operazione: la predicazione viene svolta in una lingua «intellegibile al volgo» semplicemente perché la classe dirigente ecclesiastica possa farsi intendere da coloro la cui parlata corrente è ormai diventata una lingua autonoma rispetto al latino. La elaborazione religiosa avviene in lingua colta, in latino: la «traduzione» in lingua volgare ha lo scopo di comunicare alla popolazione ciò che deve essere creduto, ed in questo modo assicurare, mediante l'instillazione di determinati principi di ordine morale, una integrazione della coscienza popolare nel consenso istituzionale.

In un memoriale redatto dai vescovi dell'impero nel settembre 813 i principi della predicazione assidua e comprensibile e della traduzione dei testi latini in una lingua volgare divengono le direttrici dell'azione pastorale (doc. 6). Ma l'azione dei riformatori ecclesiastici carolingi è ancora più complessa. Per assicurare che in tutte le chiese dell'impero ci si uniformi alla prassi liturgica e cultuale della chiesa di Roma, Carlo Magno ordina la revisione di tutti i libri di cui il clero si serve. Per questo motivo ordina a Paolo Diacono di compilare un nuovo «lezionario», perché di esso ci si servisse nella liturgia e per la predicazione (doc. 7). In esso vengono raccolti, distribuiti lungo l'arco dell'anno liturgico, brani tratti dai sermoni (cioè commenti di tipo dottrinale) o dalle omelie (commenti di brani biblici) composti nei secoli precedenti da autorevoli personaggi indicati come i «Padri della chiesa» (doc. 8). Essi debbono essere letti dai chierici — di qui la definizione di queste raccolte come «lezionari» —, ma devono anche servire loro per spiegare al popolo i brani della Bibbia letti in latino durante la messa — di qui la definizione per le stesse raccolte di «omeliari». In realtà, né Carlo né i suoi successori riuscirono a fare adottare l'omeliario di Paolo Diacono come testo ufficiale uniformemente diffuso in tutto il territorio dell'impero.

In Italia la fervida attività riformatrice degli ecclesiastici che circondano Carlo Magno giunge assai attenuata: nei canoni dei concili italiani del secolo IX si ripetono stancamente le disposizioni carolinge sul dovere dei vescovi di predicare, come a Roma nell'826 (doc. 9), finché non comincia a filtrare la convinzione che il ruolo affidato ai vescovi nei capitolari carolingi non era in grado di trovare realizzazione, come appare dai capitoli del concilio di Pavia dell'876 (doc. 11). In realtà, ciò che viene meno è il compatto tessuto istituzionale dell'impero, di cui facevano parte organica anche le istituzioni territoriali della chiesa, diocesi e parrocchie. A partire dagli anni 845-850 si moltiplicano i divieti rivolti ai signori laici, i quali fanno edificare presso le loro dimore delle proprie «chiese private», avviando in questo modo un processo di disgregazione delle circoscrizioni ecclesiastiche su cui si fondava l'intera politica ecclesiastica carolingia (doc. 10): ad essi addirittura si proibisce di farvi celebrare la messa nei giorni festivi per obbligare la popolazione a recarsi nelle chiese delle pievi per soddisfare il precetto.

Nei distretti rurali, all'interno dei quali si era spostato il centro della vita sociale a partire dai secoli IX-X, sorgono sempre più numerose le pievi, destinate a svolgere nei confronti delle popolazioni delle campagne le stesse funzioni che le cattedrali svolgevano per le popolazioni dei centri urbani: attorno ad esse, per tutto il secolo IX e sino all'ultimo terzo del secolo X, si organizza la cura d'anime per le popolazioni rurali. La chiesa plebana è governata da un arciprete, assistito da un clero talora assai numeroso, cui compete soprattutto di amministrare i sacramenti fondamentali del cristianesimo: battesimo, penitenza, eucaristia, sepoltura. Presso questa chiesa rurale sono celebrati tutti i riti religiosi e durante le domeniche e le festività i chierici predicano alla popolazione, servendosi della loro biblioteca: un bene elencato accanto ai paramenti sacri ed alle proprietà terriere (doc. 15), la cui consistenza è fissata ad esempio nei decreti sinodali di Raterio di Verona, nell'anno 966, a livelli estremamente bassi, mutuati dalle disposizioni carolingie di un secolo e mezzo prima (doc. 16). Per la predicazione ci si serve dei sermonari — raccolte del tutto indipendenti dal ciclo liturgico, risalenti all'età patristica (doc. 13) — o di omeliari — in cui i testi patristici erano disposti in corrispondenza delle festività cui il compilatore li riteneva più adatti. Anzi, proprio nel IX secolo, nella predicazione parrocchiale arriva un nuovo tipo di omelia carolingia (doc. 14): nei monasteri, infatti, al cui interno si sta spostando l'asse portante della cultura ecclesiastica, non ci si limita più a ricopiare passivamente e alla lettera i brani di età patristica, ma si parte da essi per abbozzare un'esposizione del testo della Sacra Scrittura brano per brano. Oppure ci si rifà alle precise indicazioni della Regola pastorale di Gregorio Magno, il libro più letto dai chierici dell'alto medioevo e consigliato da tutta la legislazione ecclesiastica (doc. 12).

Nel microcosmo di una pieve si constata come vengano attuate, nel corso dei secoli IX e X, le direttive generali della politica ecclesiastica carolingia: intensificare e disciplinare la vita e le pratiche religiose, assicurare anche in questo modo la coesione complessiva della società. Ma all'eclisse dell'ordinamento politico carolingio, all'instaurazione del sistema feudale vero e proprio, corrisponde una sostanziale paralisi delle istituzioni ecclesiastiche, che tendono a scomparire nelle istituzioni feudali, identificandosi con esse. Ed anche la predicazione scompare dalle consegne ecclesiastiche: «È probabile che nella grande maggioranza dei casi si predicasse molto male e assai poco» (Auerbach). Certo, nei monasteri benedettini si continua a predicare, ma i numerosi omeliari monastici di quel tempo arrivati sino a noi sono collezioni da ascrivere più che altro alla letteratura, con un rapporto molto mediato con la predicazione reale. Il loro carattere fondamentale non sta in ciò che viene predicato, ma in ciò che viene scritto: anche perché predicatori e pubblico si identificano sempre nelle stesse persone, i monaci chiusi nei loro chiostri. Per questo non è neppure il caso di riprodurre un testo di Ambrogio Autperto (834-837), o di Bertario (856-883), abati di Montecassino, oppure di Attone, vescovo di Vercelli (934-960 circa), oppure di Opero, abate di Lucedio (metà del secolo XII).

In sintonia con la «rinascita» della società occidentale, iniziata nella seconda metà del secolo X e agli inizi del secolo XI, si assiste ad una ripresa di iniziative negli ambienti ecclesiastici. A Milano, alla metà del secolo XI, la predicazione viene assicurata con una certa regolarità nei più importanti periodi dell'anno liturgico (doc. 17). Questi fermenti, però, non si limitano solo ai centri urbani. Nelle campagne della Sabina compaiono monaci, che predicano passando da un villaggio all'altro (doc. 18). Ma i monaci escono dal chiuso dei loro chiostri soprattutto per appoggiare la lotta degli ambienti riformatori, volta a togliere di mezzo gli ecclesiastici, vescovi e chierici, che non osservano il celibato e che sono arrivati agli ordini sacri passando una trafila feudale, la quale ha reso un episcopato o un beneficio parrocchiale una vera e propria rendita. Monaci come lo sconosciuto personaggio che sfida a sostenere la prova del fuoco il vescovo di Lucca, Pietro Mezzabarba (doc. 19), riescono ad assicurare il sostegno popolare alla lotta per separare le istituzioni ecclesiastiche da quelle feudali. Quando però la riforma gregoriana — così definita dal suo maggiore esponente, papa Gregorio VII — si impadronisce del vertice della chiesa, i monaci predicatori itineranti sono costretti a rientrare nei loro chiostri (doc. 20), così come i movimenti popolari, che avevano dato un appoggio di primaria importanza all'affermazione della riforma stessa, vengono ricacciati ai margini e nell'eresia (si veda la seconda sezione).

I trattatisti monastici a più riprese cercano di riaffermare che i monaci debbono e possono entrare ad occuparsi della cura d'anime, per la lunga tradizione secolare che incarnano (doc. 23), a differenza dei canonici regolari. Questi sono chierici addetti al ministero parrocchiale i quali, soprattutto a partire dagli anni 1020-1030, intraprendono forme di vita comune, assumendo una regola in base alla quale rinunciano alla proprietà individuale dei beni per mettersi al servizio dei fedeli. La diffusione capillare delle canoniche regolari all'interno del tessuto ecclesiastico mette di fatto in discussione la preminenza dei monaci, sino ad allora indiscussa: ed i monaci rivendicano di continuare ad esercitare la predicazione, perché essi soli, e non i chierici regolari, incarnano l'ideale della vita vere apostolica, della imitazione degli apostoli che abilita alla predicazione e alla amministrazione dei sacramenti (doc. 21).

In realtà, se quello dell'ideale apostolico è il centro ideologico della controversia tra chierici regolari e monaci, la loro contrapposizione è fatta anche di problemi molto più concreti, e talora meschini: assicurarsi l'uso di un campanile, la cura di una parrocchia e il godimento dei suoi benefici, raccogliere le offerte dei fedeli (doc. 25). Alla prova dei fatti, però, monaci e canonici si mostrano incapaci di mettere in atto sino in fondo gli ideali religiosi in nome dei quali combattono: nella pratica quotidiana non predicano più né gli uni né gli altri e l'ideale della vita religiosa vissuta ad imitazione degli apostoli passa dagli ambienti chiericali ai movimenti laicali del secolo XII.

A partire dagli anni 1070-1080 inizia l'affermazione della riforma «gregoriana», che si svolge però quasi esclusivamente sul piano delle istituzioni: alla fine della lotta vittoriosa per ripristinare l'autorità dei vescovi sulle loro diocesi, minata alla base dalla diffusione dei privilegi di esenzione dalla giurisdizione episcopale rilasciati ai monasteri, e per riaffermare la validità dell'ordinamento plebano, disintegrato almeno in parte dalle spinte centri-fughe delle «chiese private», non si assiste alla proposizione di nuove forme di cura d'anime, all'attuazione di nuove forme di predicazione e di vita religiosa. L'obiettivo dei riformatori gregoriani è di ricollocare ognuno degli ordines, in cui era divisa la società del tempo, al suo posto: i monaci nei chiostri, dediti alla contemplazione; i chierici nelle parrocchie e nelle pievi, ad amministrare i sacramenti; i laici nelle proprie case, o comunque nell'ambito delle istituzioni politiche.

Le disposizioni del primo e del secondo concilio celebrati a Roma presso la chiesa del Laterano (1123 e 1139), una volta chiusa la controversia tra impero germanico e chiesa di Roma — la lotta per le investiture — cercano di sanzionare la ricostituzione dell'ordinamento territoriale della chiesa, soprattutto delle circoscrizioni pievane, ribadendo l'esclusione dei monaci dall'amministrazione dei sacramenti e dalla predicazione (doc. 22) e la necessità di un adeguato reclutamento sacerdotale, sottratto alle maglie dei vincoli feudali, da cui sortiscono preti impreparati, ed anche sposati (doc. 24).

In tutto questo non risulta assolutamente che la restaurazione ecclesiastica dell'età gregoriana e postgregoriana si sia posta il problema di un rinnovamento della vita religiosa, dalle forme della pietà e della devozione alla predicazione al popolo. Si può forse dire che, come per tutto il medioevo dei secoli IX-XII, il messaggio religioso è affidato più alle immagini, ai simboli, ai segni, che non alle parole: più che il contenuto delle prediche conta la figura di colui che predica e il luogo dove le prediche vengono tenute. Si pensi alle nuove chiese romaniche, dove il predicatore parla di fianco all'altare, che è sopraelevato rispetto alla navata della chiesa perché costruito sopra la cripta sottostante. Se già la collocazione in alto rispetto alla massa dei fedeli rende il predicatore autorevole, dietro di lui si staglia l'abside, su cui domina un'immensa figura del Cristo dipinto alla moda bizantina del Pantocrator, il signore di ogni cosa. Quanto al contenuto delle prediche, però, ci si serve ancora delle raccolte delle omelie e dei sermoni che, attraverso i raccoglitori del periodo carolingio, sono giunte nelle biblioteche ecclesiastiche dei secoli XI e XII: tenuto conto della mancata realizzazione di strutture che assicurino una adeguata preparazione culturale e teologica del clero, non si va lontano dal vero nel prospettare l'ipotesi che, nel migliore dei casi, il predicatore si limiti a volgarizzare un'omelia o un sermone patristico. Ancora agli inizi del secolo XIII un prelato di solida formazione intellettuale e famoso per l'eloquenza delle sue prediche, che suscitano un vero e proprio entusiasmo tra le folle (doc. 28), papa Innocenzo III, quando vuole essere di esempio ai chierici che non predicano, prende ostentatamente tra le mani un'omelia latina di Gregorio Magno e la volgarizza per il popolo che assiste alla celebrazione della messa (doc. 27).

Le esigenze della predicazione in volgare ai fedeli vanno però ben al di là di una pratica limitata alla proposizione, in una lingua comprensibile, di un testo complesso, redatto alcuni secoli prima avendo di mira un uditorio ben diverso e ben altra problematica religiosa: il risultato finale è che, a parte l'aspetto linguistico, essa risulta agli ascoltatori incomprensibile o almeno del tutto inattuale. Nelle aree in cui si cerca di dar vita ad una nuova forma di predicazione, maggiormente in sintonia con le esigenze spirituali del momento, questa si presenta decisamente come una forma di predicazione in volgare: in primo luogo nelle aree linguistiche in cui, nel corso dei secoli, la distanza del latino ecclesiastico dalla lingua parlata si è fatta incolmabile. In Italia è il caso del Piemonte, sensibile all'influenza dell'area culturale francese, e da cui provengono i Sermoni subalpini.

Quando, un anno prima di morire, Innocenzo raduna a Roma, nel novembre del 1215, il quarto concilio del Laterano, vi fa approvare una serie di provvedimenti con cui cerca di affrontare tutti i problemi della vita religiosa del tempo: la disciplina ecclesiastica, la riforma dei costumi del clero, l'elezione dei vescovi e l'amministrazione dei benefici ecclesiastici [1], l'esazione dei tributi, le cause canoniche, le norme relative al matrimonio, alle decime, alla simonia ed ai rapporti con gli ebrei. Vi riprende, anzi, un canone del concilio lateranense del 1179, allo scopo di assicurare un'adeguata formazione del clero per quella predicazione generale della fede cristiana richiesta dalle nuove esigenze religiose dei laici e imposta dalla concorrenza della predicazione e della propaganda di gruppi e sette eretiche (doc. 26). Questo grande disegno riformatore si scontra con una realtà profondamente sclerotizzata: i monaci sono chiusi nei loro chiostri; i canonici regolari si sono con il tempo assimilati ai monaci, dediti più allo studio e all'insegnamento che alla cura delle anime; il clero delle parrocchie viene reclutato tra gli strati inferiori della società, di cui condivide l'ignoranza e la miseria, e dà vita ad un vero e proprio bracciantato ecclesiastico, quasi incapace di assicurare la stessa ordinaria amministrazione dei sacramenti. Sono i nuovi ordini religiosi, sorti sia all'interno del movimento religioso laicale del secolo XII sia in contrapposizione alle sue spinte centrifughe verso l'eresia, che apriranno nei primi decenni del secolo XIII, grazie a nuove forme di reclutamento, una vera e propria età della predicazione ecclesiastica medievale.

[1] Il beneficio ecclesiastico era il patrimonio costituito per fornire, con le sue rendite, il sostentamento necessario ad un ente ecclesiastico (monastero, pieve, parrocchia, ecc.).

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Ultimo aggiornamento: 01/03/2006