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Didattica

Fonti

Predicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)

a cura di Roberto Rusconi

© 1981-2006 – Roberto Rusconi


NOTA CONCLUSIVA

I documenti relativi alla storia della predicazione in Italia, raccolti e tradotti nelle pagine precedenti, hanno probabilmente reso più chiari alcuni accenni e alcuni spunti presenti nelle indicazioni premesse all'inizio di questo volume.
Un approccio alla predicazione in Italia nel periodo che va dagli inizi dell'impero carolingio all'affermazione della Controriforma deve mirare a ricostruire una storia integrale della predicazione nel suo contesto specifico. È facile, infatti, che ai documenti che la riguardano ci si rivolga come a raccolte di materiali utili per altri argomenti specifici: atteggiamento favorito dalla realtà stessa della predicazione, la quale si pone, per definizione e per ruolo, al crocevia degli avvenimenti. Per fare alcuni esempi: le prediche — e la documentazione sulle prediche, come cronache, lettere, diari, ecc. — possono essere utilizzate, e lo sono di fatto, da coloro che studiano l'etica economica medievale, le forme di pietà e di devozione, la propaganda antisemita, e così via.
Alcune discipline si sono ampiamente occupate della predicazione, per tradizione e per interesse specifico: in particolare, la storia della letteratura italiana e la storia della lingua italiana. Per esse, infatti, le raccolte di prediche in volgare, stese dagli autori o riportate dagli ascoltatori, costituiscono un materiale estremamente ricco di contenuti: è certo fuor di dubbio l'importanza della predicazione nell'uso della lingua volgare, dal momento in cui il rapporto tra chierici e laici nell'ambito pastorale fa obbligatoriamente uso di questa lingua, almeno a partire dagli inizi del IX secolo.
Peraltro, la riscoperta della predicazione in volgare, avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, non solo in Italia, ma anche in Germania e in Francia, appare marcata da un interesse storiografico impregnato di nazionalismo culturale: si va alla ricerca, nel medioevo, dei «monumenti» di una specifica lingua e cultura nazionali, distinti dalla comune lingua e cultura latina dell'élite dominante.
Questo approccio, legato al clima politico e culturale della seconda metà dell'800 e degli inizi del '900, accantona il problema fondamentale della predicazione in volgare nel medioevo e agli inizi dell'età moderna: la predica al popolo è sempre volgarizzamento di un testo redatto in latino, o comunque di un testo predisposto da un chierico che in latino ha acquisito la sua formazione religiosa, teologica e culturale. Questo è vero in particolare agli inizi del IX secolo: «Come nella Romània, anche nella Germania la lingua superiore della cultura e della chiesa era il latino tradizionale; ma là, a differenza di quel che accadeva nei paesi romanici, la parlata corrente non era una modificazione del latino, non poteva in alcun modo essere sentita come un livello diverso della stessa lingua: era una lingua autonoma. Per rendere accessibile indistintamente a tutti gli strati della popolazione una qualsiasi manifestazione di pensiero o di volontà elaborata in sede colta — poniamo, per fare il più semplice tra gli esempi, una predica religiosa — occorreva in paese germanico, "tradurla" in tedesco. Perché dunque in paese romanico non si sarebbe dovuto far ricorso, per il medesimo scopo, ad un'analoga "traduzione" in volgare?». Ed infatti, «nella predicazione e nei giuramenti, il ricorso al volgare è dettato da necessità pratica: si tratta di rendere accessibili a tutto il popolo manifestazioni di pensiero e di volontà dei ceti dirigenti» (Roncaglia).
Il presupposto indispensabile a una storia della predicazione, che sia in grado di abbracciare un periodo di otto secoli, è questa funzione di mediazione della predica, tra élite chiericale e massa dei fedeli. D'altra parte, non bisogna neppure perdere di vista il fatto che questo processo di «traduzione» muta le sue forme in relazione al mutare delle condizioni complessive della società e delle istituzioni ecclesiastiche, che in essa operano: «La predicazione volgare, avviata nell'Alto Medioevo come semplice traduzione al popolo dei testi più usuali della Scrittura, si trasforma nell'età dei Mendicanti in un raffinato strumento pedagogico, che suscita nella coscienza degli uditori nuovi orizzonti di attesa, sia religiosa che culturale, dove trova pieno significato la febbrile operosità dei volgarizzatori. Proprio questa convergenza di predicazione e traduzione rappresenta un caso tipico di quella dinamica di rinnovamento per trasmissione verticale di contenuti, che caratterizza la cultura medievale» (Delcorno).
Predicazione come volgarizzamento, dunque, anche nell'età delle grandi raccolte di prediche volgari riportate dagli uditori, come nel caso del domenicano Giordano da Pisa e del francescano Bernardino da Siena: al di sotto di un'esposizione certo vivace e arguta, ed anche apparentemente spontanea, a malapena si cela, infatti, la pesante articolazione scolastica del sermone. E quando è possibile effettuare una verifica sugli appunti e sugli schemi latini usati da un singolo predicatore, si constata che la predica in volgare ne è davvero una semplice traduzione, sia pure con le digressioni che l'improvvisazione dell'oratore ed il suo senso del pubblico richiedono.
Anche quando si arriva all'età moderna, a raccolte di prediche a stampa scritte direttamente in lingua italiana, non muta l'ottica dell'operazione. Francesco Panigarola, infatti, postula l'uso anche nella predicazione della lingua italiana «uniformata» dai grammatici, proprio per assicurare una più rigorosa «traduzione» delle dottrine religiose e teologiche stabilite dai decreti del concilio di Trento e dalla trattatistica della Controriforma: che sono sempre rigidamente formulate in latino.
È necessario insistere molto su questa precisazione, perché si tratta di quel denominatore comune che non viene mai meno, per quanto profonde possano essere le trasformazioni intervenute nelle istituzioni ecclesiastiche in un arco di tempo tanto vasto, quale quello che separa l'ordinamento signorile e feudale dall'affermazione dello stato moderno e delle monarchie assolute. Non interessa certo rivedere puntualmente in queste pagine in che modo e con quali ritmi le istituzioni ecclesiastiche si adeguino alle trasformazioni della società. Importa, però, tenere a mente che questo processo interviene direttamente nel modificare la pratica della predicazione, proprio perché ne modifica i due elementi essenziali, relativi alla figura del predicatore: il reclutamento sociale del clero, diocesano e degli ordini religiosi, e la sua formazione religiosa, culturale e teologica. Entrambi questi elementi sono infatti il filtro attraverso cui passa ogni iniziativa ecclesiastica, che dalla gerarchia debba arrivare alla massa dei fedeli.
La predicazione è quindi un fatto di chierici, un'iniziativa delle istituzioni ecclesiastiche, le quali in questo ambito svolgono una funzione di mediazione culturale e ideologica di massa che, in questo arco cronologico (ma in pratica per tutta l'età pre-industriale, e nelle aree rurali ancora per tutto l'800), nessun'altra istituzione è in grado di assicurare.
Non si tratta però di un processo indifferenziato, proprio perché si inserisce in contesti storici tutt'altro che statici ed assimilabili. Proviamo ad indicarne le linee più essenziali. Al tempo di Gregorio Magno (590-604), un libro come la Regola pastorale — non a caso il testo fondamentale del ministero pastorale e della predicazione per tutto l'alto medioevo — propone esplicitamente la funzione del clero come agente della mediazione ecclesiastica dei dislivelli culturali esistenti in una società in transizione: «Conseguente e articolata visione della società cristiana, rigidamente distinta in categorie sociali e culturali, a ciascuna delle quali doveva corrispondere un diverso modo di intendere e di praticare il cristianesimo. L'insegnamento non può essere uguale per tutti né nelle forme né nei contenuti, dovendo adattarsi non solo alla psicologia, ma anche allo stato sociale di ognuno» (Boesch Gajano).
Il passo successivo è costituito dalle disposizioni carolinge in materia di «traduzione» delle prediche, allo scopo di assicurare un connettivo ideologico all'affermazione delle istituzioni imperiali: «Il volgare cui il concilio di Tours conferisce un crisma di ufficialità si definisce propriamente come "lingua intelligibile al volgo"» (Roncaglia).
La funzione di mediazione nell'attività dei predicatori si ripropone in maniera prepotente con i nuovi ordini mendicanti a partire dagli inizi del '200: «Nel XIII secolo, la nuova predicazione destinata ai laici e sviluppata specialmente negli Ordini Mendicanti, si colloca immediatamente in questa relazione tra livelli di cultura: i predicatori "volgarizzano" i concetti fondamentali della cultura clericale, ma prestano anche attenzione alle parole dei laici di cui sono i confessori, a cui spesso restituiscono dall'alto del pulpito, trasformati in exempla, i racconti ricevuti» (Schmitt). E questo è uno dei modi in cui la mediazione diviene sostanzialmente manipolazione: «Si può supporre che proprio in ciò consistesse una delle condizioni dell'efficacia dell'exemplum, che rinviava agli uditori della predica un racconto diventato altro pur rimanendo apparentemente lo stesso. Un vero e proprio "cerchio magico", che ci fornisce un esempio evidente delle astuzie dell'ideologia» (Schmitt).
Grazie al loro più ampio reclutamento di personale ecclesiastico, in particolare all'interno dei ceti emergenti nella nuova società urbana e mercantile, gli ordini mendicanti assicurano una più agile funzione di mediazione ideologica alla predica. Certo, è possibile riscontrare nella predicazione rallentamenti non casuali nel corso del '300 ed una altrettanto non casuale accelerazione a partire dagli inizi del '400: non solo per una serie di intricate questioni legate alle vicende interne dei singoli ordini e delle istituzioni ecclesiastiche, ma anche in stretta connessione con le modifiche che incontra la necessità di produrre una ideologia di massa in periodi di complesse trasformazioni, nel momento del passaggio all'età moderna.
In un clima di più accentuata attività intellettuale, e ormai non solo negli ambienti ecclesiastici, appare più evidente la penetrazione nell'ambito del messaggio religioso di modelli culturali che si vanno elaborando nella società e nelle istituzioni. Tra '200 e '400 non vi è dubbio che l'ideale religioso proposto nelle prediche, pur sempre prodotte da chierici che studiano in latino sui loro manuali e le preparano di conseguenza in latino, è perfettamente omogeneo alla mentalità che il ceto dominante, mercantile-borghese, ha elaborato ed esprime: «Questo [una sorta di contabilità della vita spirituale] è quindi l'aspetto più macroscopico di un recepimento e modellamento del fatto cristiano da parte di una mentalità mercantesca. Ma anche al di là di questa concezione in termini di scambio — di beni materiali (elemosine) o spirituali (atti di culto) contro altri beni, materiali o spirituali che siano: ché gli spirituali sembrano configurarsi poi sostanzialmente in termini di "sicurezza", nell'altra come in questa vita, senza che scatti quindi una precisa consapevolezza di alterità di piani. Il discorso potrebbe forse essere spinto più oltre […] , molto più all'interno del fatto religioso, nel senso della proiezione di una mentalità di calcolo nell'ambito della vita ascetica, che viene mutuando il suo linguaggio dal linguaggio dei libri di conti» (Zafarana).
Peraltro, proprio nel momento in cui si accentua l'articolazione della società ed iniziano ad apparire centri culturali autonomi dalle istituzioni ecclesiastiche — ad esempio gli Studia o università — e nell'ambito dell'espressione scritta della cultura e dei suoi modelli appare una letteratura laica, cioè non ecclesiastica, si consolida la «semantica della sottigliezza». È un problema che si connette direttamente con le regole che, nella società medievale, definiscono la circolazione del discorso: «La conoscenza religiosa è dunque diffusa universalmente, ma anche distribuita socialmente secondo linee che non separano solo laici da chierici, ma passano anche all'interno di queste due società. Un quadro di questo genere presuppone un forte controllo della circolazione del discorso religioso da parte della società ecclesiastica. […] Agisce anche la preoccupazione che i libri della Scrittura e dei dottori siano usati dai fedeli, ai quali […] si raccomandano piuttosto nozioni elementari, di tipo catechistico, che conoscenze religiose» (Bruni). Siamo in sostanza di fronte ad una vera e propria politica culturale ecclesiastica, che dispiega in pieno i suoi effetti nel corso del secolo XVI, in quell'irrigidimento delle istituzioni della chiesa favorito dalla contrapposizione con la Riforma protestante.
I nuovi fermenti che, agli inizi del secolo XVI, la predicazione dai pulpiti propone direttamente all'attenzione dei fedeli — si tratti dell'aspirazione ad una riforma religiosa fondata sulla «dechiaratione de l'Evangelio», oppure di una preoccupazione per le sorti dell'anima individuale maturata attraverso una lettura radicalizzata delle opere teologiche di sant'Agostino, oppure, infine, di una penetrazione in Italia delle idee «lutherane» provenienti d'oltralpe —, questo fervore sospetto di frati e di predicatori mettono in allarme la gerarchia ecclesiastica italiana. Al suo interno gli ambienti curiali romani imboccano senza esitazione la strada maestra del moderatismo ecclesiastico, il criterio della duplice verità. E su questa linea si trovano concordi anche gli ambienti che aspirano a una riforma religiosa, i rappresentanti dell'Evangelismo italiano: «Il limite che la sensibilità dell'Evangelismo avvertiva come invalicabile può essere, in via di ipotesi, tracciato qui, nel passaggio da una discussione teologica ampia e spregiudicata nell'ambito di una cerchia ristretta — che però non incideva nella pratica di un'azione di riforma morale e disciplinare saldamente ancorata a criteri tradizionali — alla traduzione in pratica di certe posizioni teologiche, come la negazione del libero arbitrio» (Prosperi). La vita religiosa ha quindi due volti: il dibattito religioso, riservato all'élite chiericale, la predicazione in volgare riservata al popolo cristiano, in una estrema semplificazione di dottrine e contenuti ascetici.
Questa analisi conclusiva della predicazione nella società italiana, nei secoli che vanno dall'inizio del IX alla fine del XVI, potrebbe essere ripercorsa anche in senso inverso: vale a dire, non solo dal punto di vista dei predicatori e della predicazione — nella sostanza quella «ufficiale» —, ossia dei chierici, ma da quello degli ascoltatori delle prediche, ossia dei laici. Il rapporto tra queste due realtà è estremamente complesso, specie per quanto concerne il ruolo di mediazione ideologica che i chierici si assumono: «La contaminazione dell'idea chiericale e della credenza popolare — essendo considerato "popolare", in quest'epoca, press'a poco l'equivalente di "laico" — lascia sussistere la differenza e anche l'opposizione tra due mentalità e due sensibilità. Da un lato quelle della cultura chiericale, abbastanza agguerrita per affermare il trionfo del bene sul male e imporre delle distinzioni nette. Dall'altro quelle della cultura folklorica tradizionalmente prudente al punto di preferire, di fronte a forze che non abbandonano la loro ambiguità, dei procedimenti primitivi ma anch'essi equivoci, astuti» (Le Goff).
Nell'arco dei secoli che ci interessano, il ruolo dei laici nell'istituzione ecclesiastica, nella pastorale, nella predica, resta per definizione un ruolo passivo, di ascoltatore, il quale è tenuto a recepire i modelli che gli vengono proposti: grosso modo, la vita religiosa della popolazione in questi secoli è compresa tra il pulpito e il confessionale. Dal primo vengono proposti i modelli di comportamento religioso — e anche sociale — cui adeguarsi, nel secondo si verifica l'interiorizzazione del modello e l'adesione ad esso.
Questa staticità di ruoli può essere modificata solo sottraendo il testo della Scrittura al monopolio dei chierici e alla loro interpretazione. Il volgarizzamento degli scritti biblici — la cui diffusione in latino ne limita necessariamente la conoscenza all'élite chiericale — è una rivendicazione centrale dei gruppi che, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, lottano per rivendicare il diritto dei laici a predicare.
In realtà, in questo modo si pongono le premesse di un vero e proprio ribaltamento delle istituzioni ecclesiastiche, della fondamentale distinzione tra chierici e laici — su cui esse riposano —, della necessità della mediazione della chiesa per la salvezza eterna. Per questa ragione tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo la gerarchia della chiesa proibisce questi volgarizzamenti biblici: «Il timore era che da quella lettura e da quello studio nascesse un'attività di discussione, di predicazione e di insegnamento al di fuori dei quadri gerarchici costituiti, secondo quella linea che già la decretale Ad abolendam [1184] aveva individuato come uno dei connotati dell'eresia. […] Le norme successive, pur senza proibire [formalmente] la traduzione e la lettura della Bibbia, si sforzarono di riportarne il pieno ed esclusivo controllo alla gerarchia, vietando categoricamente ai laici di discutere in pubblico o in privato intorno alla fede cattolica» (Miccoli).
Ancora agli inizi del secolo XVI, nella diffusione di traduzioni in volgare della Bibbia le autorità ecclesiastiche in Italia non mancano di individuare una delle principali cause dell'«heresia»: «Non si poteva perciò badare all'utilità dei pochi, che avrebbero potuto trarre profitto da quelle traduzioni, trascurando il grave danno per i molti. Quei decreti e quelle proibizioni, proprio perché miravano a privare le masse di uno strumento autonomo di crescita e di maturazione, costituirono anche un mezzo per mantenerle in una posizione socialmente ed intellettualmente subalterna e per rinsaldare la propria alleanza con i poteri costituiti, nonostante l'ondata anticlericale che sembrava dovesse tutto travolgere» (Miccoli).
Nel tentativo di gettare ponti che facciano comprendere quali legami intercorrano tra una attività ecclesiastica, quale è la predicazione, ed il complesso della società al cui interno essa viene esercitata, dovrebbe fare riflettere il fatto che i decenni tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo e quelli all'inizio del secolo XVI sono momenti di transizione, nel complesso passaggio, prima all'affermazione delle nuove istituzioni comunali urbane, dopo all'instaurazione dello stato territoriale moderno. Fermenti religiosi e chiusure istituzionali si inseriscono perfettamente in questa dinamica, sia pure nelle forme proprie della vita religiosa e della chiesa.

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Ultimo aggiornamento: 01/03/2006