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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana > Brani critici, 7 | |||||||||
StrumentiLa città medievale italianadi Gina Fasoli e Francesca Bocchi © 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi Brani critici7. Vescovi e città(E. DUPRÈ THESEIDER, Problemi della città nell'alto Medioevo, in La città nell'alto Medioevo, «VI Settimena di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo», 1959, pp. 22, 35-36). La città non è una semplice «macchina per abitare», un habitaculum, un riparo temporaneo, ma è soprattutto un ambiente che dall'uomo è costruito e che a sua volta impronta di sé l’uomo. E l’abitatore, attraverso una continuità di stanziamento in loco, di vita condotta insieme agli altri, di generazione in generazione, finisce per sentire per la città un vero legame affettivo, ch’è evidente frutto della tradizione. Così la città, da semplice fatto fisico, diviene per gradi uno stato d'animo, un fatto di coscienza: possiamo parlare di un «senso della città». Da ultimo essa è oggetto di cosciente adesione: non solo si «è» suoi abitatori, ma si «vuole essere» suoi cittadini, identificarsi con essa, adoperarsi per la sua potenza e grandezza. Su tutta l'estensione della Romània, dove più dove meno, la presenza del vescovo nella città ci testimonia della sua antichità, della persistenza della sua vita e della sua funzione. Tanto è vero che il termine stesso di civitas, se scompare in parecchi dei centri urbani, in seguito allo scadimento generale della vita cittadina, si mantiene sempre e solo per le città vescovili. E anche più tardi la presenza di un vescovo e di una sede vescovile appare come il connotato necessario e sufficiente perché una città sia considerata pienamente tale; e la concessione della dignità episcopale può far salire un luogo oscuro sino al grado di città. Non so se, almeno nell'alto Medioevo, la residenza di un sovrano o principe abbia mai ottenuto tanto. Assai stretto è il legame tra il vescovo e la città. È ben noto come egli, fin dal IV secolo, eletto dalla cittadinanza ne sia virtualmente il capo, l'unico che ne abbia tutta la fiducia, assai più che non i rappresentanti del potere sovrano, contro i quali egli anzi più volte protegge la città: ne abbondano le prove presso Gregorio di Tours. La cittadinanza si riconosce nel proprio vescovo e gli è fermamente devota: quando il vescovo Massimo di Torino, che vive ai tempi di Attila, abbandona temporaneamente la città, la vita religiosa in essa si arresta e forse anche si rallenta quella civile. Ma la presenza del vescovo agisce anche potenziando le più tipiche funzioni vitali della città. Poiché la diocesi ricalca entro limiti abbastanza precisi la civitas, il centro cittadino, in quanto sede del vescovo e della chiesa «sediale» o «cattedrale», è il centro obbligato ed il punto unico di riferimento della vita religiosa e sacramentale di tutti i fedeli del territorio. È ben evidente quanto ciò giovi all’efficienza della sua funzione coordinatrice, che non si deve essere interrotta sotto questo aspetto nemmeno quando, in tempi particolarmente duri, ogni altro motivo di attrazione poteva esser cessato. Tutto questo è reso possibile dal fatto, di notevole peso, che il vescovo è, per la natura medesima del suo ministero, stabilmente residente nella città, mentre il rappresentante laico del potere sovrano appare sempre in viaggio attraverso la zona della propria giurisdizione. Tale continuità di residenza del vescovo acquista anche un preciso valore poleogenetico. A mano a mano che il vescovo viene acquistando sempre più ricchi poteri immunitari e giurisdizionali, oltre a essere a capo di un forte patrimonio fondiario, per questi motivi egli attira su di sé e sulla città molteplici interessi e vi fa confluire nuovi abitanti. Tanto di più poi in Italia, dove, col X secolo, il conte abbandona del tutto la città per stabilirsi nella campagna (nel comitatus, il «contado» ), ed il vescovo finisce per agire come un vero e proprio conte, anche là dove non ottiene dall'imperatore il titolo di vescovo-conte. |
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