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Discussioni

Silvana Anna Bianchi,
Il medioevo (e la storia) a scuola: cronaca di una morte annunciata?


© 2002 - Silvana Anna Bianchi per "Reti Medievali"


In attesa della Grande Riforma, la scuola italiana è periodicamente investita da piccole modifiche ordinamentali e organizzative, in un clima di autonomia incompiuta.

È di questi giorni l’ufficializzazione (anche se solo per via telematica[1]) delle ‘Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati della Scuola Secondaria di primo grado’, un documento destinato a suscitare discussione per alcune ‘novità’ che riguardano sia l’impianto organizzativo (ad esempio il tempo scuola annuale ridotto e differenziato tra obbligatorio e aggiuntivo, la scansione interna 2+1 al posto della precedente 1+1+1, l’introduzione della valutazione esterna) sia l’articolazione dei contenuti. Quest’ultimo aspetto investe direttamente la storia.

La storia nelle nostre scuole vive momenti difficili, compressa fra le ripetute insistenze sulla sua utilità/necessità e una diffusa indifferenza giovanile. Tralasciando le cicliche polemiche sui libri di testo, ciò che più preoccupa è che, a dispetto dei continui riferimenti al suo valore formativo (riferimenti che indicano nelle categorie storiche le imprescindibili chiavi di lettura della realtà presente), la storia gode di sempre minor credito in una cultura giovanile attratta da altri richiami e attenta piuttosto ai cosiddetti ‘saperi di planning’ orientati alla produttività e all’efficienza[2]. Certo non la aiuta la debolezza derivante dalle poche ore assegnatele nel quadro orario settimanale di tutti i percorsi scolastici e  dalla posizione ancillare che conserva nella distribuzione delle cattedre, dato che è sempre in coppia – ma sarebbe meglio dire in subordine – con le più titolate italiano o filosofia[3]. Crea poi disorientamento la mole di un programma cresciuto in misura abnorme,  che dall’ homo Neanderthalensis plana fino alle quotidiane ipotesi di guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Tra le novità introdotte dalle recenti ‘Indicazioni nazionali’ c’è la divisione del programma nel segno di un ritorno alla tradizione, con più spazio dedicato al passato – e soprattutto al passato ‘medievale’ - e meno al Novecento (nel terzo anno si dovrebbe partire dall’età napoleonica). Non intendiamo qui discutere prematuramente queste indicazioni, uscite in sordina e non ancora del tutto contestualizzate, bensì mettere a fuoco alcuni nodi problematici dell’insegnamento della storia nella scuola secondaria a partire proprio dalle periodizzazioni definite nei Piani di studio nazionali.

Era stato il  D.M. 682 del novembre 1996 dell’allora ministro Berlinguer a introdurre  modificazioni di rilievo per quanto riguarda la ripartizione dei blocchi cronologici oggetto di studio nei diversi anni, con l’obiettivo prevalente di assegnare un maggiore tempo di approfondimento alla storia del Novecento, cui veniva riservato l’ultimo anno di corso nelle scuole di ogni ordine e grado. Tale suddivisione ha eliminato nella scuola superiore la corrispondenza fra i cinque anni di studio e le classiche periodizzazioni in storia greca, romana, medievale, moderna, contemporanea.

Sulla base del D.M. 682 la ‘Suddivisione annuale dei programmi di storia’, entrata in vigore nell’anno scolastico 1997/98 e tuttora operante, è la seguente:

Licei e Istituti Tecnici (art. 2)

-         primo anno: dalla preistoria ai primi due secoli dell’impero romano

-         secondo anno:  dall’età dei Severi alla fine del Medioevo

-         terzo anno: dalla crisi socio-economica del Trecento alla prima metà del Seicento

-         quarto anno: dalla seconda metà del Seicento alla fine dell’Ottocento

-         quinto anno: il Novecento

Istruzione artistica (art. 3)

-         primo anno: dalla preistoria alla fine del medioevo

-         secondo anno: dalla crisi socio-economica del Trecento alla prima metà del Seicento

-         terzo anno: dalla seconda metà del Seicento alla fine dell’Ottocento

-         quarto anno: il Novecento

Scuola media inferiore (art. 4)

-         primo anno:  dalla preistoria alla fine del medioevo

-         secondo anno: dal rinascimento alla fine dell’Ottocento

-         terzo anno: il Novecento

Altra è la ripartizione elaborata per l’istruzione professionale (divisa in un triennio, al termine del quale di ottiene il diploma di qualifica, più un biennio post qualifica, al termine del quale si consegue il diploma di maturità), che ha avuto programmi riformati secondo la logica modulare nel gennaio 1997[4].

Al tempo dell’emanazione del decreto molte furono le critiche e alcune di esse puntarono il dito contro il pericolo di una ‘erosione irreversibile’ una vera e propria ‘scomparsa’ del medioevo dal panorama della scuola italiana. Raffaele Iorio[5] denunciò allora  – insieme con l’afasia di coloro che avrebbero dovuto poi rendere operativa nelle scuole la riforma (presidi e professori straniati nelle loro quotidiane liturgie fra circolari, registri di assenze, computo di verifiche e valutazioni) – il rischio che la stessa comprensione del Novecento finisse per risultare compromessa se privata di un adeguato retroterra di prospettiva e che le radici del robusto albero del XX secolo che si andava a coltivare non fossero niente più che radicuzze da bonsai. Le sue critiche a un  medioevo semplificato e schiacciato si estendevano al progetto di curricolo verticale volto a evitare la ripetizione ciclica di contenuti ritrovati  identici per ben tre volte (elementari, medie inferiori e superiori), progetto poi inserito nel più ampio quadro di riforma dei cicli, noto come Berlinguer – De Mauro[6] ora bloccato e sottoposto a nuova revisione.

Nell’ipotesi Berlinguer - De Mauro, dopo un momento propedeutico di avvio allo studio di storia-geografia-scienze sociali in ottica interdisciplinare, si collocava (in un periodo quinquennale, per ragazzi fra i 9 e i 15 anni d’età) lo studio della storia generale e solo con questi giovinetti ci sarebbe stato sicuro spazio per il medioevo. Nella fascia di scolarità successiva (ragazzi di 15-18 anni frequentanti gli ultimi tre anni della scuola secondaria) si ipotizzava infatti l’approfondimento di alcuni nodi tematici con attenzione particolare rivolta all’indirizzo della scuola e ai problemi legati al presente.

È vero che anche a scuola quantità non fa rima necessariamente con qualità; è vero che la scuola più che pagine di informazioni deve cercare di fornire le chiavi per la comprensione di quei dati; ma è vero anche (e prima) che i tanto sbandierati ‘nuclei fondanti’ della disciplina non possono essere eliminati e fra essi un suo posto decoroso va restituito al medioevo che contiene in sé alcuni caratteri originali della società in cui viviamo: pensiamo solo a quello occidentale e cristiano che – piaccia o no, per analogia o per opposizione – rappresentano elementi basilari del nostro vivere e del nostro pensare.

Oggi, a sei anni di distanza dal decreto sul Novecento, in un clima di generale riformulazione dei percorsi nazionali, una recente indagine condotta fra studenti di scuole medie superiori del comune e della provincia di Verona riapre il problema del pericolo dell’estinzione del medioevo dal panorama della scuola italiana, o per lo meno del pericolo di estinzione di un medioevo corretto, lontano dagli  stereotipi e dalle caricature che  spesso ne danno i media  o le feste folkloristiche con variopinti tornei in costume o le sagre di gastronomia contrabbandate per improbabili cene medievali. 

Alcuni studenti della Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti della  Scuola secondaria  del Veneto – una delle tante SSIS deputate alla preparazione culturale e professionale dei laureati che intendono intraprendere la carriera dell’insegnamento nelle scuole medie inferiori e superiori – hanno proposto un questionario agli alunni delle classi seconde di cinque diverse scuole superiori (un Istituto professionale alberghiero, un Istituto tecnico commerciale, un Istituto tecnico industriale, un Liceo scientifico e un Liceo classico) con l’obiettivo di indagare quale sia il senso che i ragazzi assegnano alla storia  e qual sia, di conseguenza, il loro atteggiamento nei confronti dello studio di una materia da più parti etichettata come inutile in quanto rivolta all’indietro mentre il mondo guarda – e corre – velocemente in avanti[7]. 

Lo scopo del questionario niente aveva a che fare col medioevo, tuttavia la lettura dei dati ricavati dall’elaborazione delle risposte, chiama in causa proprio quest’età e – con tutte le precauzioni dovute, tenuto conto del numero e della composizione del campione - sollecita qualche riflessione.

Alla domanda che chiede di elencare in ordine di importanza tre avvenimenti che lo studente ritiene degni di fregiarsi dell’attributo di ‘storici’, pochissimi intervistati indicano fatti dell’età medievale che risulta essere in assoluto il periodo meno visibile, forse il meno conosciuto, certo il meno ricordato.  Ciò appare tanto più anomalo se pensiamo che il questionario è stato somministrato in classi seconde, vale a dire  a studenti che stavano svolgendo proprio argomenti di età medievale.

Se poi diamo uno sguardo al lessico usato, alle espressioni che frequentemente compaiono, vediamo che l’aggettivo ‘medievale’ – perfino all’interno di un contesto scolastico e propriamente storico - è adoperato sempre e solo nel senso più spregiativo quale sinonimo di retrivo, retrogrado, chiuso, arretrato.  Il diffuso senso comune, che guarda con sospetto o con curiosità tenebrosa al medioevo, prevale e sconfigge la conoscenza storica, ne annulla la complessità e alla fine subdolamente inganna con le trappole del presente chi si accosta al passato.

Oggi il medioevo è per molti versi un business: i parchi divertimenti attingono a piene mani all’immaginario medievaleggiante, centinaia di rappresentazioni locali costituiscono sicuro richiamo turistico, un vasto repertorio iconografico simil-medievale è presente nel cinema e nella narrativa di ampia diffusione. E non è certo un caso che alcuni fra i più venduti giochi di strategia per computer e playstation utilizzino scenari presi a prestito dall’età di mezzo, come dimostra il travolgente successo di Age of Empires 2: the Age of Kings, dell’americana Microsoft. Di ciò si nutrono i nostri ragazzi, e poco importa che questo spezzatino di storia sia un medioevo fasullo che nulla o quasi ha a che vedere con la ricostruzione storica; con le sue fantasie eroiche è capace di alimentare idee imprecise ma robustissime e di dar forma a immagini tanto resistenti quanto sbagliate

Dobbiamo prendere atto che oggi la scuola non è la principale agenzia di formazione per i giovani e non è più la depositaria della trasmissione storica. Se fino a dieci o quindici anni fa era la famiglia il luogo privilegiato delle loro preconoscenze storiche , oggi televisione, fumetti, cinema e soprattutto internet  hanno stravolto questo stato di cose, mettendo i giovani a contatto continuo con informazioni ‘ad effetti speciali’   che hanno legami diretti – ma non sempre controllati – con la storia in generale e con la storia medievale in particolare[8].

Ecco allora che poche idee-guida  rafforzano una distorta catena di trasmissione culturale, talvolta con la colpevole complicità di qualche manuale e qualche docente (e ciò appare evidentissimo nella scuola media inferiore) che, nel malinteso sforzo di semplificare, banalizzano e omologano fatti e processi di età medievale, annebbiandola tutta una sorta di non-tempo dai colori foschi: i famosi ‘secoli bui’. Se ne ricava l’immagine di un periodo collassato, senza una diacronica scansione temporale, debole di riferimenti ai nomi e alle date della tanto strumentalmente detestata histoire événementielle. Un medioevo acritico, che è tutto ‘feudalesimo’, castelli e cavalieri, che trascorre – povero e disordinato, dopo l’avvento dei ‘barbari’ – all’ombra di torri merlate, con ancora molti guerrieri e pochi contadini, troppa stregoneria e troppo poca tecnologia[9].

Il problema di un insegnamento corretto per questa come per altre epoche storiche (mutatis mutandis un discorso simile si potrebbe fare anche per il rinascimento, la controriforma o l’illuminismo) nasce probabilmente proprio dal  dover mettere in gioco, con ragazzi poco motivati, concetti difficili non solo per se stessi, ma anche per la distanza che li separa da stereotipi già consolidati in giovane età.

Come ricordava Giovanni De Luna in un suo recente intervento su ‘La Stampa’[10], i media hanno radicalmente modificato una essenziale funzione tradizionalmente riservata alla scuola, vale a dire il controllo della ingovernabile produzione cartacea, un controllo che veniva operato scegliendo e tramandando ciò che valeva la pena trasmettere alle giovani generazioni. Ma la scuola non può lasciare una parte così ampia della nostra storia sui banconi del supermercato. Ha il dovere di dare una formazione storica di base corretta, e di darla a tutti.

A questa banalizzazione dilagante, centrata su poche e approssimative macro-categorie di periodizzazione, si aggiunge oggi il rischio  di una pericolosa devolution  nella formazione storica degli studenti. Il  modello di governo dell’istruzione promosso dalla Legge 59 del 1997 e dalle norma da essa derivate[11] affiancava alle decisione centralizzate sia gli snodi regionali sia le singole unità scolastiche responsabili dell’offerta formativa. Questo equilibrio tripartito e gerarchizzato (nazionale, regionale, d’istituto) viene ora messo in discussione da richieste pressanti per una sempre più ampia devoluzione di funzioni in materia scolastica affidate alle regioni, e nelle diverse proposte del nascente e confuso ‘federalismo’ si assiste ad uno spostamento di decisioni verso la scala regionale. Lo stato fissa gli obiettivi, definisce il quadro orario, indica i profili di uscita degli alunni, ma non stabilisce i ‘programmi’ intesi come prescrittivi e pedanti elenchi dei contenuti delle singole discipline.

Non è una novità, né è negativa, anzi per molti aspetti questa strategia è positivamente flessibile e in linea non solo con i decreti sull’autonomia ma anche con gli indirizzi oggi prevalenti nella pedagogia e nella didattica. Tuttavia necessità di equilibrio e di preparazione adeguata.

È  sacrosanto garantire flessibilità e soprattutto dare possibilità di scelta ai diversi insegnanti in base ai diversi contesti in cui operano (del resto in una vastità disperante quale è quella della storia, scegliere è oggi una necessità più che una possibilità) e  il cosiddetto ‘programma’ non può essere una camicia di forza tessuta con contenuti standard. Anche riconoscere alle storie locali la dignità che meritano e che spesso è stata negata o ridicolizzata nella scuola è un passo avanti. Resta però  altrettanto fondamentale intendere lo stesso ‘programma’ come il riferimento fondante, il paradigma comune della propria (e altrui) cultura storica.

L’esigenza di salvaguardare, nella coscienza individuale e collettiva, il patrimonio su cui si fondano l’unità e l’identità dell’Italia e dei suoi cittadini è un orizzonte ‘civile’ che i docenti di storia (e non solo loro) devono continuare a proporre e coltivare nelle coscienze dei loro giovani allievi.  Ciò vale in primo luogo per il medioevo, soprattutto per il medioevo dei comuni, delle piccole patrie locali, delle glorie municipali che si scontrano con i poteri centrali. Se miriamo alla costruzione ‘larga’ di un sapere di qualità, questo è un problema di contenuti ma anche di metodi: lavorare sulle storie locali richiede infatti un’attrezzatura metodologica che non si può improvvisare, pena il rischio di cadere nello stupidario campanilistico di cui offrono ampia rassegna tante manifestazioni. Solo per questa strada si può approdare alla necessaria apertura multi/interculturale, storicizzando la propria identità e discutendola,  non per chiudersi in una difesa anacronistica e sciocca, ma per imparare a riconoscere anche le altre identità con le loro differenti caratteristiche che nascono da matrici appunto ‘storiche’

Urge dunque che gli insegnanti siano messi nelle condizioni di saper operare scelte corrette sotto il profilo storiografico, con rilevanze tematiche significative proposte con metodo rigoroso, in vista di una maturazione culturale e civile degli studenti che sono loro affidati.

Allargando l’orizzonte delle domande che Pietro Corrao poneva in un suo intervento su Reti Medievali[12], dobbiamo chiederci quanto delle nuove acquisizioni elaborate dalla ricerca medievistica sia stato recepito dagli insegnanti e venga trasmesso nelle scuole e quanto, invece, sia ancora presente l’armamentario di un repertorio tradizionale genericamente polarizzato da poche idee-forza, prime fra tutte quella oscuro-barbarica (esemplificata da Rosmunda costretta a bere nel cranio del padre) e quella eroico-cavalleresca (debordante spesso verso re Artù o i Templari), accanto al mai tramontato mito della città-stato comunale.  Queste linee di forza del medioevo scolastico perdurano per inerzia dei ‘modelli’ di ampia fortuna culturale (per lo più elaborati nell’età del romanticismo), spesso acriticamente  adoperati in funzione di esigenze del presente: ecco allora la sconfitta del regime talebano a Kabul salutata come la fine del medioevo afgano, oppure la ricorrente descrizione di un medioevo prossimo venturo causato dalla fine della nostra civiltà dopo una catastrofe naturale o tecnologica. Da qui deriva quell’annullamento del medioevo che gli studenti delle scuole superiori veronesi hanno testimoniato col loro silenzio sui riferimenti propriamente storici e col loro utilizzo, viceversa abbondante e rumoroso, dell’aggettivo medievale nelle forme involgarite e semplificate che abbiamo indicato.

La ‘voglia di medioevo’ che l’attualità testimonia poggia in realtà su un equivoco. Si chiede cioè spesso quel medioevo che sub specie utilitatis è in grado di dare risposte adatte o fornire testimonianze in linea con le proprie convinzioni e i propri desideri. La sua insidiosa presenzialità, spesso assai poco legittimamente fondata, necessita di correttivi che la scuola ha il dovere di indicare, altrimenti il vuoto colpevolmente lasciato dai responsabili primi dell’istruzione e della formazione è destinato ad essere colmato da contenuti pseudo-culturali al soldo delle mode del momento. L’azione didattica andrà però condotta in modo scientifico, vale a dire nel rispetto delle fonti, senza il quale non può esserci – né si può far crescere nei più giovani – autentico senso storico.

La domanda sul rapporto ricerca-insegnamento è  essenziale e urgente, ma ne presuppone un’altra che la  anticipa e la supera. Dobbiamo cioè interrogarci sul ruolo che legislatori, insegnanti e genitori - ciascuno all’interno delle proprie competenze – assegnano allo studio della storia medievale nella costruzione della coscienza storica.  D’accordo con Corrao, dobbiamo chiedere a voce alta se si ritiene ancora che tali studi siano parte ineliminabile della formazione di base o se ci si orienta verso la loro considerazione in termini di circoscritto specialismo.

Oggi il medioevo scolastico risulta collocato nella parte terminale del primo anno delle medie inferiori e degli istituti d’arte, e di fatto spezzato fra biennio e triennio e alle superiori. Nel primo caso spesso è il maxi-argomento che rappresenta il punto di non arrivo della programmazione (e lo sgradito compito per le vacanze estive); nel secondo caso diventa oggetto di un poco elegante scarica-barili in quanto l’insegnante della classe seconda, che non fa a tempo a darne appieno l’idea della complessità, rinvia molti concetti all’anno successivo quando (cambiato il docente, essendo generalmente le cattedre spezzate fra biennio e triennio) il collega che subentra, preoccupato dalla vastità cronologica del programma che gli si para davanti, spesso richiama per sommi capi solo alcune idee-guida e rimanda a qualche capitolo di sintesi.

Non è questione di programmi, lo sappiamo. È prima di tutto questione di chi dà veste pratica alle parole dato che è sempre e solo affidata agli insegnanti la sorte – e con essa la dignità -  della disciplina che insegnano. Ma anche agli insegnanti va insegnato ad insegnare, vale a dire innanzitutto a programmare coniugando le esigenze di rigore scientifico,  quelle di una didattica adeguata ad una scuola di massa, quelle dei limitatissimi tempi a disposizione.  Qualcosa di poco lontano dalla quadratura del cerchio.

Alle domande fatte sopra se ne aggiunge allora un’altra, sul destino delle scuole per insegnanti, quelle SSIS (Scuole di Specializzazione per la formazione degli Insegnanti della scuola Secondaria) previste da una legge del 1990[13], faticosamente avviate nelle diverse sedi universitarie a partire dall’a.a. 1999/2000 e che oggi rappresentano il solo punto d’incontro della dimensione culturale con quella professionale in un percorso serio di formazione dei docenti della scuola media inferiore e superiore.

La domanda è più che mai attuale nel momento in cui si discute con varie proposte sia di ridefinizione complessiva del sistema scolastico sia di riforma delle SSIS, per le quali l’orientamento sembra prevedere preminenti finalità di approfondimento disciplinare in corsi di laurea specialistica[14].  Sulla scorta di quanto abbiamo detto finora, due elementi  almeno vanno chiariti nell’ambito delle nuove norme. 

Il primo chiarimento riguarda – ed è ciò che in questa sede interessa primariamente – in modo specifico il medioevo. Quale ruolo sarà attribuito a quest’età nei ‘fondamenti epistemologici’ e quali spazi saranno lasciati alle sue strutture instabili (per dirla con Tabacco) e alle sue tante periodizzazioni[15]? Quanto interessa ancora assicurare a tutti i cittadini/studenti una alfabetizzazione storica corretta in cui ci sia posto – e un posto dignitoso – anche per il medioevo?

L’insegnamento universitario è ovunque diviso in ambiti cronologici specifici, mentre nella SSIS si ha una storia unica, senza cesure cronologiche né tipizzazioni. Dalla lettura dei programmi dei corsi attivati in questi anni in tutta Italia si vede però che in più di un caso il docente SSIS, quando è un accademico, fa riferimento ad una delimitata area cronologica[16] sulla base delle sue specifiche competenze. È questo un problema aperto, che fra contraddizioni e anomalie rischia di creare pericolosi vuoti o ridondanze inutili. Va probabilmente perseguita l’idea di sottoporre a discussione insieme agli specializzandi - nell’area epistemologico-didattica che è quella in cui gli insegnamenti sono quasi esclusivamente ricoperti da universitari - le diverse periodizzazioni perché proprio nella molteplicità delle fratture cronologiche di volta in volta suggerite dalla ricerca storiografica si possono riconoscere gli elementi di specificità su cui poi lavorare didatticamente. Qui va dato spazio agli specialisti (parola che troverebbe in questo contesto il suo significato più vero, contrariamente a quello deteriore con cui è spesso usata nelle SSIS, dove non di rado è diventata sinonimo di accademico chiuso nella sua torre d’avorio e distante anni luce dalla scuola), i più indicati a individuare gli snodi tematici, i tornanti significativi che sono davvero ‘saperi essenziali’ della storia / delle storie.

Il secondo chiarimento investe la disciplina nel suo insieme: non basta infatti sapere la storia per saperla insegnare, perché paradossalmente la storia insegnata è qualcosa di intrinsecamente ‘diverso’ dalla storia studiata all’università, anche se ad essa fa costante riferimento. 

Nella SSIS le attività sono articolate in quattro aree: l’area 1, o area comune, di ‘formazione per la funzione docente’; l’area 2 per le didattiche disciplinari, l’area 3 per i laboratori didattici, l’area 4 per la pratica di tirocinio nelle scuole. La storia è presente in tutte le aree tranne la prima: nei corsi di didattica disciplinare si pongono i fondamenti, nel laboratorio si progetta virtualmente, nel tirocinio si sperimenta in pratica. Uno dei punti di forza della Scuola di Specializzazione è stato proprio quello di mettere in comunicazione il mondo della ricerca con quello dell’insegnamento reale attraverso questi percorsi incrociati. Dico ‘è stato’, parlando al passato, perché il meccanismo universitario del 3+2 (laurea breve + specializzazione) ha di fatto paralizzato l’orizzonte di movimento e rischia ora di chiudere questa faticosa sperimentazione - certo piena di difetti e da migliorare, ma mai fallimentare come documentano tutte le esperienze di cui sono stata testimone diretta - nell’esclusivo ambito universitario della laurea specialistica, annullando quanto di vitale il dialogo fra docenti universitari, supervisori di tirocinio e docenti accoglienti aveva cominciato a produrre.

Il profilo professionale dell’insegnante si sviluppa senz’altro – e, oserei dire, prima di tutto perché chi niente ha niente può dare – attraverso la conoscenza e la padronanza delle specificità epistemologiche e metodologiche della sua disciplina, ma non si esaurisce qui. La scuola vera (non quella talvolta immaginata nei libri dei pedagogisti o sui tavoli di ministeri e sindacati) si aspetta dal docente la capacità di applicare, governare e combinare strategie didattiche e gestionali diverse, in relazione al preciso contesto in cui si trova ad operare. Nello specifico gli chiede di trasferire i contenuti della storia-ricerca in pratiche esperte della storia-insegnata[17], sapendo dialogare con allievi, colleghi, famiglie.

Il confronto che oggi vede disciplinaristi versus pedagogisti (semplificazione certo rozza ed eccessiva, ma funzionale ad evidenziare due opposte strategie di pensiero), ciascuno arroccato in difesa delle proprie esclusive priorità, rischia di radicalizzare le posizioni e polarizzare negativamente i piani di studio o sulle sole conoscenze (meglio se enciclopediche) individuate dalla tradizione degli studi storici o sui soli metodi (il saper fare di un goffo studente – storico in miniatura) privati di adeguati contenuti. Viene così a mancare quello che dovrebbe invece essere lo specifico della SSIS, cioè il terreno d’incontro tra la dimensione scientifica e quella didattica.

La reazione dell’anomalo insegnante-studente che è l’attuale iscritto SSIS sarà allora quella, perfettamente fotografata da Francesco Senatore[18], in pericolosa oscillazione tra l’inutilità (in quanto si trova a rivisitare informazioni già note) e la rassegnazione (in quanto si sente destinatario di vuote e asettiche teorie), in ciò vivendo un beffardo contrappasso preventivo della situazione scolastica in cui – ma dall’altra parte della cattedra – egli poi si troverà ad operare.

Infine la tendenza (che oggi pare vincente) a intendere il tirocinio come attività separata, scorporandolo dal percorso integrato di formazione iniziale e rigettandolo in un confuso praticantato post specializzazione, di esclusiva competenza delle scuole e dei docenti tutor, depotenzia le SSIS e le espropria di un essenziale ancoraggio alle pratiche professionali vere. Nessun approfondimento, per quanto serio e avviato con le migliori intenzioni – sia esso di storia, di pedagogia o di didattica – da solo potrà avere l’efficacia di quello combinato con l’esperienza diretta in classe.

Se è vero che non si impara ad insegnare una volta per tutte, ma lo si fa giorno per giorno, è ancor più vero che non lo si può certo rappresentare mentalmente stando chini sui libri o simulandolo in un laboratorio didattico. Le opportunità offerte dalla pratica contribuiscono in modo significativo a far sì che il futuro docente più che un Dotto voglia e sappia essere un Maestro[19]. Per questo il tirocinio dovrebbe restare in circolo, perché, dopo la sperimentazione in situazioni virtuali (i laboratori), rappresenta la messa in pratica dell’esperienza, la sua validazione, la possibilità di discuterla, confermarla o correggerla, modificandola sotto la guida di un docente esperto e disponibile. Va dunque salvaguardato il confronto con gli altri segmenti della formazione, all’interno di un percorso condiviso e non imprudentemente autoreferenziale.

Università e scuola sono realtà che dovrebbero essere istituzionalmente collegate, ma che nel quotidiano ancora vivono su pianeti separati. Proprio nella storia medievale si può misurare lo spazio che separa il mondo della ricerca da quello dell’insegnamento e le storture che tale scollamento produce. In anni di non-dialogo molte barriere sono state alzate da entrambe le parti e molti sospetti reciproci rendono faticosa la comunicazione, eppure su entrambi i versanti sottovoce si riconosce che lavorare con l’ ‘altro’ sarebbe utile e produttivo: non si tratta di abbattere il muro, ma solo di trovare la porta.

L’occasione delle SSIS – che mi rifiuto di etichettare come ‘mancata’ – è ancora un’occasione aperta. Passa anche, e forse soprattutto, da qui la possibilità della sopravvivenza di una cultura storica corretta e dignitosa nelle nostre scuole: anche per gli insegnanti – oltre che, ovviamente, per gli storici di professione – vale l’appassionato invito[20] a vigilare affinché la libertà della memoria non resti, di qui a poco, solo privilegio dei poeti.

 


Note

[1]Sul sito del MIUR www.istruzione.it; le Indicazioni nazionali indicano “i livelli essenziali di prestazione a cui tutte le scuole secondarie di primo grado del Sistema Nazionale sono tenute”

[2]Una fotografia recente dell’universo giovanile è quella offerta da Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, a cura gi G. Buzzi – A. Cavalli – A. De Lillo, Il Mulino, Bologna 2002; puntano direttamente al rapporto giovani-storia scolastica P. Ginsborg, Qualche riflessione sull’insegnamento della storia nelle scuole italiane, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione” 1997, in www.aretusa.org/doc.7 e L Cajani, Tra passato e futuro. Adolescenti italiani alla ricerca del senso della storia, Atti del Convegno M.P.I. di Frascati (1998), in www.lumetel.it/lapira/seminario/pagine/frascati.   

[3]Sulla ‘storia caudataria’ nel panorama della scuola italiana vedi  A. Santoni Rugiu, Introduzione a J. Le Goff, Ricerca e insegnamento della storia, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 9-11

[4]I nuovi programmi di storia per i corsi di qualifica e post qualifica dell’Istruzione Professionale, D.M. 31/1/1997

[5]R. Iorio, La scomparsa del medioevo, in “Quaderni medievali” n. 44 (dicembre 1997), pp. 127-146

[6]Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione (approvata il 2 febbraio 2000) e Commissione di studio per il programma di riordino dei cicli dell’istruzione – Gruppo di lavoro dell’Aggregazione disciplinare storico-geografic-sociale

[7] Una parziale discussione di questi dati (riferita ad una sola scuola, la prima interessata dall’indagine) è in S. A. Bianchi, I nuovi insegnanti, i giovani e lo studio della storia: un’indagine nelle classi seconde di un istituto professionale alberghiero in provincia di Verona, in www.edscuola.it

[8]Si sofferma su questi temi P. Bevilacqua, Sull’utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Donzelli, Roma 1997

[9]Restano attuali le riflessioni di F. Cardini, Medievisti ‘di professione’ e revival neomedievale. Prospettive, coincidenze, equivoci, perplessità, in “Quaderni medievali” n. 21 (giugno 1986), pp. 33-52; più recentemente  ha smascherato molti luoghi comuni G. Sergi, L’idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 1998 (di cui si veda anche la discussione di G. Ricuperati in “Rivista storica italiana”, CXIV, fasc. II, 2002, pp. 569-576)

[10]La televisione sostituisce insegnanti e ricerca, La Stampa, 14 dicembre 2002

[11]Soprattutto il D.P.R. 275/99 che di fatto ha introdotto l’autonomia scolastica

[12]P. Corrao, Il medioevo e gli ‘altri’ storici, in www.retimedievali.it

[13]Legge 341 del 19 novembre 1990 (‘Riforma degli ordinamenti didattici universitari’) e poi D.M. 26 maggio 1998 (‘Criteri generali per la disciplina da parte delle Università degli ordinamenti dei corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario’); sull’accidentato iter dei provvedimenti attuativi vedi  G. Luzzatto, Insegnare a insegnare. I nuovi corsi universitari per la formazione dei docenti, Carocci, Roma 1999

[14]Art. 5 della ‘Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale’ approvato in senato il 13 novembre 2002

[15]G. Tabacco Il cosmo del medioevo come processo aperto di strutture instabili, in “Società e storia”, fasc. 7, 1980, pp. 1-33; G.M. Varanini, Il Medioevo occidentale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. I (Tempi Spazi Istituzioni), Einaudi, Torino 2002, pp. 73-91

[16]G. Albini, L’organizzazione della  didattica della storia nelle SSIS, in www.retimedievali.it 

[17]Tra le più recenti pubblicazioni in tema vedi P. Di Cori, Insegnare di storia, Trauben, Torino 1999; La storia nella scuola. Ricerca storica ed esperienze didattiche, a cura di S. Carmo,  Marietti, Genova-Milano 2002;   P. Corrao – P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Donzelli, Roma 2002;  S.A. Bianchi – C. Crivellari, Nessun tempo è mai passato. La mediazione didattica tra storia esperta e storia insegnata, Armando, Roma 2003

[18]F. Senatore, La formazione degli insegnanti di storia. Difficoltà e ambiguità nel rapporto tra università e scuola, in www.retimedievali.it

[19]U. Margiotta, Lettera del direttore, in Guida dello Specializzando della SSIS Veneta, a.a. 2001-2002, Pensa MultiMedia, Lecce 2001, p. 9

[20]L’invito è quello lanciato nel 1977 da Mario Del Treppo, La libertà della memoria, introduzione a M. Cedronio – F. Diaz – C. Russo, Storiografia francese di ieri e i oggi, Guida, Napoli 1977, p. XLVII


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Ultimo aggiornamento: 27/4/03

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