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Didattica > Fonti > Predicazione e vita religiosa > V, 8 | |||||||||
FontiPredicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)a cura di Roberto Rusconi © 1981-2006 – Roberto Rusconi Sezione V - La Controriforma e il concilio di Trento8. Il decreto del concilio di Trento sulla predicazioneAll'apertura del concilio, nel 1545, uno dei primi problemi ad essere affrontati è quello del ruolo della Scrittura nella chiesa: nella lettura — che è nello stesso tempo studio — e nella predicazione. Nel testo del decreto Super lectione et praedicatione, approvato nel corso della quinta sessione conciliare, il 17 giugno 1546, appare nettamente l'influenza delle correnti dell'Evangelismo, nel porre la predicazione sullo stesso piano della lettura e dell'insegnamento della Scrittura. In pratica, dopo questa dichiarazione di principio, il decreto però cerca di mediare le spinte contrastanti che il dibattito conciliare ha fatto emergere intorno a due punti: l'importanza della predicazione come obbligo del clero parrocchiale in cura d'anime e la questione dei «privilegi» degli ordini mendicanti — ossia del loro diritto, riconosciuto dai pontefici ed ampiamente consolidato nel tempo, a predicare senza essere sottoposti ad alcun controllo da parte dei vescovi nelle singole diocesi. Nel testo che segue riproduciamo la parte centrale del decreto. Fonte: Conciliorum Oecumenicorum decreta cit., p. 645. La traduzione è mia. Dal momento che, in verità, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione dell'Evangelo che la sua lettura — e questo è compito precipuo dei vescovi — lo stesso santo sinodo ha stabilito e decretato che tutti i vescovi, arcivescovi, primati [1] e tutti gli altri prelati della chiesa siano tenuti, se non siano impediti legittimamente, a predicare di persona il santo Evangelo di Gesù Cristo. Se peraltro accadesse che i vescovi e gli altri detti sopra fossero trattenuti da un impedimento legittimo, siano tenuti, secondo la forma stabilita dal concilio generale, ad assumere uomini adatti ad eseguire in maniera salutare un siffatto compito di predicare. Se taluno poi non si sarà curato di adempiere a questo precetto, sia sottoposto a pena severa. Anche gli arcipreti, i pievani e tutti coloro che in qualunque modo ottengono chiese parrocchiali oppure altre chiese, le quali comportano la cura delle anime, almeno nelle domeniche e nelle festività solenni o personalmente o per mezzo di altre persone idonee, nel caso essi ne siano impediti da una causa legittima, devono nutrire le popolazioni ad essi affidate con parole di salvezza, secondo la propria e la loro capacità, insegnando tutto ciò che a tutti è necessario sapere per la salvezza, e rendendoli edotti, con parole brevi e facili, dei vizi, che devono evitare, e delle virtù, che devono perseguire, al fine di sfuggire alla pena eterna e di ottenere la gloria dei cieli. Pertanto, se taluno tra loro trascura di adempiere a tale compito, ancorché pretendesse di essere esente per qualsiasi ragione dalla giurisdizione del vescovo, oppure ancorché si dicesse che le chiese sono esenti per un qualsiasi motivo oppure per caso annesse o unite a qualche monastero — anche collocato fuori della diocesi —, purché di fatto si trovino nella diocesi, non venga in tal caso meno la provvida sollecitudine pastorale del vescovo, affinché non si avveri quel passo: «I fanciulli domandano pane, non c'è chi lo porga loro». Pertanto, nel caso in cui, dopo essere stati ammoniti dal vescovo, vengano meno al loro compito per un periodo di tre mesi, mediante censure ecclesiastiche o in altro modo vengano costretti, ad arbitrio dello stesso vescovo, in modo tale che, se a quest'ultimo sembri così essere conveniente, venga anche pagata una dignitosa ricompensa, tratta dai frutti dei benefici, ad un altro che svolga questa prestazione, fino a che lo stesso originario responsabile, pentito, non assolva al proprio compito. [1] Titolo onorifico di vescovi la cui autorità si estende a intere regioni o nazioni. |
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