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Discussioni

V Workshop nazionale
“Medioevo e didattica”

Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore
15 aprile 2005


Barbara Garofani

Il medioevo a scuola: un problema di luoghi comuni?

La cultura contemporanea continua a usare il medioevo come un grande contenitore di luoghi comuni [1]: si tratta – riprendendo il titolo di un convegno organizzato dalla città di Torino nel 2000 [2] – di un medioevo “immaginario”, apparentemente più affascinante e accattivante di quello “reale”, di un medioevo fatto di miti, stereotipi e false immagini contrassegnati da un altissimo livello di pervasività.

Molti sono i soggetti che contribuiscono a formare questa cultura storica diffusa sul medioevo, ma fra tutti merita ovviamente particolare attenzione la scuola, perché è alla scuola che spetta il compito di formare i giovani per prepararli a interpretare in modo critico il loro futuro.

Le brevi riflessioni che seguono nascono dalle due prospettive che caratterizzano la mia attuale esperienza professionale, come supervisore dell’area linguistico-letteraria e docente di storia all’interno della Scuola Interateneo di Specializzazione (SSIS) di Torino e come docente di materie letterarie nella scuola secondaria di secondo grado. Mi è stato chiesto dagli organizzatori della tavola rotonda di incentrare l’intervento sugli stereotipi del medioevo [3] ancora presenti nell’insegnamento della storia medievale nella scuola secondaria. Dal momento che non esistono ricerche empiriche su come sia insegnata la storia all’interno delle classi, non posso far altro che proporre alcune riflessioni personali, iniziando col tratteggiare un breve profilo dei principali attori di un’ora di insegnamento di storia medievale in una normale scuola italiana: l’insegnante e gli studenti.

Che tipo di rapporto hanno gli insegnanti con gli stereotipi del medioevo? L’età media degli insegnanti attualmente in servizio in Italia, se non sbaglio, si aggira intorno ai cinquant’anni. Si tratta di persone, solitamente con una formazione umanistica di stampo gentiliano, con un corso di studi centrato prevalentemente sui contenuti di alcune discipline (italiano, latino, filosofia), che hanno studiato negli anni Sessanta-Settanta, interiorizzando non solo i contenuti e le linee storiografiche di quegli anni, ma anche il modello di didattica della storia allora prevalente, incentrato sulla trasmissione dei contenuti, con una scarsa riflessione epistemologica sulla storia e una debole consapevolezza dei processi cognitivi implicati e prodotti dallo studio di tale disciplina. Sono docenti che insegnano non solo storia medievale, bensì, in ambito storico, dalla preistoria all’oggi, e inoltre, nella scuola secondaria di primo grado, educazione civica, geografia e italiano, e in quella di secondo grado, a seconda della tipologia di scuola, educazione civica, italiano, geografia, latino, greco, filosofia. Nella scuola italiana, infatti, come noto, nei diversi ordini è previsto l’insegnamento di materie letterarie e manca una cattedra più specifica. Sono docenti dunque che si devono rapportare non solo con gli stereotipi della storia medievale, bensì anche con quelli della demografia australiana, di sant’Agostino, della ricezione di Montale e così via. Sono docenti che, nonostante la buona volontà, la motivazione e l’interesse, difficilmente riusciranno a tenersi aggiornati contemporaneamente sugli ultimi sviluppi storiografici, sui recenti punti fermi raggiunti dal dibattito critico letterario ecc.

Gli altri protagonisti dell’ora di storia sono ovviamente gli allievi, allievi che, come diverse indagini di più o meno ampio respiro hanno dimostrato, non amano in modo particolare la storia e, nello specifico, quella medievale, perché se proprio devono studiare questa disciplina, preferiscono rivolgere la loro attenzione al mondo contemporaneo [4]. Allievi che appartengono a generazioni che si trasformano a velocità esponenziale, allievi per i quali la scuola assume una posizione sempre più marginale rispetto ai luoghi in cui il sapere si forma e si trasmette, in molti casi allievi che sentono e vivono la scuola come una realtà estranea alla loro cultura giovanile. Come sottolinea Raffaele Simone[5]– e forse, proprio per questa tendenza vorticosa al mutamento, alcuni tratti da lui delineati nel 2000 non rispecchiano più gli attuali studenti – sono mutate, parallelamente alla rivoluzione informatica e mediatica, le gerarchie degli schemi percettivi e le forme di intelligenza dei giovani. Rafforzando l’ascolto e la visione simultanea delle cose e riducendo il ruolo della visione sequenziale, i media e non solo loro – pensiamo a Braveheart, Dungeon and Dragons, Tolkien – hanno stimolato e stimolano nelle nuove generazioni la cosiddetta intelligenza audiovisiva (spaziale, non lineare, non alfabetizzata) a scapito di quella legata al libro (lineare, astratta, alfabetizzata) [6]. Nella maggior parte dei casi, quando va bene, per i ragazzi sapere è essere in grado di restituire al docente parte del testo assegnato o della lezione svolta. Parlare, dire qualcosa. Una delle difficoltà maggiori dei nostri studenti – e forse non solo loro – è quella di creare delle categorie, di operare delle selezioni significative all’interno del materiale riversato loro addosso: tutte le informazioni sono poste su un medesimo piano [7]. È per questo che bisogna abituarli a chiedersi le ragioni di tutto, in modo tale da portarli a estrarre sempre la logica di ciò che si fa. Lavorare nel tempo per stimolare la loro capacità di elaborare strutture astratte e di familiarizzare con tecniche di ragionamento e di formalizzazione linguistica, associando però tutto questo sempre alla concretezza, al risvolto pratico e operativo.

Che tipo di rapporto hanno gli allievi con gli stereotipi del medioevo? È probabile, direi certo, che li abbiano assorbiti completamente, ma, è inutile dirlo, non lo percepiscono certo come un problema.

Un altro grande protagonista dell’insegnamento della storia è il tempo, o forse sarebbe meglio dire la lotta dei docenti contro il tempo. Un esempio. Prendiamo una seconda liceo scientifico di 25-30 allievi, classe per la quale il programma ministeriale prevede di svolgere – riprendendo i titoli dei capitoli del manuale – dalla crisi del III secolo alla crisi del Trecento, con un monteore di sessantacinque unità orarie scarse (unità che nella maggior parte dei casi sono ormai di cinquanta minuti). Una decina di ore si “perdono” fra uscite didattiche, progetti, elezioni, giornate autogestite dagli studenti e così via. Una quindicina sono destinate alle verifiche orali, perché è importante dedicare tempo all’esposizione a voce, alla costruzione di discorsi argomentativi, all’uso del lessico specifico, perché non capiti che gli studenti conoscano gli stereotipi del medioevo, ma non siano in grado di comunicarli agli altri. Alcune ore sono (o forse sarebbe più corretto dire dovrebbero essere) finalizzate all’insegnamento di educazione civica. Per cui restano circa trenta ore da dedicare alla trasmissione dei contenuti e alla costruzione del sapere, trenta ore di “spiegazione”, e chiunque abbia esperienza di scuola sa bene che trenta ore sono davvero poche, soprattutto dal momento che in buona parte della scuola di oggi si può considerare come utile solo il tempo a scuola e non si può fare affidamento sul lavoro personale degli studenti a casa.

Un ultimo richiamo a un’altra presenza costante in un’ora di storia, il manuale, che, come noto, è ancora il più diffuso strumento per l’insegnamento delle diverse discipline. Una presenza importante, in quanto benché si stiano sviluppando e diffondendo tra le nuove generazioni un linguaggio non preposizionale e un’intelligenza simultanea, benché la scuola debba dotarsi di nuovi strumenti didattici per potenziare altri tipi di intelligenze, debba educare all’immagine, maturare una pedagogia mediale includendo insegnamenti sui media nei curricula, tuttavia, anche in futuro i giovani, se vorranno avere la possibilità di inserirsi pienamente nella società, dovranno essere in grado di decodificare e scrivere un testo argomentativo, poiché il libro scritto è ancora alla base dei percorsi formativi di qualunque livello. A un manuale il docente chiede in primo luogo attenzione per i criteri pedagogici (chiarezza, interesse, partecipazione): forse questo dato può non essere condiviso da tutti, ma un manuale può essere un buon manuale dal punto di vista didattico, anche se l’aggiornamento storiografico e l’impostazione dei problemi storici non sono perfetti e del tutto corretti e viceversa. Molti manuali, nonostante visivamente siano avvicinabili a grandi ipertesti con finestre, box, approfondimenti, moduli tematici ecc., difficilmente riescono a presentare la storia nella sua problematicità e per lo più sono ancora fondati su una narrazione evenemenziale in cui prevale in modo netto il dato assertivo: una narrazione con voce narrante onnisciente e focalizzazione zero, priva di vuoti e lacune. L’insegnante, ovviamente, non deve lasciarsi imprigionare dal manuale, bensì dominarlo e, se necessario, smontarlo e ricomporlo. Ed è in questo senso che una corretta lettura degli stereotipi diventa davvero importante.

Entrando dunque nello specifico degli stereotipi, bisogna rilevare che alcuni cambiamenti in positivo vi sono stati: sia nei manuali sia negli altri strumenti didattici si rileva una maggior attenzione per l’aggiornamento storiografico e la correttezza dei contenuti. Quando ciò non accade in modo esaustivo ci si pone almeno il problema, introducendo delle sorte di correttori – ad esempio domande del tipo «Si può parlare di piramide feudale?» – come se il dibattito storiografico su quello specifico problema fosse ancora aperto.

Partiamo dalla definizione di medioevo e dei suoi limiti cronologici. In generale mi sembra che il concetto di periodizzazione come operazione culturale volta a dare ordine alla comprensione storica, l’inizio e la fine del medioevo, le possibili periodizzazioni interne, la nascita del concetto di medioevo in chiave negativa e i suoi successivi sviluppi, siano tutti fattori che possono essere dati per acquisiti all’interno della manualistica.

Osservazioni analoghe possono essere fatte per l’incontro latino barbarico. Il concetto di barbaro, l’incontro riuscito o mancato a seconda delle diverse situazioni fra la cultura barbara e quella latina, il problema religioso e i successivi sviluppi sono tutti tasselli di un mosaico abbastanza ben definito. Ciò non toglie che vi siano ancora manuali in cui i barbari sono presentati come belve «assetate di sangue», che travolgono il mondo ordinato e funzionante dei romani mandandolo in rovina.

Resiste con una certa persistenza la piramide feudale, presentata, come Antonio Brusa ha più volte sottolineato, dai manuali non solo italiani, ma di tutta Europa: vi sono piramidi feudali in manuali francesi, tedeschi, austriaci, russi, finlandesi, islandesi e greci. Il perché di tale fortuna è forse individuabile nella forza comunicativa della piramide stessa: essa costituisce «un’icona di straordinaria efficacia immaginativa per la rappresentazione del potere» [8]. La sua persistenza è legata al fatto di essere un modello semplice da trasmettere, anche se purtroppo l’informazione che trasmette non è corretta. E allora? C’è stato da parte degli storici un reale impegno nel creare modelli altrettanto spendibili sul piano didattico e al contempo corretti sul piano scientifico? La risposta non può che essere affermativa, anche se bisogna riconoscere che i canali di trasmissione nei confronti del mondo della scuola non hanno funzionato.
Consistente la presenza di una curtis – immancabilmente abitata da Bodo e dalla sua Ermentrude (ancora una volta un’immagine concreta, di facile comprensione e trasmissione) – una curtis rappresentata nella rigida separazione fra pars dominica e pars massaricia. Anche in questo caso si tratta di uno stereotipo largamente diffuso tanto nella manualistica italiana quanto in quella europea. Una curtis che presenta un sistema economico chiuso, di sussistenza o naturale, privo di commerci con l’esterno e fondamentalmente basato sul baratto. E ancora, in queste campagne troviamo frequentemente la grande e omogenea categoria dei servi della gleba, privi di mobilità e di dinamicità.

Temi su cui gli aggiornamenti storiografici sembrano essere stati abbastanza recepiti dal mondo della scuola sono la struttura dei castelli, la differenza che passa fra il castello delle favole, rinascimentale o “ottocentesco”, che solitamente abita l’immaginario dei ragazzi, e i primi castelli medievali, come pure la successiva evoluzione delle fortificazioni. Più incerta è invece l’analisi del rapporto esistente fra i castelli e il territorio, dei processi di incastellamento connessi con un altro stereotipo di difficile superamento, vale a dire il feudalesimo. Ancora una volta un netto contrasto fra la storia concreta dei fatti, raccontabile in modo semplice e consequenziale, e la storia problema.

Altro nodo importante è la storia della chiesa: essa compare all’improvviso in occasione delle origini (primi secoli), del monachesimo (VI secolo), della riforma gregoriana (XI secolo), della nascita degli ordini mendicanti (XIII). Una prima grande lacuna è il piano lessicale: per una realtà oggi poco e malamente conosciuta dai nostri allievi, manca un adeguato glossario che permetta di comprendere le differenze fra un monaco e un sacerdote, fra una pieve e un’abbazia. Stereotipo ancora fortemente presente è quello di una chiesa concepita subito come romana, pontificia e territoriale: raramente è sottolineata in modo adeguato l’importanza del ruolo rivestito dalla chiesa vescovile fino all’avanzato secolo XI. In conseguenza di ciò, anche Gregorio VII è ricordato più per il suo scontro con l’impero e con Enrico IV che per la sua opera di riforma che portò, adesso sì, ad avere una chiesa accentrata e monarchica, con la dipendenza da Roma di tutti i vescovi. In ambito religioso un tema sempre molto trascurato – non sarebbe allora forse meglio scegliere di non trattarlo? – è quello delle eresie. Prive di legami con la storia sociale o politica, con il contesto in cui si inseriscono, fanno la loro comparsa solitamente senza un motivo definito, poste tutte sullo stesso piano e prive di alcuna specificità o messaggio. E lo stesso si può dire degli ordini mendicanti di cui sono presentate quasi esclusivamente le due biografie dei fondatori.

Discorso analogo va fatto per il comune: non viene quasi mai spiegato il processo che ne determina l’origine e permane una certa difficoltà nell’identificare sul piano sociale i ceti che diedero vita a questa nuova istituzione politica e nel sottolineare la specificità dei comuni italiani rispetto al resto dell’Europa.

E ancora la storia materiale, spesso considerata più semplice e vicina agli interessi dei ragazzi, solitamente ridotta a un racconto banalizzante e privo di spessore. Un esempio è la storia dell’alimentazione che, come ha dimostrato la storiografia da qualche decennio a questa parte, offre ampie possibilità di riflessione e ben si presta anche sul piano didattico.

Com’è presentata l’alimentazione all’interno dei manuali? Tema inesistente o ridotto a finestre e focus ricchi di luoghi comuni, o presente nella forma descrittiva del «si mangia questo e quello», senza alcuno spazio per la riflessione del perché si mangi questo e non quello. Tre le prospettive presenti: in primo luogo l’alimentazione come curiosità, solitamente ridotta a qualche didascalia (tipica l’immagine del cane di Carlo Magno che ruba il cibo dalla mensa del suo padrone), in secondo luogo l’alimentazione come bisogno, come sussistenza. In tal senso vengono estese a tutto il medioevo immagini e fonti principalmente dell’alto medioevo, in quanto prevale la tradizione storiografica (i cui inizi si possono far risalire alla stessa epoca tardo medievale) che tende a rappresentare in tono catastrofico le vicende dell’alimentazione e le crisi di mortalità del medioevo. Nei manuali troviamo passi di Procopio di Cesarea sulla guerra greco-gotica, di Rodolfo il Glabro, di cronache sulla crisi del Trecento con racconti che senza dubbio colpiscono l’immaginazione, ma che non sono la normalità. La normalità, d’altra parte, non fa notizia e particolarmente in storia. In tal senso è da rilevare la scarsa attenzione per la questione approvvigionamenti / magistrature / regolamenti, come gli statuti della città o delle corporazioni, elementi che permetterebbero di capire i meccanismi più semplici della vita comunale, ma che proprio perché fanno parte della normalità sono trascurati. Terza prospettiva: l’alimentazione e la cucina come indicatori di civiltà, come elementi di cultura, il cibo come simbolo del livello di civilizzazione. Ad esempio lo spartiacque fra uso del cibo crudo e cotto, fra civiltà della carne e civiltà del pane. Il testo parafrasato di Ammiano Marcellino compare in più di un manuale come testo di spiegazione, quasi fosse il risultato del lavoro degli storici in questi ultimi anni.

Gli stereotipi a scuola dunque resistono. Ci si potrebbe forse chiedere di chi sia la responsabilità: delle case editrici? Degli autori degli attuali manuali? Dei possibili autori mancati, vale a dire di coloro che non fanno manuali per le scuole? Degli insegnanti che non si aggiornano?

Fra il mondo della scuola e quello della ricerca esiste un profondo distacco. Molti manuali presentano ancora vecchi schemi storiografici elaborati nel secolo scorso: è andata aumentando l’attenzione per i criteri pedagogici, ma non sempre questi sono stati messi a confronto con i criteri storici. Si tende a riproporre schemi che restano immutati nel tempo anche se ritagliati sulle diverse annualità proposte dai programmi ministeriali. Spesso anche gli storici che si interessano al mondo della scuola intervengono su problemi specifici, ma mancano talvolta di una prospettiva più ampia, per cui credo che sia davvero importante – proprio come si è fatto in questa sede o nelle SSIS – pensare e proporre occasioni e strumenti concreti che arrivino nelle scuole, direttamente agli insegnanti, lavorando per accorciare le distanze fra scuola e università.

[1] Cfr. G. Sergi, L’idea di medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Roma 1998; Medioevo e luoghi comuni, a cura di F. Marostica, Napoli 2004.

[2] Medioevo reale Medioevo immaginario. Confronti e percorsi culturali tra regioni d’Europa, Torino 2002.

[3] Cfr. A. Brusa, Un prontuario degli stereotipi sul medioevo, in «Le Cartable de Clio», 5 (2004), ‹http://www.storiairreer.it/Materiali/BrusaLuoghiComuni.htm›.

[4] Cfr. Youth and History. A comparative European Survey on Historical Consciousness ad Political and Political Attitudes among Adolescents, a cura di M. Anvik – B. Von Borries, 2 voll., Hamburg 1977. Interessanti riflessioni sulla percezione della storia da parte degli studenti in S. A. Bianchi, I nuovi insegnanti, i giovani e lo studio della storia: un’indagine nelle classi seconde di un istituto professionale alberghiero in provincia di Verona, in «Educazione&Scuola», 2002, ‹http://www.edscuola.it/archivio/ped/studio_storia.pdf›.

[5] R. Simone, La terza fase. Le forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari 2000.

[6] Cfr. G. Sartori, Homo videns.Televisione e post-pensiero, Roma-Bari 1998; H. Gardner, Formae mentis: saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano 1996.

[7] Cfr. F. Fiore, Il gioco ottuso: sulla crisi culturale dell’istruzione, luglio 2003, ‹http://www.isoreto.it/didattica/mediaestoria_Fiore_IlGiocoOttuso.pdf›.

[8] A. Brusa, L’insegnamento del medioevo nella scuola: problemi, esperienze, valutazioni, in Medioevo reale Medioevo immaginario cit., p. 213.

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UpUltimo aggiornamento: 10/07/06