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Discussioni

Giovanni Vitolo
Non è di nuovo la solita storia

2003 - Giovanni Vitolo

Il presente saggio fa riferimento all'intervento di Ivo Mattozzi, Pensare la nuova storia da insegnare, in "Società e storia" n. 98, 2002 (XXV), pp. 787-814 e apparirà nel prossimo numero della stessa rivista. L'autore e la direzione della rivista ne hanno consentito un'anticipazione su Reti Medievali.


Pur essendo io oggettivamente, per i motivi che risulteranno chiari più avanti, il principale bersaglio polemico del saggio di Ivo Mattozzi sull'insegnamento della storia, comparso nel numero precedente di questa rivista, non esito a definire il suo intervento quanto mai opportuno e utile in questa fase delicata dell'avvio della riforma della scuola, voluta dall'attuale governo in contrapposizione con quella varata dai governi dell'Ulivo con i ministri Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, ma bloccata al momento della sua partenza, all'inizio dell'estate del 2001, dal nuovo ministro Letizia Moratti: intervento utile perché, contrariamente a quello che pensa Mattozzi, ritengo che conservi ancora oggi tutta la sua attualità il mio appello affinché "nessun dorma", rivolto agli storici nel febbraio del 2001. In altri termini, per quanto riguarda l'insegnamento della storia, non potevamo dormire sonni tranquilli con i governi dell'Ulivo, non possiamo farlo ora e forse non potremo farlo mai. Tanto vale perciò ragionare con calma e bandire i toni apocalittici e ogni forma di esasperazione, che portano fuori strada e non aiutano a risolvere i problemi.

Gli storici che hanno dedicato negli ultimi anni e dedicano tuttora particolare attenzione al problema dell'insegnamento della storia (per indicare i quali userò di qui in avanti per comodità la definizione, peraltro oggi abbastanza diffusa, di didatti della storia) hanno ragioni da vendere quando denunciano:

a) i risultati deludenti dell'insegnamento così come oggi viene per lo più praticato;
b) lo scarso interesse degli storici di mestiere per la preparazione dei futuri docenti;
c) la solitudine in cui si trovano ad operare i docenti di scuola, schiacciati tra la prescrittività dei programmi ministeriali, il disinteresse degli studenti e lo scarso numero di ore a disposizione.

Né si può dare loro torto quando rivendicano il merito di avere avviato molteplici forme di sperimentazione e di avere svolto un ruolo attivo all'interno della Commissione di 260 esperti creata da De Mauro nel giugno del 2000 per la messa a punto del programma di riordino dei cicli di istruzione: furono essi infatti ad elaborare, nell'ambito del gruppo di lavoro per la storia, la geografia e le scienze sociali coordinato da Dario Antiseri, un progetto organico di riorganizzazione dell'insegnamento della storia basato sul superamento della tradizionale triplice ricorsività in senso cronologico dalla preistoria all'età contemporanea (alle scuole elementari, alle medie e alle superiori), che essi avrebbero voluto sostituire, nell'ambito dei due cicli previsti dalla riforma Berlinguer-De Mauro (scuola di base e scuola secondaria), con tre tipi di studio ben differenziati:

a) quadri di società (società di raccoglitori e cacciatori, società agricole e pastorali, società industriali e postindustriali), da studiare al terzo e al quarto anno della scuola di base,
b) storia generale in senso cronologico-lineare dall'Antichità al Novecento e con una prospettiva di storia mondiale (cinque anni, corrispondenti agli ultimi tre della scuola di base e ai primi due della secondaria),
c) moduli tematici (ultimi tre anni della scuola secondaria).

La loro proposta non era improvvisata, ma aveva alle spalle sia una fase lunga e meritoria di sperimentazione, condotta attraverso gli Istituti di storia della Resistenza, alcune sedi regionali dell'IRRSAE e associazioni di varia natura e ispirazione, sia la recente esperienza degli istituti professionali, nei quali già dal 1997 vige un ordinamento ispirato agli stessi principi e circolano libri di testo che danno un'idea chiara di quello che secondo i riformatori della commissione avrebbe dovuto essere l'insegnamento della storia in tutti gli altri ordini di scuola. Ma proprio questi libri di testo e i risultati deludenti (secondo alcuni catastrofici) conseguiti negli istituti professionali, nei quali quelli che eufemisticamente possono essere definiti approfondimenti si sono concentrati, come era prevedibile, su temi di storia contemporanea, unitamente al carattere a dir poco pasticciato del primitivo testo ministeriale pervenuto alla stampa, provocarono una spontanea e convergente presa di posizione da parte di storici di diversa formazione e orientamento politico, ma animati da passione civile e da vivo interesse per le sorti della nostra scuola, i quali, con il documento Insegnamento della storia e identità europea, meglio noto come "Manifesto dei 33", e con interventi su vari giornali espressero all'allora ministro De Mauro tre preoccupazioni:

a) che l'apertura ad una visione mondiale dello sviluppo storico, di per sé un fatto positivo, potesse essere attuata in modo da non valorizzare appieno l'identità italiana ed europea, ma appiattendo le diversità di valori e conquiste civili;
b) che il troppo poco spazio lasciato al mondo greco-romano e a quello medievale, studiati una sola volta all'età di dieci anni e messi sullo stesso piano delle civiltà dell'Africa subsahariana e dell'Amazzonia, creasse un vuoto nella preparazione culturale di giovani che vivono in un contesto, quello italiano, fortemente segnato nel paesaggio e nella cultura dal retaggio di quelle età;
c) che i generici approfondimenti del triennio finale della Secondaria non fossero sufficienti ad integrare il quadro concettuale e cronologico acquisito attraverso lo studio della storia fatto all'età di 10-14 anni nella scuola di base, portando all'appiattimento su una contemporaneità priva di spessore storico.

Il ministro invitò i contestatori a passare dal fronte del rifiuto all'elaborazione di un progetto organico alternativo, impegnandosi a tenerlo in debito conto soprattutto in vista del passaggio successivo della riforma, vale a dire la definizione dei programmi della scuola secondaria: cosa che fu fatta ad opera di nove di quei sottoscrittori, che ne affidarono a me la stesura materiale, per la quale si rivelò molto prezioso il materiale raccolto da Girolamo Arnaldi al tempo della Commissione Brocca. Alcuni di loro, inoltre, vale a dire lo stesso Arnaldi, Massimo Firpo, Paolo Prodi, Marco Tangheroni e chi scrive, furono inseriti per l'occasione nella commissione ministeriale , che fu potenziata nel suo complesso, passando da 260 a 350 membri, e che si riunì l'ultima volta a Fiuggi nell'aprile del 2001, circa un mese prima della fine della legislatura e della cancellazione dell'intero progetto di riforma Berlinguer-De Mauro. In quell'occasione, alla presenza dello stesso De Mauro, di Antiseri e dei vertici del Ministero, le distanze tra i "tradizionalisti" (come ci chiama Mattozzi) e gli "innovatori" (tra i quali era assente in quell'occasione Mattozzi) si ridussero alquanto attraverso un lungo e animatissimo confronto, che portò all'individuazione di alcuni correttivi, destinati ad essere introdotti in sede di attuazione della riforma, che intanto sarebbe partita nel settembre di quell'anno con il solo biennio del primo ciclo, che non prevedeva (come non prevede tuttora) l'insegnamento della storia, mentre era ancora da varare il progetto per il secondo ciclo, quello della scuola secondaria. Gli accordi allora raggiunti, che non sono stati mai ufficializzati e che ora per la prima volta ho l'opportunità di rendere noti ad un più largo pubblico, erano i seguenti:

a) attenuazione del carattere prevalentemente sociologico dei cosiddetti quadri di società, con l'introduzione di una chiara prospettiva storica, in modo da evitare il rischio di assimilare società assai lontane tra loro nel tempo e nello spazio e che avevano in comune, nel caso di quelle etichettate come agricole e pastorali, solo l'esistenza di pastori e contadini;
b) apertura alla dimensione mondiale della storia, ma senza eliminazione della prospettiva eurocentrica, bensì con l'obiettivo della costruzione di molteplici identità: locale, regionale, nazionale, europea, mondiale;
c) maggiore spazio nel quinto anno della scuola di base al mondo greco-romano e a quello medievale, mediante un'anticipazione al precedente biennio dello studio delle civiltà più antiche;
d) approfondimenti tematici nel triennio finale destinati a questioni di grande rilevanza storiografica e non schiacciate sulla contemporaneità, ma trattate con taglio diacronico dall'antichità ai nostri giorni.

Il cambio di governo ha mutato lo scenario complessivo, determinando da parte dell'attuale ministro e dei suoi collaboratori, tra i quali - stia tranquillo Mattozzi - non c'è nessuno dei nove estensori del progetto alternativo a quello del gruppo di lavoro Antiseri, un vivo interesse proprio per il nostro progetto, che così è riemerso dal naufragio della Commissione De Mauro, per cui chi scrive si è sentito in dovere, pur essendo lontanissimo dall'attuale maggioranza di governo, di accettare l'invito della Moratti ad entrare a far parte della nuova commissione di 265 membri da lei creata. Basta questo a farmi dormire sonni tranquilli? Purtroppo no, perché negli ultimi due anni si è registrato un calo di tensione ideale intorno alla riforma della scuola e risulta più difficile individuare i propri interlocutori, essendo ora aumentato il peso esercitato dai partiti di governo, attraverso i loro responsabili di settore, rispetto a quello dei consulenti e dei membri della commissione ministeriale, la quale è stata finora impegnata nella sola definizione del profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo e del secondo ciclo di istruzione. Non è ancora chiaro perciò se e come i suoi membri avranno una qualche parte nella stesura dei documenti ministeriali, e forte è il rischio che le indicazioni contenute nel nostro progetto del 2001 siano banalizzate e depotenziate dei loro elementi innovativi, che non sono pochi, checché ne dica Mattozzi.

E a questo punto, esaurita sbrigativamente, ma, spero, in maniera sostanzialmente corretta, la ricostruzione di quanto è avvenuto nel recente passato, è necessario entrare nel merito delle questioni di sostanza sollevate da Mattozzi e che ci devono vedere tutti impegnati, tradizionalisti e non ("nessun dorma", appunto), nel mettere a frutto le discussioni e le esperienze di questi ultimi due anni. Che ci siano ora tutte le condizioni per procedere in questa direzione, è dimostrato dalla comparsa nella primavera di quest'anno di un volume di Silvana Anna Bianchi e Cinzia Crivellari, dal titolo Nessun tempo è mai passato. La mediazione didattica tra storia esperta e storia insegnata (Roma, Armando editore, 2003), esemplare per equilibrio, chiarezza espositiva e ragionevolezza delle proposte: volume che mette pienamente a frutto sia quello che è stato scritto e fatto finora dai didatti della storia sia quanto è stato realizzato dalle due autrici nella loro esperienza di docenti di scuola superiore, di studiose di storia veneta e di docenti nella Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti della Scuola Secondaria del Veneto.

Partendo dal presupposto che la riforma della scuola non sarà fatta ad ogni cambio di maggioranza politica e che quindi i due cicli di insegnamento della storia con taglio cronologico previsti dal progetto Moratti (entrambi di cinque anni: il primo, coincidente con gli ultimi due anni della scuola elementare e con i tre della media; il secondo coincidente con i cinque della scuola secondaria) dureranno per un bel po', si tratta di discutere e di addivenire ad una proposta largamente condivisa tra storici e insegnanti di storia su come caratterizzarli, per evitare, da un lato, un'impostazione troppo eurocentrica e ogni forma di forzatura nella ricerca dei fattori e delle ragioni che hanno fatto l'Europa, e dall'altro una ripetitività, che è generatrice di noia e quindi di disinteresse da parte degli studenti.

Innanzitutto i due cicli da noi proposti hanno impostazione e carattere molto diversi, per cui ricorsività non significa ripetitività. Come abbiamo scritto, nel primo ciclo l'obiettivo primario è lo sviluppo nei ragazzi della capacità di:

- cogliere i segni che le varie epoche hanno lasciato nel paesaggio urbano e rurale, e quindi la diversità degli impianti urbanistici, delle tecniche costruttive e degli stili architettonici, in modo che le diverse epoche siano istintivamente identificabili con determinati edifici e strutture urbane (l'impianto ortogonale della città greco-romana, quello vario e a volte intricato della città medievale, i grandi assi di penetrazione dell'età moderna e contemporanea);
- collocare fatti, personalità e fenomeni nel tempo e nello spazio, al di fuori dei quali sono privi di senso;
- riconoscere in fatti e fenomeni anche lontani nello spazio e nel tempo nessi ricorrenti e strutture durevoli nonché la molteplicità dei tempi storici.

Per rendere possibile il raggiungimento di questo obiettivo, abbiamo individuato come indispensabile sul piano didattico un'organica connessione tra il tradizionale metodo narrativo e gli strumenti forniti da discipline quali la geografia, l'antropologia, l'archeologia e la storia dell'arte.
Nel secondo ciclo, quello coincidente con la scuola secondaria (che sarà articolata in otto licei), a queste discipline pensiamo che si debbano aggiungere la sociologia, l'economia, il diritto e la politologia. Nello stesso tempo si dovrà curare con particolare attenzione il raccordo con l'insegnamento della letteratura, della filosofia e della geografia; e ciò a prescindere dal collegamento che, attraverso le nuove classi di concorso, si farà della storia con l'italiano, la filosofia o la geografia. L'obiettivo principale dello studio della storia diventa infatti nel secondo ciclo la conoscenza dei caratteri delle società che hanno prodotto le testimonianze che lo studente ha imparato a cogliere e a collocare nel tempo e nello spazio. La scuola secondaria è, inoltre, il momento in cui l'approccio al sapere storico si avvicina di più al metodo scientifico proprio degli storici, per cui, da un lato, si dovrà far leva sull'idea della storia-problema, attraverso l'individuazione di grandi questioni capaci di suscitare la curiosità e l'interesse dei ragazzi, dall'altro si dovrà mirare all'acquisizione della consapevolezza del carattere complesso e quindi problematico del dato storico, la cui comprensione richiede un adeguato sviluppo dello spirito critico, inteso come capacità di formulare un giudizio personale. In questa fase della sua formazione (e non in quella precedente) lo studente dovrà essere messo in grado di accedere anche al piano delle interpretazioni storiografiche, attraverso la lettura di opere particolarmente significative e il confronto delle varie forme di informazione.

Come si vede, ricorsività e approfondimenti tematici non sono affatto incompatibili, e soprattutto non si caratterizzano in senso ideologico, come se la ricorsività fosse di destra e i moduli tematici di sinistra. Per impostare correttamente il problema, è necessario partire da alcuni punti fermi e da una considerazione realistica della scuola italiana, di cui gli "innovatori" non mi sembra che abbiano una adeguata conoscenza, dato che scambiano le punte di eccellenza costituite dai docenti più impegnati e desiderosi di sperimentare strade nuove con la condizione dell'insieme del corpo docente. Come giustamente hanno osservato le autrici del volume dianzi citato, "il mondo della scuola continua ad essere un universo estremamente variegato, nel quale, accanto a insegnanti "di qualità" che concepiscono la loro pratica didattica come continua ricerca disciplinare e metodologica, sopravvivono sacche di conservazione e di acritico rifiuto di ogni innovazione". I miei figli, che hanno studiato in scuole pubbliche, hanno conosciuto docenti di valore assai ineguale, anche se tutti percettori dello stesso stipendio: alcuni "di qualità", altri mediocri, altri pessimi, che mai avrebbero dovuto mettere piede in una scuola sia perché del tutto inadatti a svolgere attività educativa sia perché dotati di una conoscenza molto approssimativa delle discipline che avrebbero dovuto insegnare. Anch'io li ho conosciuti bene, perché ho sempre creduto e credo tuttora nell'importanza del rapporto scuola-famiglia, e penso a loro quando leggo gli esempi assai belli di modulo proposti da Bianchi e Crivellari e da altri eccellenti docenti che credono nel loro lavoro e lo fanno bene, come ad esempio quelli che hanno il loro punto di riferimento nella rivista "Linea Tempo" e che hanno raccolto le loro esperienze nel volume La storia nella scuola. Ricerca storica ed esperienze didattiche (a cura di S. Carmo, Genova-Milano, Marietti, 2002).

Un insegnamento per moduli tematici così come vengono esemplificati nei volumi fin qui citati e nei tanti scritti dei didatti della storia presuppone un impegno di progettazione e una disponibilità di mezzi (soprattutto libri, riviste, giornali), che nella maggioranza dei casi non esistono in misura adeguata. Moltissimi docenti di storia non hanno né la preparazione sufficiente né, quello che è più grave, la passione necessaria per superare le tante difficoltà che soprattutto in determinate aree del nostro paese sorgono quando si cercano libri, spazi adeguati, strumenti di lavoro. La cosa evidentemente non spaventa Mattozzi, il quale lascia intendere chiaramente alla fine del suo saggio che in loro soccorso verrebbe l'industria editoriale, che, oltre ai manuali, produrrebbe volumetti con temi di approfondimento (e infatti nella primavera del 2001 si diceva che una casa editrice ne avesse già pronti sei per ogni anno di scuola): volumetti rispetto ai quali in non pochi casi docenti e studenti finirebbero con il porsi in un atteggiamento passivo (lezione frontale e relativo apprendimento mnemonico) non diverso da quello che viene denunciato come indotto dal manuale, per cui anche quelli che dovrebbero essere strumenti didattici destinati a sviluppare lo spirito critico finirebbero con l'essere considerati depositari della verità. Di conseguenza: niente enucleazione spontanea dei problemi dalle fonti da parte dei discenti, niente collegamento con la realtà del territorio, ma solo disposizione diversa della materia e approfondimento di temi in qualche maniera già presenti nel manuale; il tutto condito con il classico confronto di tesi storiografiche sull'argomento, peraltro già in auge nei buoni licei degli inizi degli anni Sessanta, nei quali circolavano, accanto ai manuali, le antologie di critica storica di Armando Saitta e Carmelo Bonanno.

La soluzione allora non è quella di imporre a tutti i docenti quello che non possono o non vogliono fare, ma elaborare una proposta veramente realizzabile e per giunta più aderente alla scuola dell'autonomia che si dice di voler promuovere, ma che poi tutti, dal ministro di turno agli innovatori, fanno a gara per vanificare, ponendo ad essa vincoli di ogni genere: una proposta che consenta, da un lato, di continuare con la tradizionale lezione frontale integrata, come avviene già oggi in tanti casi, con ricerche legate alla realtà del territorio e ai problemi del presente, dall'altro di organizzare un insegnamento per moduli, ma disposti su lunghi archi temporali e suscettibili di aprire "spiragli di intelligibilità" su realtà più ampie, a voler adoperare una espressione coniata da Gabriella Rossetti nell'ambito di quella che i didatti chiamano "storia esperta" (per distinguerla da quella insegnata a scuola) e della quale faccio ormai da tempo un largo uso.

Nel progetto presentato al ministro De Mauro indicavamo molti temi, tra i quali mi piace ricordare in questa sede quello dei "caratteri e trasformazioni dei ceti dirigenti": un tema che consentirebbe di muoversi su un lungo o lunghissimo (a seconda degli interessi del docente) arco cronologico, recuperando nello stesso tempo anche elementi importanti di storia economica, culturale e religiosa. Un tema che può anche configurarsi non come modulo specifico, ma come semplice filo conduttore dello studio della storia su un lungo arco cronologico e intorno al quale costruire un progetto che coinvolga anche i docenti di altre discipline, quali la letteratura (greca, latina, italiana, straniera), la filosofia, la religione.

Ma a tal riguardo c'è, o potrebbe esserci, una novità di grande interesse. Sta emergendo, infatti, proprio in questi giorni nella cerchia dei collaboratori del ministro Moratti la tendenza a rafforzare, nell'ambito dei licei, il carattere del quinto anno come anno di raccordo con la fase successiva di formazione (universitaria e non) e quindi dotato di una propria configurazione autonoma sul piano didattico. Ebbene esso, per quanto riguarda la storia, potrebbe essere organizzato proprio sulla base dell'insegnamento per moduli e privilegiando due elementi caratterizzanti:

a) ampio sviluppo cronologico, in modo da riprendere e approfondire argomenti trattati all'inizio del percorso liceale;
b) collegamento stretto con il tipo di liceo, per cui, ad esempio, allo scientifico e al tecnologico si potrebbe puntare su temi legati alla cultura scientifica e alle strutture dell'economia, al classico su quelli più vicini alla produzione culturale e artistica, e così via dicendo.

A prescindere, comunque, dalla configurazione che avrà il quinto anno del liceo, è da chiarire qui un punto, dal quale ancora una volta tutti dicono di voler partire, ma dal quale non si traggono poi le dovute conseguenze. Il punto è che non è possibile insegnare tutta la storia, per cui è inevitabile una selezione: selezione che spesso viene fatta meccanicamente, sulla base del tempo disponibile, per cui si studia fino ad un certo punto del programma e del libro di testo, lasciando poi al docente dell'anno successivo la responsabilità di decidere se riprendere il discorso nel punto in cui si è interrotto l'anno prima o far finta di niente e svolgere il solo programma di sua competenza, con le conseguenze che è possibile immaginare ai fini della completezza della preparazione degli studenti. La selezione è invece un'operazione assai delicata, da fare nell'ambito della programmazione e quindi della responsabilità del docente, il quale, nel perseguimento delle finalità dell'insegnamento della storia, deve essere libero di costruire il percorso da lui ritenuto più adatto al luogo, al tempo e, nel caso della scuola secondaria, al tipo di liceo in cui opera, guidando gli studenti ad andare su e giù per il manuale, smontandolo e rimontandolo o integrandolo con altri testi, ma mostrando nello stesso tempo che tutto quello che riguarda l'uomo è terribilmente complesso e che il punto di vista scelto è solo uno dei tanti possibili.

A questa perdurante utilità del manuale anche in un insegnamento di tipo nuovo è da aggiungere anche un'altra considerazione. Molti studenti non leggeranno o non porteranno più a casa libri di storia, per cui il vecchio manuale del liceo resterà l'unico strumento per recuperare o approfondire, per i motivi più vari, nozioni di storia, specie se esso si lega al ricordo di qualche argomento di particolare interesse in riferimento alla storia locale o a problemi di attualità. Per non parlare poi della possibilità che esso offre, come qualche volta avviene, di far nascere l'interesse per la storia nonostante l'incapacità del docente di stimolarlo.

Il problema diventa allora quello della qualità dei manuali, che è naturalmente anch'essa molto varia, al pari di quella dei docenti, anche se purtroppo negli ultimi tempi tendono a somigliarsi sempre di più, e non solo nella veste editoriale. All'origine del fenomeno c'è la convergenza di due fattori che influenzano gli autori, i quali oggi per fortuna sono tanti (tra essi mi ritrovo anch'io) e non più i tre o quattro che nel passato si contendevano il gradimento dei docenti sulla base di considerazioni legate non solo all'efficacia didattica e alla chiarezza espositiva, ma anche alla loro caratterizzazione ideologica: da una parte gli editori, abituati a scrutarsi a vicenda, i quali premevano nel passato per far crescere il numero delle pagine, inserendo illustrazioni (non sempre pertinenti), schemi, box, riquadri, che spesso confondono gli occhi prima ancora della mente del lettore, mentre oggi cercano di farle diminuire, dall'altra i docenti, che in larga maggioranza sollecitano testi dalla scrittura sempre più semplice, adducendo come motivo la scarsa capacità di leggere dei giovani di oggi, e che presumibilmente non si metteranno alla ricerca di prodotti della storia esperta per organizzare moduli originali. La soluzione sarebbe data dall'offerta di una maggiore varietà di prodotti: da una parte manuali agili, che siano poco più che prontuari a disposizione di classi che sotto la guida di docenti volenterosi vogliano approfondire determinate tematiche servendosi contemporaneamente di altri testi, dall'altra manuali più complessi e flessibili, utilizzabili dal docente, con un minimo di impegno, per la costruzione di percorsi tematici ora di taglio prevalentemente economico-sociale, ora politico, ora religioso.

Si ritorna così, ancora una volta, alla figura del docente: una figura complessa, posta com'è al punto di incrocio di diverse esigenze e competenze. A lui si richiede non solo la conoscenza della psicologia, della disciplina da insegnare e della metodologia didattica, ma anche la consapevolezza dell'importanza e della delicatezza del suo ruolo nonché in alcune realtà difficili, purtroppo presenti in tante aree, e non sempre le più povere, del nostro paese, la disponibilità a fare il sociologo e l'assistente sociale, senza però che a questo corrisponda una adeguata gratificazione sul piano economico e del prestigio sociale. Ma per il docente di storia c'è un problema in più, che è specifico di questa disciplina. Il suo insegnamento, diversamente da quello del collega che insegna la matematica, la ragioneria o una lingua straniera, può essere efficace, e quindi contribuire a far sviluppare negli allievi lo spirito critico, solo se egli vive intensamente il proprio tempo ed è animato da una passione autentica per la dimensione umana nel suo complesso, la sola in grado di metterlo nelle condizioni di trarre fuori dal magazzino immenso della storia e del nostro presente, che si fa storia con una velocità impressionante, materiali e spunti per organizzare percorsi all'interno del manuale o per costruirne di completamente nuovi, attingendo ad altri testi e ispirandosi ai moduli creati dai didatti della storia e dai loro colleghi più esperti. Creiamo allora le condizioni per farlo lavorare bene, ma lasciamolo veramente libero e non cerchiamo di "modernizzarlo" ad ogni costo e in una sola direzione.

 

© 2000
Reti Medievali

Ultimo aggiornamento: 27/4/03

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