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      Scrittori religiosi del Duecento
        di Giorgio Petrocchi 
        © 1974 – Giorgio Petrocchi 
	   
        
		
        
        13. Iacopone da Todi
        Iacopo de' Benedetti nacque a Todi tra  il 1230 e il 1240, di famiglia nobile. Avviato agli studi, si addottorà in  legge ed esercità la professione di notaio. Sposò(forse nel 1267)  una Vanna di Bernardino di Guidone, della famiglia dei conti di Coldimezzo.  Secondo una leggenda, condusse vita godereccia, e la  conversione giunse improvvisa con la morte della moglie, avvenuta  tragicamente l'anno dopo il matrimonio, durante una festa. 
        Per dieci anni condusse vita di  penitenza, come egli stesso ci dice, e non a da escludere  che proprio in questo periodo entrasse in contatto con qualche fraternita di  Disciplinati, da questa vicinanda traendo interesse  per le laude. Infine, nel 1278, chiese di entrare nell'ordine dei Frati Minori, dove fu ammesso  dopo aver superato prove e aver vinto, probabilmente,  l'iniziale diffidenza di qualche superiore. Fu prate laico nel convento di Pontanelli, presso Terni, e certo qui si diede a  studiare teologia e filosofia, entrò in contatto coi dotti  dell'Ordine e coi personaggi piu cospicui, militando subito  nella fazione degli Spirituali e celebrando nelle sue laude gli ideali di  carita e di povertàa assoluta, scagliandosi contro la corruzione dell'Ordine e  le mene riformatrici dei Conventuali. A Roma  (probabilmente dal 1288) visse  direttamente le vicende delle persecuzioni inflitte agli Osservanti, l'imprigionamento di molti  d'essi, poi la liberazione e l'esilio  in Cilicia. 
        Quando venne eletto al soglio pontificio Pietro da  Morrone, col nome di Celestino V,  Iacopone gli indirizzò una forte apostrofe,  incitandolo a mantener fede agli ideali di povertà che il monaco abruzzese  aveva per tanti anni predicato, ma non senza qualche  espressione di sfiducia. 
                  Dopo  l'abdicazione di Celestino, il nuovo papa, Bonifacio VIII, dichiarò decadute le  disposizioni favorevoli agli Spirituali. Iacopone,  che si trovava a Palestrina e manteneva rapporti con i perseguitati e con la  comunità dei Pauperes eremitae domini Celestini (indipendente dai Celestini propriamente detti, e formata  dai seguaci del Clareno), unitosi ai cardinali Iacopo e Pietro  Colonna firmò il manifesto (a Lunghezza, il 10 maggio del 1297),  con cui si dichiarava decaduto Bonifacio e ci si appellava  a un Concilio. Tredici giorni dopo il papa scomunicava i  ribelli con la bolla Lapis abscissus e iniziava l'assedio di  Palestrina. Un anno e mezzo i Colonnesi e i loro seguaci  resistettero; e in questo periodo Iacopone lanciò al papa la sua  fierissima sfida con l'epistola in versi O  papa Bonifazio, molt'hai iocato al monno (più tardi il  componimento venne rimaneggiato). Nel settembre del  1298 Palestrina cadeva: Iacopone veniva processato e  imprigionato nel sotterraneo di un convento (si  pensa a quello di San Fortunato a Todi, ma senza certezza; comunque non nella  rocca di Castel San Pietro, sopra Palestrina, e ancor meno in un carcere di Roma). 
        Bonifacio VIII non perdonò mai il frate ribelle, e  Iacopone dovette attendere la morte del nemico e la  successione alla tiara di Benedetto XI (fine 1303), per poser  uscire dal carcere. Si ritirà nel convento di San Lorenzo di  Collazzone (tra Perugia e Todi) ove venne a  morte, quasi certamente il giorno di Natale del 1306. 
         
        I [1] 
         
         Povertade ennamorata, 
        grande è la tua signoria.  
         Mia  è Francia ed Inghilterra, 
          enfra mare aio gran terra; 
          nulla  me se move guerra, 
        sì la  tengo en mia bailia.  
         Mia è la terra de Sassogna, 
          mia  è la terra de Vascogna, 
          mia è la terra de Borgogna 
        con  tutta la Normannia.  
         Mio è 'l renno  Teotonicoro 
        mio è lo renno Boemioro, 
        Ibernia e Dazïoro, 
        Scozia e Fresonia. 
         
         Mia è  la terra de Toscana, 
          mia è la valle Spoletana, 
          mia è  la marca Anconitana  
        con tutta la Schiavonia.  
         Mia  è la terra Cicigliana, 
          Calavria e Puglia piana, 
          Campagna e terra Romana 
        con tutto el pian de Lombardia.  
         Mia è Sardegna e regno Cipri, 
          Corseca e quel de  Criti, 
        de lò da mar gente enfinite, 
        che non saccio là 've  stia. 
         
         Medi,  Persi ed Elamiti, 
          Iacomini e Nestoriti, 
          Iurgiani,  Etiopiti, 
        India  e Barbaria.  
                  Le terre ho  date a lavoranno, 
          a li vassalli a coltivanno: 
          li frutti dono en anno en anno, 
        tant'è la mia cortesia.  
         Terra, erbe  con lor coluri, 
          arbori,  frutti con sapuri, 
          bestie, mie serveturi, 
        tutti en mia  bevolcaria.  
         Acque, fiumi,  lachi e mare, 
          pescetelli en  lor notate, 
        aere, venti,  occei volare, 
        tutti me fo  giollaria. 
         
         Luna, sole,  cielo e stelle 
        fra i miei  tesauri non so' covelle: 
        de sopre al ciel si sto quelle 
        che tengon la  mia melodia. 
         
         Puoi che Deo ha  lo mio velle, 
          possessor d'onnechevelle, 
          le mie ale ho  tante penne, 
        de terra en ciel non m'e via.  
         Poi '1 mio  volere a Dio è dato, 
          possessore  d'onne stato, 
          en loro amore eo trasformato; 
        ennamorata cortesia.  
         II  
         Plange la Chesia,                         plange e dolora, 
        sente fortura                           – de pessimo stato.  
        «O nobilissima                            mamma che piagni, 
          mostri che senti                      dolor motto magni: 
          ennarrame 'l modo                    perchè tanto lagni, 
        che sì duro pianto                      fai  esmesurato ».  
         « Figlio, io sì piango,                   ché  m'aio anvito: 
          veiome mortto                              pat' e marito; 
          figli, fratelli,                            neputi ho  smarrito, 
          onne mio amico                       è preso e legato. 
         
        So' circundata                              da figli bastardi: 
          en onne mia pugna                   se mustra codardi. 
         Li miei ligitimi,                          spade  nè dardi, 
          lo for coraio                                  non era mutato.  
         Li miei ligitimi                          era 'n  concorda, 
          veio i bastardi                            pin de discorda: 
          la gente enfedele                        me chiama la lorda 
          per lo rio essempio                   c'ho semenato.  
         Veio esbannita                          la povertate: 
          null'è che cure                       se no 'n degnetate. 
         Li miei ligitimi                      en  asperetate, 
          tutto lo monno                      lo' fo conculcato.  
         Auro ed argento                       ho rebannito: 
          fatt' ho i nimici                      con  for gran convito; 
          onne buon use                        da loro è fuggito, 
          donne el mio pianto               con  granne eiulato. 
         
         O' so' li patri                              plini de  fede? 
         Null' è che cure                    morir l'om me vede. 
         La Tepedezza                        m'ha preso ed  occide, 
          el mio dolore                        non è  corrottato. 
         
         O' so' i profeti                               plin de  speranza? 
         Null' è che cure                     en  mia vedovanza. 
         Presonzione                                   pres' ha  baldanza, 
          tutto lo monno                      po' lei s'è rizzato. 
         
         o' so' l'appostoli                          pin de fervore? 
         Null' è che cure                        en  mio dolore: 
          escito m'è scontra                     lo  Propio Amore 
          e ià non veio                           che i sia contrastato.  
         O' so' li martiri                            pin de fortezza? 
         Non è chi cure                       en  mia vedovezza. 
          Escita m'è scontra                         l'Agevelezza, 
          el mio fervore                         sì ha nichilato.  
         O' so' i prelati                         iusti e fervente, 
          che la lor vita                    sanava la gente? 
        Escit' è la Pompa,              grossura potente, 
          e sì nobel ordene                        m'ha maculato. 
         
         O' so' i dotturi                          plin de prudenza? 
         Multi ne veio                        saliti  en escienza, 
          ma la for vita                                   non m'ha convegnenza, 
          dato m'ho calci                                        che 'l cor m'ho accorato.  
          O relïusi                                      en temperamento, 
          granne de vui                           avea piacemento. 
          Or vo cercanno                              onne  convento: 
          pochi ne trovo                            en cui sia consolato.  
          O pace amara,                            co' m'hai sì afflitta! 
          Mentre fui en pugna,              sì stetti  diritta. 
           Or lo reposo                                m'ha presa e sconfitta, 
            el blando dracone                     sì m'ha venenato.  
           Null' è che vegna                             al mio corrotto, 
            en ciascun stato                      sì m'e Cristo morto. 
          O vita mia,                              speranza e deporto, 
          en onne coraio                         te  veio affocato!» 
           
          III 
          O amor, devino amore, 
            amor, che non se' amato
  
            Amor, la tua amicizia 
          è piena di  letizia: 
        lo cor che t'ha assaiato.  
          O amore amativo, 
          amor  consumativo, 
          amor conservativo del cor che t'ha albergato!  
           O ferita ioiosa, 
          ferita delettosa, 
          ferita gaudiosa, chi de te è  vulnerato!  
          Amor, donne  intrasti, 
            che sì occulto passasti? 
          Nullo signo mustrasti 
            donne tu fossi entrato.  
           O amore amabele, 
            amore delettabele, 
            amore encogetabele sopr'onne  cogitato!  
           Amor, divino foco, 
            amor de riso e ioco, 
            amor, non dài a poco, 
            ch'ei ricco esmesurato.  
           Amor, con chi te poni? 
          con deiette persone; 
            e larghi gran baroni, 
            che non fa' lor mercato.  
           Tal non pare che vaglia 
            en vista una medaglia, 
            chec quasi como  paglia 
            te  dài en suo trattato.  
           Chi te crede tenere 
            per la sua scïenza avere, 
            nel cor non pò  sentire 
            che  sia lo tuo gustato.  
           Scienzia acquisita 
            mortal  sì da ferita, 
            s'ella non è vestita 
            de core umiliato.  
           Amor, tuo magisterio 
            enforma 'l desiderio, 
            ensegna l'evangelio 
            col breve  tuo ensegnato.  
           Amor, che sempre arde 
            e  i tuoi corai ennardi, 
            fa' le lor lengue darde 
        che possa onne corato.  
           Amor, la tua larghezza, 
        Amor, la gentelezza, 
        Amor la  tua recchezza 
        sopr'onne emmageriato.  
           Amore grazïoso, 
            amore delettoso, 
            amore suavetoso, 
        che 'l core hai sazïato!  
           Amor che 'nsigne l'arte 
            che guadagnìn la parte, 
            de ciel ne fai le carte, 
        en pegno te n'ei  dato.  
           Amor, fedel compagno, 
            amor che mal n'è' a  cagno, 
            de  pianto me fai bagno, 
        che pianga el mio peccato.  
           Amor dolce e suave, 
            de cielo, amor, se' clave: 
            a porto mene nave, 
        e campa el tempestato.  
           Amor, che daie luce 
            ad onnia che ha luce, 
            la luce  non è luce, 
        lume corporeato.  
           Luce luminativa, 
            luce demustrativa, 
            non vene all'amativa 
        chi non è en te luminato.  
           Amor, lo tuo effetto 
            dà lume a lo  'ntelletto, 
            demostrali l'obietto 
        de l'amativo amato.  
           Amor, lo tuo ardore 
            ad inflammar lo core 
            uniscel per amore 
        ne l'obietto encarnato.  
           Amor, vita secura, 
            ricchezza senza cura 
            più che 'n etterno dura 
        ell'ultrasmesurato.  
           Amor, che dai[e] forma 
            ad onnïia che ha forma, 
            la forma tua reforma 
        l'omo ch'è  deformato.  
           Amore puro e mondo, 
            amor saio e iocondo, 
            amore alto e profondo 
        al cur che te s'è  dato!  
           Amor largo e cortese, 
            amor con larghe spese, 
            aAmor, con mense stese 
        star lo tuo affidato.  
           Lussurïa  fetente 
            fugata de la mente, 
            de castetà lucente, 
        munditïa adornato.  
           Amor, tu èi quell'ama 
            donne lo cor te ama; 
            sitito  con gran  fama 
        è 'l tuo ennamorato.  
           Amoranza divina, 
            ai mali èi medecina: 
            tu sano onne malina, 
        non sia tanto aggravato.  
           «O lengua scottïante, 
            como si' stata usante 
            de farte tanto ennante 
        parlar de tale   stato?  
         Or pensa che n'hai detto 
          de l'amor benedetto: 
            onne lengua è 'n defetto, 
        che de lui ha parlato.  
           Si  lengua angeloro, 
            che stia  en quel gran coro, 
            parlanno de tal fòro, 
            parlara  scelenguato:
  
        ergo, co' non vergugni? 
           Nel tuo laudar lo 'mpugni, 
            lo suo laudar non  iugni, 
        'nante  l'hai blasfemato».  
           Non te posso obedire, 
            c'amor degga tacere; 
            l'amor voglio bandire, 
        fin che mo m'esce 'l fiato.  
           Non è condezïone 
            che vada per rascione, 
            che passi la stascione 
        c'amor non sia clamato.  
           Clama lengua e core: 
  «Amore, amore, amore!» 
          Chi tace el tuo  dolzore, 
            lo  cor glie sia crepato.  
           E credo che crepasse 
            lo cor che t'assaiasse: 
            si amore non clamasse, 
            trovàrese affocato.  
           IV  
           Que farai, Pier dal Morrone? 
          Ei venuto al paragone. 
           
           Vederimo el lavorato, 
            ché en cella hai  contemplato. 
          S'è 'l monno de te engannato, 
            séquita maledezzone.  
           La tua fama alta è salita, 
            en molte parte n'è  gita: 
            se  te sozzi a la finita, 
            ai bon sirai confusione.  
           Como segno a saietta, 
            tutto lo monno a te  affitta: 
            se  non ten' belancia ritta, 
            a Deo ne va appellazione.  
           Si se' auro, ferro o rame, 
            provàrite en esto  esame; 
            quign'  hai filo, lana o stame, 
            mustràrite en esta azzone.  
           Questa corte è una fucina 
            che 'l bon auro se ce  affina: 
            s'ello  tene altra ramina, 
            torna 'n cennere e 'n carbone.  
           Se l'ofizio te deletta, 
            nulla malsania è più  enfetta, 
            e ben a vita maledetta 
            perder Dio per tal boccone.  
           Granne ho avuto en te  cordoglio 
            como t'escìo de  bocca: «Voglio», 
            ché t'hai posto  iogo en coglio 
            che t'è tua donnazïone.  
           Quanno l'omo vertüoso 
            è 
            posto en loco  tempestoso, 
            sempre 'l trovi vigoroso 
            a portar ritto el gonfalone.  
           Grann' è la tua degnetate, 
            non è men la tempestate, 
            grann' è la  varietate 
            che trovari en tua mascione.  
          V  
           Que farai, fra  Iacovone? 
          Ei venuto al paragone.  
           Fusti al Monte Pelestrina 
            anno e mezzo en  desciplina:  
            loco pigliasti malina, 
            donne hai mo la precisione.  
           Probendato en corte i Roma,  
            tale n'ho  redutta soma: 
            onne fama se ce afuma, 
            tal n'aio maledezzone.  
           So' arvenuto  probendato, 
            che 'l cappuccio m'e  mozzato:  
            perpetuo encarcerato, 
            encatenato  co' lïone.  
           La prescione  che m'e data, 
            una casa  sotterrata. 
            Arèscece una  privata: 
            non fa  fragar de moscone.  
           Null'omo me pò parlare;  
            chi me serve lo  pò fare, 
            ma èglie upporto  confessare  
            de la mia parlazïone.  
           Porto iette  de sparviere,  
            soneglianno nel mio gire: 
            nova danza ce pò odire 
            chi sta appresso a mia stazzone.  
           Da poi ch'io  me so' colcato,  
            revoltome  nell'altro lato: 
            nei ferri so'  enzampagliato,  
            engavinato êl catenone.  
           Aio un  canestrello apeso,  
            che dai surci non sia offeso:  
            cinque pane, al mio  parviso,  
            pò tener lo mio cestone.  
           Lo ceston sì sta fornito:  
            fette de lo dì transito,  
            cepolla per  appetito;  
            nobel tasca de paltone.  
           Poi che la  nona è cantata,  
            la mia mensa apparecchiata,  
            onne crosta aradunata 
            per empir mio stomacone,  
            récamese la  cocina, 
            messa en una mia catina:  
            puoi c'abassa la ruina, 
            bevo e 'nfonno  'l mio polmone.  
           Tanto pane ennante  affetto,  
            che ne stèttera un porchetto:  
            ecco vita d'om destretto, 
            novo santo  Ilarïone.  
           La cucina manecata, 
            ecco pesce en peverata:  
            una mela me cèe data,  
            ec par taglier  de storione.  
           Mentre magno, ad ora  ad ora,  
            sostener granne fredura, 
            levome a l'ambiadura,  
            estamplando el mio bancone.  
           Paternostri otto a denaro  
            a pagar Dio tavernaro,  
            ch'io non aio altro tesaro  
            a pagar lo mio scottone.  
           Sì ne fosser  proveduti  
            li frate che so' venuti 
            en corte, per argir cornuti,  
            che n'avesser tal boccone!  
           Si n'avesser cotal morso,  
            non farian cotal descorso:  
            en gualdana  curre el corso  
            per aver  prelazïone. 
           
           Povertate  poco amata, 
            pochi t'hanno desponsata,  
            si se porge  ovescovata, 
            che ne faccia arnunzascione.  
           Alcun è che perde 'l mondo,  
            altri el larga  como a sonno,  
            altri el caccia en profonno;  
            diversa han condizïone:
  
            chi lo perde, è perduto;  
            chi lo larga, è pentuto;  
            chi lo caccia arproferuto,  
            ègli abomenazïone.  
           L'uno stanno li contende,  
            l'altri dui, arprende arprende:  
            si la vergogna se  spenne,  
            vederai chi sta al passone!  
           L'ordene sì ha un pertuso,  
            ca l'oscir non è  confuso: 
            si quel guado fosse archiuso,  
            staran fissi  al magnadone.  
           Tanto so' gito parlando,  
            corte i Roma gir leccanno,  
            c'or è ionto alfin lo  banno  
            de la mia presonzione.  
           Iace, iace en esta stia  
            como porco de grassia!  
            Lo Natal  non trovaria  
            chi de me lieve  paccone.  
           Maledicerà la spesa 
            lo convento che l'ha presa:  
            null'utilita n'è scesa 
            de la mia reclusione.  
           Faite, faite che volete,  
            frate, ché de sotto gite,  
            ca le spese ce perdete:  
            prezzo nullo de pescione;  
            c'aio un granne  capetale:  
            che me so' use de male  
            e la pena non prevale  
            contra lo mio  campïone.  
           Lo mio campïone è armato,  
            de lo mio odio scudato: 
            non pò esser vulnerato 
          mentr' ha a collo lo  scudone.  
           O mirabel odio mio, 
            d'onne pena hai signorio,  
            non recìipi nullo  eniurio,  
            vergogna t'è essaltazione.  
           Nullo se  trova nemico,  
            onnechivèl' è per amico,  
            eo  solo me so' l'inico  
            contra mia salvazione.  
           Questa  pena che m'e data,  
            trent'anni che l'aggio  amata:  
            or è ionta la iornata 
            d'esta consolazïone.  
           Questo non m'è orden novo,  
            che 'l cappuccio longo arprovo,  
            c'agni  dece enteri trovo 
            ch'io 'l portai gir  bizzocone.  
           Loco fice el fondamento 
            a vergogne  e schergnemento:  
            le vergogne so' co'  vento  
            de vessica de garzone.  
           Questa schera è sbarattata,  
            la vergogna è conculcata:  
            Iacovon la sua mainata 
            curre al  campo al gonfalone.  
           Questa schera mess'è 'n fuga:  
            vegna  l'altra che soccurga; 
            si né l'altra non ne surga, 
            e anco attende al paviglione.  
           Fama mia, t'aracommando 
            al somier che va ragghiando:  
            po'  la coda sia 'l tuo stanno 
            e quel te sia per guigliardone.  
           Carta mia, va' mitti banna: 
            Iacovon pregion te manna 
            en corte i  Roma, che se spanna 
            en tribù, lengua e nazione;
  
            e di' co' iaccio sotterrato, 
            en perpetua  encarcerato: 
            en corte i Roma ho guadagnato  
            sì bon beneficïone.  
           VI  
          O papa Bonifazio, 
          eo porto el  tuo prefazio 
          e la maledezzone 
          e 
          scommunicazione. 
          Co la lengua forcuta  
          m'hai fatta esta feruta:  
          che co la lengua ligne 
        e la piaga ne  stigne;  
        ca questa mia  ferita  
        non pò esser  guarita  
        per altra  condezione  
        senza assoluzione.
         
        Per grazïa te peto 
          che me dichi:  «Absolveto», 
          e  l'altre pene me lassi  
          finch'io del  mondo passi.  
          Puoi, si te vol' provare 
          meco essercetare, 
          non de questa  materia,  
          ma d'altro modo prelia.  
          Si  tu sai sì schirmire  
          che me sacci ferire, 
          tengote bene esperto,  
          si me fieri a scoperto:  
          c'aio  dui scudi a collo, 
        s'io  no i me ne tollo,  
        per secula infinita 
        mai non temo  ferita. 
         El primo scudo, sinistro,  
          l'altro sede  al deritto.  
        Lo sinistro scudato,  
          un diamante aprovato:  
          nullo ferro ci aponta,  
          tanto  c'è dura pronta:  
          quest'è l'odïo mio, 
          ionto a l'onor de Dio.   
          Lo deritto scudone,  
          d'una preta en carbone,  
          ignita come foco 
          d'un amoroso  ioco: 
          lo prossimo en amore  
          d'uno enfocato ardore.  
          Si te vòi fare ennate, 
          puo'lo provar 'n  estante;  
          e quando vol'  t'abrenca,  
          ch'e' co l'amar non venga. 
         Volentier te parlava:  
        credo che te  iovara.  
        Vale, vale,  vale,  
        Deo te tolla  onne male  
        e dìelome, per grazia,  
          ch'io el porto en leta fazia.  
          Finisco lo trattato   
        en questo  loco lassato.  
         VII  
         Quando t'aliegre,                   omo d'altura, 
          va' poni mente                    a  la sepoltura;
  
          e loco pone                        lo tuo  contemplare, 
          pensa bene                        che tu dii tornare 
          en quella forma               che tu vide stare 
        l'omo che face                   en la fossa scura.  
        «Or me respondi,                tu, om seppellito, 
          che così ratto                      d'esto monno èi  'scito: 
        o' so' i bei panni                  de ch'eri vestito? 
         Ornato te veggio                de molts bruttura».  
         «O frate mio,                     non  me rampognare, 
          che 'l fatto mio                   a te pò iovare! 
         Puoi che i parenti             me fiero spogliare, 
          de vil ciliccio                     me dier copretura».  
         «Or ov'è 'l capo                cusì pettenato? 
         Con cui t'aragnasti,        che 'l t'ha sì pelato? 
         Fo acqua bollita,              che 'l t'ha sì calvato? 
         Non te c'e opporto            più spicciatura!» 
         
         «Questo mio capo,                ch'abbi sì biondo, 
          cadut' è la came                 e  la danza dentorno: 
          nol me pensava,                       quann'era  nel mondo, 
          cantando a rota                        facea  portadura». 
         
        «Or ove so' l'occhi               così depurati? 
         For de for loco                             sì so' iettati. 
         Credo che i vermi                li s'ho  manecati, 
          del tuo regoglio                     non àver paura». 
         
         «Perduti m'ho gli occhi,            con che gia peccando, 
          augurdando a la  gente,             con issi  accennando. 
         Ohimè dolente,                            or so' nel malanno, 
          che 'l corpo è  vorato                   e l'alma en ardura». 
         
         «Or ov'e 'l naso,                         c'avì' pro odorare? 
          Quigna 'nfertade                       el n'ha fatto  cascare? 
         Non t'èi poduto                           dai vermi adiutare, 
          molt' è abbassata                       'sta tua grossura». 
         
         «Questo mio naso,                     ch'abbi pro odore, 
          caduto n'è                                     con molto fetore: 
          nol me pensava                             quann' era 'n amore 
          del mondo falso,                              pien di bruttura». 
         
         «Or ov'e la lengua                            cotanto tagliente? 
          Apri la bocca,                                    si tu n'hai niente. 
          Fone  troncata,                                   oi forsa fo 'l dente, 
          che te n'ha fatta                              cotal rodetura?»  
         «Perdut'ho la lengua,                   co la qual parlava, 
          molta descordia                            con essa ordenava: 
          nol me pensava,                           quann' io manecava 
          el cibo e 'l poto                              oltra musera».  
         «Or chiude le labra                       pro i denti coprire: 
          par, chi te vede,                            che 'l vogli schirnire. 
         Paura me mitte                                   pur del vedere: 
          càionte i denti                                      senza trattura». 
         
         «Co' chiudo le labra,                    che unqua no l'aio? 
         Poco pensava                                  de questo passaio. 
         Ome dolente,                                   e como faraio, 
          quann' io e l'alma                           starimo en ardura?» 
         
         «Or o' so' le braccia                           con tanta fortezza, 
          menaccianno la gente,                   mustranno prodezza? 
         Raspate 'l capo,                                 si t'è agevelezza, 
          crulla la danza                                  e fa portadura».  
              
        « La mia  portadura                       si gia 'n esta fossa: 
          cadut' è la came,                             remase so' l'ossa 
          ed onne gloria                                  da me è remossa 
          e onne miseria                                 m'e a rempietura».  
         «Or lèvate 'n pede,                      ché molto èi iaciuto, 
          accònciate l'arme                         e tolli lo scuto. 
         En tanta  viltate                             me par chèi venuto: 
          non comportare                             più questa affrantura».  
         «Or co' so'  adasciato                     de levarme en pede? 
         Chi 'l t'ode dicere                        mo lo se crede! 
         Molto è l'om pazzo,                      chi no provede 
          ne la sua vita                               la sua finitura».  
         «Or chiama i parenti,                   che te venga aitare, 
          che te guarden dai vermi             che te sto a devorare. 
          For più vivacce                                venirte a spogliare: 
          partierse el podere                           e la tua mantatura».  
         «No i posso chiamare,                    ché so' encamato. 
         Ma falli venire                                   a veder mio  mercato: 
          che me veia iacere                           colui ch'è  adasciato 
          a comparar terra                           e far gran chiusura».  
         «Or me contempla,                 oi omo mondano: 
          mentr'èi nel mondo                 non esser pur vano; 
          pensate, folle                                che a mano a mano 
          tu serai messo                        en grande strettura  ».  
         VIII 
         
        Lo pastor per mio peccato                        — posto m'ha for de l'ovile: 
          non me iova alto belato                            — che m'armetta per l'ostile.  
         O pastor, co' non te esvigghi                       a questo alto mio belato, 
          che me traggi de sentenza                            de lo tuo scommunicato? 
        De  star sempre empregionato,               — si esta pena non ce basta, 
          pòi  ferire con altr'asta,                              — come piace al tuo sedile.  
         Lungo tempo aio clamato:                            ancora non fui audito; 
          scrissete nel mio  libello:                               de quel non fui  essaudito. 
         Ch'io non stia sempre ammannito          —  a toccar che me sia operto, 
          non reman per mio defetto                        — ch'i' no arentri al mio cubile.  
         Como el cieco che clamava,                            da passanti  era sprobato, 
          maior voce esso iettava:                                 «Miserere, Deo, al cecato»; 
«Che ademanni che sia dato?»;             — 0  Messer, ch'io reveggia luce; 
ch'io possa cantar a voce                          — quello osanna püerile».  
         Servo de Centorione                                       paralitico en tortura, 
          non so'  degno che 'n mia casa                       sì descenda tua figura; 
          bastame pur la scrittura                         —  che me sia detto: «Absolveto» 
          che 'l tuo detto m'e decreto                      — che me tra' for del porcile.  
         Trappo iaccio a la piscina                           al portico de Salamone: 
          grande moti  sì fa l'acqua                            en tanta perdonazione. 
          È passata la stagione:                              — prestolo  che me sia detto 
        ch'io me leve e tolla 'l letto                     — e retorni al mio casile.  
         Co' malcano putulente                               deiettato so' dai sane: 
        né en santo  né a mensa                              con om san non magno pane. 
         Peto che tua voce cani                            — e sì me  diche en voglia santa: 
  «Sia mondata la tua tanta                   — enfermetate  malsanile».  
         So' vessato dal demonio,                             muto, sordo deventato: 
          la mia  'nfermetate pete                              che 'n un ponto sia 'l curato, 
          che 'l demonio sia fugato                        —  e l'audito me se renna 
          e sia sciolta la mia lengua                     — che legata fo con «Sile».  
         La püella  che sta morta                              en casa  del sinagogo, 
          molto peio sta mia alma,                            de sì dura morte mogo: 
          che me porge la man rogo                      — e sì me  renni a san Francesco, 
          che esso me remetta al desco,               — che receva el mio pastile.  
         Deputato so'  en lo 'nferno                             e so' ionto ià a la porta: 
          la mia matre relegione                                 fa  gran pianto con sua scorta; 
          l'alta voce udir oporta                              —  che me dica: «Vecchio, surge», 
          che en  cantar torni 'l luge                           che e fatto del senile.  
         Como Lazar sotterrato                                   quattro anni en gran fetore 
          né Maria ce  fo né Marta                                che pregasse  el mio Segnore; 
          poise far per suo onore                               — che me dica: «Veni fora», 
          per l'alta voce decora                                 — sia  remesso a star coi file.  
         Uno  empiasto m'è ensegnato                      e ditto m'è  che pò iovare: 
          quel che l'ha èmme da lungo,                    no  li posso ademandare. 
         Scrivoli nel mio dittare                           — che me deia far l'aiuto. 
         Che lo 'mpiasto sia compiuto                  — per la lengua de fra Gentile.  
        IX  
         O dolze amore 
          c'hai morto l'Amore, 
          prego che m'occidi d'amore.  
        Amor c'hai menato 
          lo tuo ennamorato 
          a  cusì forte morire, 
          pro che 'l facisti  
          che non volisti 
        che io devesse perire?  
        Non me parcire, 
          non voler  soffrire 
          ch'io non moga abbracciato  d'Amore.  
         Si non perdonasti 
          a Quel che sì amasti, 
          como me vol' perdonare? 
         Segno è  si m'ami 
          che tu me ce 'nnami 
          co' pesce che non pò scampare. 
         E non perdonare, 
          ca 'l m'è en amare 
          ch'io moga annegato en amore.  
         L'Amore sta appeso,  
          la croce l'ha preso  
          e non larga  partire. 
         Vocce currenno 
        e mo me ce  appenno,  
        che io non possa smarrire,  
        ca  lo fuggire 
        fariame sparire 
        ch'io  non fora scritto en amore.  
         0 croce, io m'appicco  
          e a te m'afficco, 
          che gusti morendo la vita,  
          ché tu  n'èi adornata,  
          o morte melata: 
          tristo che non t'ho  sentita!  
          O alma, si' ardita  
          d'aver tua ferita, 
        ch'io mora accorato d'amore!  
         Vocce  currenno,  
          en croce leggenno, 
          ennel libro  che c'e ensanguenato, 
          ca essa scrittura 
          me fa en natura 
        e 'n  filosofia conventato.  
        O libro signato, 
          che dentro èi enaurato 
        e tutto  fiorito d'amore!  
         O amor d'Agno, 
          maiur che mar magno, 
        e chi de te dir porria?  
        A chi c'è  annegato de sotto e da  lato 
          e non sa do' se sia, 
          e la pazzia 
          gli par ritta  via 
        de gire empazzato d'amore.  
        X  
         «Donna de Paradiso,  
          lo tuo figliolo è preso,  
        Iesù Cristo  beato.  
         Accurre, donna, e vide  
          che la gente l'allide:  
          credo che lo  s'occide,  
          tanto l'ho flagellato».  
         « Com'essere porria,   
          che non fece follia, 
          Cristo, la spene mia,  
        om l'avesse pigliato?»  
         «Madonna, ell' è  traduto:  
          Iuda sì l'ha venduto; 
          trenta denar n'ha  avuto,  
        fatto n'ha gran mercato».  
         «Soccurri, Maddalena!  
          Ionta m'e adosso piena:   
          Cristo figlio se mena, 
        com' è annunzïato». 
         
        «Soccurre,  donna, adiuta, 
          ca 'l tuo figlio se sputa  
          e la gente lo muta;  
          hòlo dato a Pilato».  
        «O Pilato, non fare 
          el figlio mio tormentare,  
          ch'io te pozzo  mustrare  
        como a torto è accusato».  
         «Crucifige,  crucifige! 
          Omo che se fa rege,  
          secondo nostra  lege  
        contradice al senato».  
         «Prego che me 'ntennate,  
          nel mio dolor pensate:  
          forsa mo vo mutate 
        de che avete pensato».  
         «Traàm for li ladruni,  
          che sian suoi  compagnuni:  
          de spine se coroni, 
        ché rege s'è  chiamato!»  
         «O figlio, figlio, figlio,  
          figlio, amoroso giglio!  
          figlio, chi dà consiglio  
        al cor mio angustiato?  
         Figlio occhi iocundi,   
          figlio, co' non respundi?  
        Figlio, perché t'ascundi  
          al petto o' si' lattato?»  
         «Madonna, ecco la croce,  
          che la gente l'aduce, 
          ove la vera  Luce 
        dèi essere  levato».  
         «O croce, e che  farai?  
        El figlio mio torrai? 
         Como to ponirai 
        chi non ha en sé peccato?»  
         «Soccurri, plena de doglia,  
          ca'l tuo  figlio se spoglia:  
          la gente par che voglia  
          che sia martirizzato!»  
         «Se i tollete el vestire,  
          lassatelme  vedere, 
          como el  crudel ferire  
        tutto l'ha ensanguenato!»  
         «Donna, la  man li è presa, 
          ennella croce è stesa; 
          con un bollon l'ho  fesa,  
        tanto lo ci ho ficcato.  
         L'altra mano se prende, 
          ennella croce se stende  
          e lo dolor  s'accende,  
        ch'e più moltiplicato.  
         Donna, li pè se prenno  
          e chiavellanse al lenno:  
          onne iontur' aprenno,   
          tutto l'ho sdenodato».  
         «E io comenzo el corrotto:  
          figlio, lo mio deporto,  
          figlio, chi me t'ha morto,  
        figlio mio  dilicato?  
         Meglio averiano fatto 
          che 'l cor m'avesser tratto,  
          che ne la croce è tratto,  
        stace desciliato!»  
         «Mamma, ove si' venuta? 
        Mortal me dài feruta, 
          ca 'l tuo planger me stuta, 
        che 'l veio sì afferrato».  
         «Figlio, che m'aio anvito,  
        figlio, pate e  marito! 
         Figlio,  chi t'ha ferito?  
          Figlio, chi t'ha spogliato?»  
         «Mamma, perché te lagni?  
        Voglio che te  remagni, 
          che serve ei  mei compagni,  
        ch'al mondo aio acquistato».  
         «Figlio, questo non dire:  
          voglio teco  morire; 
          non me voglio partire 
        fin che mo  m'esce 'l fiato.  
         C'una aiam  sepoltura,  
          figlio de mamma scura:  
          trovarse  en afrantura  
          mate e figlio affocato!»  
         « Mamma col core afflitto,  
          entro le man to  metto 
          de Ioanne,  mio eletto: 
        sia tuo  figlio appellato.  
         Ioanni, èsto mia mate:  
          tollela en caritate, 
          aggïne  pietate, 
        ca'l cor sì  ha furato». 
         
         « Figlio, l'alma t'è 'scita,  
          figlio de la smarrita, 
          figlio de la sparita, 
          figlio attossecato!  
         Figlio bianco e vermiglio,  
          figlio senza  simiglio, 
          figlio, a chi m'apiglio?  
          Figlio, pur m'hai lassato!  
         Figlio  bianco e biondo, 
          figlio volto  iocondo, 
          figlio, per che t'ha 'l mondo,  
          figlio, così  sprezzato?  
         Figlio dolze e  placente,  
          figlio de la dolente, 
          figlio, hatte la gente  
          malamente trattato!  
         Ioanni, figlio novello,  
          mort'è lo tuo fratello:  
          ora sento 'l coltello  
          che fo profitizzato.  
         Che moga figlio e mate  
          d'una morte afferrate:  
          trovarse abraccecate 
        mate e  figlio impiccato».  
        XI  
         O Segnor, per cortesia,  
          manname la  malsania.  
         A me la freve  quartana,  
          la contina e la terzana,  
          la  doppia cotidïana, 
          co la granne  etropesia.  
         A me venga mal de  denti,  
          mal de capo e mal de ventre, 
          a lo stomaco  dolor pognenti,  
          e 'n canna la squinanzia.  
         Mal degli occhi e doglia de fianco 
        l'apostema dal canto  manco; 
        tiesco me ionga en alco 
        d'onne tempo la  fernosia.  
        Aia 'l  fecato rescaldato, 
          la milza  grossa, el ventre enfiato,  
          lo polmone sia piagato 
          con gran tossa e parlasia.  
         A me vegna  le fistelle 
          con migliaia de  carvoncigli,  
          e li granchi siano quilli 
          che tutto repien ne sia.  
         A me vegna la podagra,  
          mal de Giglio sì m'agrava;  
          la  disenteria sia piaga 
          e le morroite a me se dia.  
         A me venga el mal de l'asmo,   
          iongasece quel del pasmo, 
          como al can me venga el rasmo  
          ed en bocca la grancìa.  
         A me lo morbo caduco 
          de cadere en acqua e 'n fuoco, 
          e ià mai non trovi luoco 
        che io affritto non ce sia.  
         A me venga  cechetate,  
          mutezza e sordetate,  
          la miseria e povertate, 
          e d'onne tempo en trapparia.  
         Tanto sia el fetor  fetente,  
          che non sia null'om vivente 
          che non fugga  da me dolente, 
          posto 'n tanta ipocondria.  
         En terrebele fossato, 
          ca Riguerci  è nomenato,  
          loco sia  abandonato 
          da onne bona compagnia.  
         Gelo, granden,  tempestate, 
          fulgur, troni, oscuritate,  
          e non sia  nulla avversitate  
          che me non aia en sua bailia.  
         Le demonia enfernali 
          sì me sian  dati a ministrali, 
          che m'essercitin li mali 
          c'aio  guardagnati a mia follia.  
         Enfin del mondo a la finita 
          sì me duri  questa vita, 
          poi, a la scivirita, 
        dura morte  me se dia.  
         Aleggome en  sepoltura 
          un ventre de lupo en voratura, 
          l'arliquie en  cacatura  
        en espineta e  rogaria.  
        Li miracul' po' la morte:  
          chi ce viene aia le scorte  
          e le vessazione forte 
          con terrebel fantasia.  
         Onn'om che m'ode mentovare  
          si se deia stupefare 
          e co la croce signare, 
          che rio scuntro no i  sia en via.  
         Signor mio,  non è vendetta 
          tutta la pena ch'ho ditta:   
          ché me creasti en tua diletta  
          e io t'ho morto a villania.  
         XII  
         O papa Bonifazio,                                   molt'hai  iocato al monno: 
          penso che ioconno                              — non te porrai partire!  
         Lo monno non ha usato                        lasciar li suoi serventi 
          che a la sceverita                                   se partano gaudenti: 
          non farà legge nova                               de  farnete esente, 
          che non te dia i  presenti                   —  che dona al suo servire.  
         Bene lo me pensai                                   che fossi satollato 
          d'esto malvascio ioco                              ch'al monno hai conversato; 
          ma poi che tu salisti                               en offizio papato, 
          non s'aconfé a lo  stato                         —  d'essere en tal desire.  
         Vizio enveterato                                       convertese  en natura: 
          de congregar le cose                                 grande n'ha' avuta cura. 
         Or non ce baste 'l  leceto                           a la tua fame dura, 
          messo t'ei a  robbatura,                       —  come ascaran rapire.  
         Pare che la vergogna                               dereto aggi  iettata, 
          l'alma e lo corpo hai posto                       a•llevar tua casata: 
          omo che 'n rena mobele                          fa  granne edificata, 
          subito è ruinata,                                  — e non gli pò fallire.  
         Como la salamandra                              sempre vive nel fuoco, 
          così par che lo  scandalo                          te sia  sollazzo e gioco; 
          dell'aneme redente                                 par che te curi  poco: 
          ove t'acconci loco,                               — saperailo al partire.  
         
        S'alcuno  ovescovello                               pò chevelle  pagare, 
          mettigli lo  flagello                                  che lo vol' degradare; 
          poi 'l mandi al camorlengo                  che se degga acordare, 
          e tanto porrà dare                              — che  'l lassarai redire.  
         Quando nella contrata                        t'aiace alcun  castello, 
          'n estante mitti screzio                        entra  frate e fratello: 
          all'un getti el braccio en collo            all'altro mustri el  coltello: 
          si no assente al tuo  appello             — menaccigli de  ferire.  
         Pense per astuzia                                    lo monno  dominare: 
          ciò ch'ordene l'un  anno,                       l'altro el vidi guastare. 
         El monno no è cavallo                          che se lassi  enfrenare, 
          che 'l possi  cavalcare                        — secondo  el tuo volere.  
         Quanno la prima messa                       da te fo celebrata, 
          venne una tenebria                               per tutta la contrata; 
          en santo non remise                               luminera  appicciata: 
          tal tempests levata                            — la 've tu stavi a dire.  
         Quanno fo celebrata                                la coronazione, 
          non fo celato al  monno                            quello che ce scuntròne: 
          quaranta omin fuor  morti                    all'oscir de la  mascione: 
          miracol Dio mustròne                        — quanto gli eri en piacere.  
         Reputavi te essere                                     lo più sufficïente 
          ad essere en papato                                   sopre onn'omo vivente: 
          clamavi santo Petro                                  che fosse  respondente 
          si esso sapea niente                               —  respetto al tuo savere.  
         Ponisti la tua sedia                                    da  parte d'aquilone: 
          contra Dëo altissimo                                 fo  la tua entenzione; 
          per sùbita ruina                                         pres'ei en tua mascione, 
          e nullo se trovòne                                 — a  poterte guarire.  
         Lucifero novello                                         a  sedere en papato, 
          lengua de blasfemia                                 che 'l mondo hai venenato, 
          che non se trova  spezia                            bruttura  de peccato, 
          là 've tu si'  enfamato,                           —  vergogna è a proferire.  
         Ponisti la tua lengua                                 contra la relïone, 
          a dicer blasfemìa                                        senza  nulla rascione, 
          e Deo sì t'ha sommerso                              en  tanta confusione, 
          che onn'om ne fa  canzone                    — tuo  nome a maledire.  
         O lengua macellara                                   a dicer villania 
          remproperar vergogne                             con granne  blasfemia, 
          né emperator  né rege,                               chivelle  altro che sia, 
          da te non se partia                                  — senza crudel  ferire.  
         O pessima avarizia,                                    sete  enduplicata, 
          bever tanta pecunia,                                  non esser sazïata! 
         Non ce pensave, misero                             a cui l'hai congregata? 
         ché tal la t'ha  robbata                           — che non eri en pensieri!  
         La settimana santa,                                    ch'onn'omo stava 'n  pianto, 
          mandasti tua famiglia                               per Roma andare al  salto: 
          lance giero rompenno,                               facenno danz' e canto; 
          penso che [ 'n] molto affranto              — Deo te deia ponire.  
         Intro per Santo Petro                                   e per Santa Santoro 
          mandasti tua fameglia                               facenno danza e  coro: 
          li pelegrini  tutti                                            scandalizzati fuoro, 
          maledicenno tuo oro                               — e te  e tuo cavalieri.  
         Pensavi per augurio                                    la  vita perlongare: 
          anno, dì né ora                                              omo non pò sperare; 
          vedem per lo peccato                                   la vita stermenare, 
          la morte  appropinquare                        —  quann'om pensa gaudere.  
         Non trovo chi recordi                                  nullo papa passato 
          che 'n tanta vanagloria                              se  sïa delettato; 
          par che 'l  terror de Deo                              dereto aggi  gettato: 
          segno è de desperato                              — o de  falso sentire. 
                 [1] Il testo prescelto è quello fermato da G. CONTINI, Poeti del Duecento, t. II, Milano-Napoli, 1960, pp. 75-88, 95-124, 135-143. 
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