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Fonti

Antologia di fonti sulla corte di Bisanzio

a cura di Giorgio Ravegnani

© 2000-2005 – Giorgio Ravegnani per “Reti Medievali”


INTRODUZIONE GENERALE

La storia di Costantinopoli durò per 1123 anni. Tanto infatti intercorre fra la fondazione della città e la caduta di questa in mano ai Turchi, che condusse alla fine dell'impero bizantino. Nel 324, dopo aver eliminato il suo ultimo rivale, Costantino il Grande pensò di fondare una nuova capitale in Oriente. Sembra essere stato incerto fra varie località, ma alla fine la scelta cadde sull'antica cittadina di Bisanzio. Bisanzio era stata fondata nel VII secolo a.C. da colonizzatori greci sulle rive del Bosforo, lo stretto canale che unisce il Mar Egeo al Mar Nero. La scelta si sarebbe rivelata in seguito assai felice, per l'importanza commerciale e strategica connessa al sito della capitale. I lavori iniziarono nel 324 e sei anni più tardi, l'11 maggio del 330, venne solennemente inaugurata la nuova città che dal fondatore prese il nome di Costantinopoli. In poco tempo Costantinopoli crebbe eguagliando progressivamente l'antica Roma, la cui decadenza procedette di pari passo con l'ascesa della Roma d'Oriente. Come Roma, fu collocata al di fuori dell'amministrazione provinciale. Ebbe un proprio senato e un prefetto cittadino e i suoi abitanti ottennero privilegi analoghi a quelli dei Romani. Costantinopoli nacque come città cristiana e nel corso dei secoli sarebbe divenuta il centro della cristianità orientale. Anche la sua chiesa subì un'evoluzione tale da giungere ad eguagliare il prestigio di quella di Roma, alla quale venne di fatto equiparata nel V secolo. La fondazione di Costantinopoli non ruppe formalmente con il passato. Continuò in teoria ad esistere un solo impero romano e, anche nella pratica, nel corso del IV secolo questo fu tal volta retto da un unico sovrano. Ma con l'avvento di Arcadio e Onorio, che subentrarono al padre Teodosio I nel 395, l'unità non sarebbe stata più ricostruita.

L'impero di Bisanzio uscì relativamente indenne dalle grandi invasioni barbariche del V secolo e sopravvisse alla data fatidica del 476, che segna la caduta dell'Occidente in mano ai barbari. I sovrani di Costantinopoli non accettarono tuttavia il fatto compiuto. In quest'epoca, come poi in seguito, rivendicarono al contrario il diritto a governare tutti i territori appartenuti all'impero romano. Questa aspirazione fu parzialmente tradotta in pratica da Giustiniano I (527-565), che riuscì a riconquistare l'Africa romana, l'Italia e parte della Spagna strappandole ai barbari che vi si erano insediati nel secolo precedente. Giustiniano è una delle personalità di maggior rilievo nella storia di Bisanzio, e non solo di Bisanzio. Il suo nome, oltre che alla riconquista, è legato alla grande codificazione del diritto romano, il Corpus Iuris Civilis. A lui fece capo un grande programma di costruzioni, civili, militari ed ecclesiastiche, che diedero un'impronta indelebile alla sua epoca. L'esempio ancor oggi più tangibile, da questo punto di vista, è dato dalla famosa chiesa di S. Sofia di Costantinopoli, che rappresentò per secoli il cuore della vita religiosa della capitale cristiana. Il suo lungo regno fu inoltre segnato da una notevole fioritura letteraria, che ne ha fatto uno dei periodi più brillanti della cultura di Bisanzio.

I successi politici e militari di Giustiniano furono però in gran parte effimeri. Dopo la sua morte l'impero subì una profonda crisi, essendo sottoposto agli attacchi concentrici degli Avari e degli Slavi nella penisola balcanica, dei Persiani in Oriente, dei Longobardi in Italia e alla controffensiva visigota in Spagna. Molti sforzi vennero compiuti dall'imperatore Maurizio Tiberio, che regnò dal 582 al 602, per ristabilire la supremazia militare, ma la situazione sembrò precipitare con il governo di Foca (602-610), quando la parte orientale del mondo romano fu sul punto di crollare come già l'occidente un secolo prima. La crisi fu tuttavia superata grazie all'opera di un altro celebre sovrano, Eraclio, giunto al potere nel 610. Con una serie di fortunate campagne Eraclio riuscì a piegare la potenza persiana conducendo le sue armate direttamente in territorio nemico. Sotto il suo regno comparvero sulla scena gli Arabi, per secoli in seguito nemici indomabili dell'impero, la cui prima espansione avviene ai danni di Bisanzio, in stridente contrasto sulle vittorie riportate in altri fronti. Nel 634, sotto la guida del califfo Omar, gli Arabi irruppero nel territorio dell'impero, conquistando prima la Siria, poi la Palestina e la Mesopotamia bizantina. Nel 640 fu la volta dell'Armenia e cominciò nello stesso tempo la conquista dell'Egitto, che come già per Roma era una regione di grande importanza per Bisanzio. Più tardi, nel corso del VII secolo, sarebbero inoltre caduti nelle loro mano i territori dell'Africa imperiale.

Con l'età di Eraclio si considera comunemente esaurita la prima fase della storia di Bisanzio, che può essere definita anche come periodo tardo-romano. I termini di periodizzazione possono essere dati da una serie di cambiamenti, che alterarono la tradizionale struttura amministrativa romana, dando all'impero una configurazione che avrebbe mantenuto per secoli. Alcune magistrature scomparvero, per dar luogo ad altre, e l'amministrazione periferica si modificò con una netta prevalenza dell'autorità militare su quella civile, in nome delle preminenti esigenze di difesa dai nemici esterni. Venne tra l'altro abbandonato l'uso del latino, che fino a quel momento era stato ancora la lingua ufficiale, per essere sostituito dal greco. Lo stesso sovrano non fu più indicato con l'antica titolatura romana di imperator, Caesar, Augustus bensì con quella greca di basileus. Si entrò in sostanza nella fase più propriamente «bizantina» in cui, pur nel legame ideale con le origini, gli elementi orientali tendevano a divenire predominanti sulla tradizione romana. La chiesa assunse un ruolo sempre più incisivo nella vita pubblica e la cultura si fece esclusivamente greca. Ciò non significa che i Bizantini abbiano rinnegato l'origine romana. Al contrario sarebbero rimasti sempre idealmente legati a questa nel corso di tutta la loro storia e continuando a definirsi «Romani» in contrapposizione ai barbari che vivevano al di fuori dell'impero.

Eraclio morì nel 641 senza aver potuto fare alcunché per respingere gli Arabi, da cui per ancora un secolo sarebbe stata messa in pericolo l'esistenza stessa di Bisanzio. Dal 674 all 678 gli Arabi assediarono la stessa Costantinopoli con un'imponente squadra navale, ma furono ripetutamente respinti dai difensori, grazie alle possenti mura della città e al massiccio impiego del «fuoco greco», un'arma micidiale che fece la sua comparsa in questa occasione. L'attacco si rinnovò tra il 717 e il 718, ma ancora una volta gli assediantii vennero sconfitti subendo grandi perdite, e da quel momento in poi non tentarono più l'attacco alla città imperiale. Era allora imperatore Leone III Isaurico (717-741), che ottenne sugli Arabi una vittoria paragonabile per importanza a quella che poco più tardi Carlo Martello avrebbe conseguito a Poitiers. Il nome di Leone III, oltreché alle vittorie militari, è legato all'inizio della controversia sul culto delle immagini sacre o «iconoclastia». Le immagini sacre erano tradizionalmente oggetto di un intenso culto, che sotto certi aspetti degenerava nell'idolatria. Nel 730 Leone III lo proibì con un editto e questa sua decisione diede origine a una lotta religiosa che, con alterne vicende, si sarebbe trascinata per più di un secolo. Da una parte si schierarono i seguaci dell'imperatore; dall'altra i cultori delle immagini o «iconoduli», i cui principali esponenti erano i monaci. La controversia iconoclastica ebbe ripercussioni anche nei possedimenti bizantini in Italia, in cui si ebbro violente sollevazioni contro la politica religiosa di Leone III. La provincia imperiale sopravvissuta all'invasione longobarda era stata costituita in un «esarcato», con capitale Ravenna, ma nel 751 la città venne occupata dai Longobardi, che misero fine al dominio di Bisanzio nell'Italia centro-settentrionale, con la sola eccezione di Venezia. Diverso fu il destino del Meridione, dove i territori rimasti all'impero dopo la perdita di Ravenna furono ampliati nel IX secolo e mantenuti fino alla conquista normanna.

La politica iconoclastica fu abbandonata nel 787 per essere poi ripresa nell'815 e definitivamente sconfitta nell'843 dopo la morte dell'imperatore Teofilo (829-842) che ne fu l'ultimo sostenitore. Poco tempo dopo (nell'867) iniziò a Bisanzio la dinastia macedone, rimasta sul trono fino al 1056. Fu una fra le più lunghe e brillanti dinastie che si avvicendarono al trono nel corso dei secoli, superando nei fatti il principio teorico dell'eleggibilità al potere supremo. Primo esponente ne fu Basilio I (867-886), un ex contadino riuscito a impossessarsi del trono dopo aver acquistato il favore dell'imperatore Michele III. Il periodo macedone segnò il maggiore sviluppo della potenza bizantina dall'epoca di Giustiniano e anche un'età di notevole fioritura culturale. Dopo secoli di crisi l'impero tornò a essere una grande potenza, solida all'interno e occasionalmente volta a una fortunata politica espansionistica. La ripresa iniziò con Basilio I ed ebbe il maggiore sviluppo sotto il regno di Basilio II. Tra gli esponenti di rilevo dell'età macedone, oltre al fondatore, è da ricordare Leone VI il Saggio (886-912), figlio di Basilio I, letterato e figura leggendaria a Bisanzio, tanto che gli fu attribuito un corpus di profezie sui destini dell'impero. Di grande rilevo fu anche la figura di Costantino VII Porfirogenito (913-959), che si dedicò attivamente a molte attività culturali. Si devono a lui, tra l'altro, un trattato sulle cerimonie della corte bizantina e un altro sull'amministrazione dell'impero, ricco di notizie sui popoli che erano venuti a contatto con Bisanzio. Ultimo esponente importante della dinastia fu Basilio II (976-1025), sotto il quale l'impero raggiunse la massima estensione territoriale; dopo di lui iniziò una progressiva decadenza, dovuta soprattutto al degenerare della crisi interna per l'incontenibile espansione del latifondo, contro cui si erano battuti gli imperatori del X secolo. La dinastia macedone si estinse in linea maschile nel 1028, ma la successione fu garantita dalla nipote di Basilio II, Zoe, che tra 1028 e 1042 legittimò quattro imperatori, sposandone tre e adottando il quarto. La stessa Zoe, poi, regnò per un tempo brevissimo nel 1042, assieme alla sorella Teodora. Teodora, a sua volta, governò da sola l'impero dal 1055 fino alla morte nel 1056. A Bisanzio fu ammessa infatti anche la successione in linea femminile, sia pure eccezionalmente, e già vi era stato un precedente nel 797, con Irene anche se questa si era impossessata con la violenza del potere a differenza di Zoe e Teodora, che vi arrivarono in nome della continuità dinastica.

Le conseguenze della crisi si fecero avvertire nella seconda metà dell'XI secolo, quando l'impero non fu più in grado di opporsi ai nuovi e più decisi avversari comparsi sulla scena. Nel 1071 l'esercito bizantino viene distrutto presso Mantzinkert, in Armenia, dai Turchi Selgiuchidi che dilagarono in Asia Minore. Nello stesso anno cadde in mano ai Normanni Bari, l'ultima piazzaforte imperiale sul suolo italiano. Con l'avvento al potere di Alessio I Comneno, nel 1081, si ebbe un notevole sforzo per ricostruire la potenza bizantina, in parte coronato da successo. Nel 1082, per combattere i Normanni, sbarcati in territorio imperiale, Alessio I ricorre all'aiuto di Venezia. In cambio concesse grandi privilegi commerciali, che segnano l'inizio del predominio della città sui mercati bizantini. Con Alessio I iniziò la dinastia comnena, destinata a durare fino al 1185. Si fecero più intensi di quanto non fossero stati in precedenza i contatti con l'Occidente e questi furono resi sempre più ampi dalle crociate, che iniziarono nel 1096 e coinvolgendo direttamente o indirettamente l'impero di Costantinopoli. La successione proseguì con Giovanni II (1118-1143) e quindi con Manuele I (1143-1180), che cercarono di ristabilire con ogni mezzo la potenza imperiale. I loro sforzi furono coronati da notevoli successi, ma non misero fine alla debolezza di fondo di Bisanzio, dovuta al perdurare di sintomi di crisi interna e all'atteggiamento sempre più minaccioso delle potenze ostili, con al primo posto gli Occidentali. Manuele Comneno, nel 1171, giunse a espellere i Veneziani dall'impero per porre fine al loro predominio commerciale. Un suo successore, Andronico I, si spinse ancora più in là ordinando nel 1182 il massacro dei latini a Costantinopoli. Ma anche questi provvedimenti furono sostanzialmente inefficaci e contribuirono semmai ad accentuare l'isolamento di Bisanzio, che divenne facile preda dell'espansionismo straniero. Nel 1204 il dramma giunse a compimento e la IV crociata, partita due anni prima da Venezia, si fermò a Costantinopoli anziché dirigersi in Terra Santa. Intervenendo nelle questioni dinastiche dell'impero, i crociati misero l'assedio alla città di cui si impossessarono senza sforzo. A Bisanzio fu insediato un sovrano occidentale, Baldovino di Fiandra, e la chiesa bizantina passò sotto il controllo dei Veneziani. Iniziò così l'impero latino di Oriente destinato a durare per più di mezzo secolo. Il territorio bizantino venne ripartito fra le potenze che avevano partecipato all'impresa, prima fra queste Venezia, che si assicurò un ampio dominio in Levante con il controllo dei principali scali marittimi. Non tutto l'impero fu però conquistato dai vincitori e, sulle rovine di Bisanzio, si costituirono anche tre stati greci sotto il dominio di nobili bizantini che si opponevano ai crociati. Sorsero così l'impero di Nicea in Asia Minore; l'impero di Trebisonda sul Mar Nero e il despotato di Epiro in Grecia. Nicea e l'Epiro ebbero un notevole sviluppo, anche se in continua rivalità reciproca, e dalla prima partì la controffensiva bizantina che nel 1261 strappò Costantinopoli ai crociati sotto la guida di Michele VIII Paleologo, capostipite dell'ultima e più duratura dinastia imperiale. A Nicea, negli anni del dominio latino, era continuata la tradizione imperiale ed era ugualmente sopravvissuto il patriarcato ortodosso. Il governo che qui si costituì è normalmente considerato come la continuazione della serie dei sovrani di Costantinopoli. Michele VIII (1259-1282) si adoperò per ricostruire l'impero, ma i suoi sforzi furono soltanto in parte coronati da successo perché non gli fu possibile recuperare gran parte dei territori conquistati dagli Occidentali dopo il 1204 o passati sotto il dominio degli altri stati bizantini. Per opporsi a Carlo d'Angiò, che avanzava pretese sull'impero, favorì la riconciliazione religiosa fra Bisanzio e Roma, sancita nel 1274 dal concilio di Lione. Si poneva così fine per la prima volta allo scisma iniziato nel 1054 ma in questa occasione, come in quelle future, la riconciliazione fu di breve durata soprattutto per la tenace ostilità dei Bizantini nei confronti della chiesa di Roma.

La politica di potenza di Michele VIII si esaurì con la sua scomparsa e fu seguita dalla continua disgregazione dell'impero, minato dai contrasti interni e dalle aggressioni di potenze ostili. Sia gli occidentali che i Turchi continuano a sottrarre territori fino a ridurlo a poco più della sola capitale. La pressione economica delle repubbliche marinare, inoltre, rese di fatto il secondo impero ostaggio di Genova e di Venezia. Intorno alla. metà del Trecento, con la comparsa degli Ottomani, la pressione turca ai confini orientali si fece più pesante. Sotto l'usurpatore Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354) i Turchi penetrarono in Europa impossessandosi di Gallipoli e iniziando di lì a poco una travolgente avanzata nei Balcani. Gli ultimi imperatori di Bisanzio cercarono disperatamente l'aiuto occidentale per fermare l'avanzata ottomana, ma i risultati furono al di sotto delle aspettative. Giovanni V Paleologo (1341-1395) si recò a tal fine a Roma nel 1369, dove si convertì al cattolicesimo, e di qui a Venezia tornando a Costantinopoli nel 1371. Il suo esempio fu seguito dal figlio e successore Manuele II (1391-1425), che nel 1399 fu a Venezia, per poi raggiungere Parigi e Londra, e ancora da Giovanni VIII, imperatore dal 1425 al 1448. Quest'ultimo si adoperò per la riunificazione religiosa, che venne in effetti proclamata a Firenze nel 1439, per ottenere in cambio dell'appoggio di Roma e dell'occidente, malgrado l'ostilità della popolazione e di gran parte del clero bizantino. Come già in precedenza, la riconciliazione religiosa non durò a lungo e, per di più, l'aiuto occidentale fu occasionale e del tutto insufficiente a salvare l'impero. Il tentativo più serio in tal senso venne fatto con la crociata che partì dall'Ungheria nel 1443. Dopo qualche brillante successo iniziale, tuttavia, l'anno seguente l'esercito crociato fu sanguinosamente sconfitto dai Turchi presso Varna in Bulgaria. Con l'avvento al potere di Maometto II il Conquistatore, nel l451, si ebbe l'ultimo atto della vicenda di Bisanzio. Il nuovo sultano decide infatti di conquistare quel poco che ancora restava dell'impero e, in primo luogo, la città di Costantinopoli, ormai un'assurda isola di cristianità all'interno dei domini turchi. Nell'aprile del 1453 pose l'assedio alla città imperiale, che cadde il 29 maggio dello stesso anno dopo aspri combattimenti, in cui i Turchi fecero ampio uso dell'artiglieria che sbriciolò le mura della capitale. L'ultimo imperatore, Costantino XI Paleologo (1449-1453), morì combattendo. Nel corso di pochi anni vennero inoltre conquistati dai Turchi tutti i territori ancora rimasti bizantini in Grecia e a Trebisonda.

La storia di Bisanzio fu in buona parte storia di Costantinopoli e della sua corte. Per più di mille anni i sovrani della Roma d’Oriente si circondarono di una corte destinata a celebrare un’autorità assoluta che si riteneva voluta da Dio e superiore a ogni altra. Lo splendore e la ricchezza di questa variarono nel corso del tempo, seguendo di pari passo le vicissitudini dell’impero, ma in ogni momento fu sottolineata la straordinarietà del potere del signore di Costantinopoli. Alla figura dell’imperatore di Bisanzio si legò una complessa ritualità, che mescolava elementi di diversa provenienza, e che tendeva essenzialmente a esprimere in forma visiva l’omaggio dovuto a chi era ritenuto contemporaneamente l’erede dei cesari romani e il sovrano del mondo cristiano.

L’idea di romanità fu alla base del sistema politico dei Bizantini. Per tutto il Millennio l’impero venne considerato come la continuazione di Roma con diritto imprescrittibile alla sovranità su tutti i territori a questa appartenuti. L’eventuale dominazione straniera nei confini del mondo romano era ritenuta illegale e frutto di un’usurpazione. Solo i sudditi dell’impero erano «Romani» (Ρωμαίοι) e così i Bizantini si definivano in contrapposizione agli stranieri. A questa concezione, propriamente politica, si aggiunse fin dalla prima epoca un aspetto religioso, che la completava formando un tutto omogeneo: l’impero era voluto da Dio, che aveva eletto il popolo cristiano come depositario della sua volontà. Ne conseguiva che era eterno, in quanto voluto da Dio, e universale, in quanto romano. Non poteva esistere inoltre un altro imperatore dopo quello di Costantinopoli, che da Dio riceveva il potere perpetuando l’autorità delegata a Costantino I, il primo imperatore cristiano. Questa idea sopravvisse tenacemente nel mondo bizantino, anche quando la realtà dei fatti la rese improponibile e fu sempre l’ispiratrice di una diffusa pretesa alla diversità.

Il potere del sovrano era assoluto e, almeno in teoria, non esistevano limiti a questo, se non il limite soggettivo del rispetto delle leggi che lo stesso emanava o, anche, dell’autonomia della chiesa in materia di fede. Pur essendo fonte della legge, l’imperatore era formalmente tenuto a rispettarla come qualsiasi altra persona. Il suo ruolo nella chiesa era notevole, ma doveva limitarsi a un ambito definito. Poteva presiedere i concili e di tradurre in legge o quanto meno farne rispettare i deliberati, vigilando sul mantenimento dell’ortodossia; poteva inoltre legiferare in materia ecclesiastica, creando vescovadi, modificando le circoscrizioni ecclesiastiche o il calendario liturgico o anche disciplinando la vita del monachesimo. Limite a questa ampia autorità era considerato normalmente il divieto di esprimersi in materia di dogmi, per cui doveva soltanto rimettersi alle decisioni del clero. Nella pratica i limiti teorici al potere imperiale furono talvolta superati secondo le diverse contingenze del momento, ma in linea generale il principio fu osservato e, per quanto riguarda i rapporti con la chiesa, valse il rispetto della mutua collaborazione. La trasgressione, ad esempio, fu evidente in età iconoclastica, tra VIII e IX secolo, quando i sovrani pretesero di decidere in materia di fede, o ancora su scala minore nella cosiddetta disputa della «tetragamia» originata dal fatto che Leone VI (886-912) pretese di sposarsi per quattro volte, in spregio alle leggi ecclesiastiche e civili.

L’autorità imperiale trovava inoltre un limite reale nei gruppi di potere che direttamente o indirettamente gravitavano sulla corte, da cui spesso questa veniva condizionata. L’avvicendamento dei sovrani si accompagnava di regola a una ridistribuzione delle cariche civili o militari, in cui si affermava la fazione che in qualche modo ne aveva favorito l’ascesa. L’imperatore era talvolta condizionato nell’esercizio delle sue funzioni, soprattutto nei frequenti casi di minorità, per cui potevano affermarsi consigli di reggenza più o meno eterogenei. Un esempio significativo, a questo proposito, è dato dallo strapotere dell’aristocrazia fondiaria, contrastato dai dinasti del X secolo ma decisamente affermatosi nel successivo, tanto che questa divenne arbitra del potere supremo. Nella tarda antichità, al contrario, l’ostacolo più serio all’assolutismo fu rappresentato dai «demi», o fazioni del circo, che tra IV e VII secolo rappresentarono la forma più vivace di opposizione. Nati come associazione sportiva, sul modello romano, i demi assunsero una chiara fisionomia politica e furono spesso causa di disordini. I sovrani di norma si appoggiavano all’una o all’altra delle principali fazioni, che erano i «Verdi» e gli «Azzurri», ma quando Giustiniano I (527-565) pretese di riportarle entrambe all’obbedienza, suscitò una disastrosa rivolta che fu sul punto di fargli perdere il trono. E ancora, su un versante religioso ma spesso anche politico, data la frequente confusione tra religione e politica tipica di Bisanzio, i sovrani dovevano misurarsi con le sette ereticali, che non ne riconoscevano l’autorità, o ancora con il potente monachesimo organizzato, da cui spesso si ebbe un’opposizione tenace alla politica di Costantinopoli.

I sudditi del sovrano della Roma d’Oriente erano considerati suoi «servi», che dovevano avere dinanzi a lui lo stesso rapporto di soggezione esistente fra servo e padrone. Questa concezione, di matrice orientale, si affermò con gli ultimi imperatori pagani e, sia pure occasionalmente criticata, fu costante nel mondo bizantino. Nei confronti dei sudditi, tuttavia, egli doveva esercitare la «benevolenza», l’atteggiamento che un padre ha nei confronti dei figli e che consiste essenzialmente nel saper perdonare. Un’altra qualità propria del sovrano, secondo la visione politica dei Bizantini, era l’«impassibilità», in forza della quale non doveva lasciare trasparire alcun turbamento dando di sé un’immagine stereotipa, capace di fornire l’esempio ai sudditi in ogni circostanza. La benevolenza e l’impassibilità erano qualità che gli derivavano dall’«imitazione» di Dio, un altro atteggiamento che si riteneva indispensabile corredo del potere supremo. L’impero terrestre, infatti, doveva imitare nelle forme quello celeste di cui si riteneva fosse espressione e chi in terra deteneva l’autorità doveva a sua volta imitare Dio. Imitare per essere imitato dai sudditi e condurli così verso la perfezione.

Come già a Roma, non si ebbe a Bisanzio un preciso sistema di successione al trono e nel corso dei secoli ci si regolò secondo la consuetudine e le contingenze del momento. Un tentativo serio per fissare una prassi successoria nella tarda antichità era stato fatto da Diocleziano con la «Tetrarchia». Secondo questo sistema ai due imperatori anziani, gli Augusti, dovevano subentrare automaticamente i due cesari da essi scelti. I nuovi augusti dovevano eleggere a loro volta altri due cesari per assicurare la continuità. Questo meccanismo, teoricamente perfetto, si rivelò tuttavia fallimentare nell’applicazione pratica e diede origine ben presto a interminabili guerre civili, venendo meno già con Costantino I. Sopravvisse, nella prima epoca bizantina, soltanto nella forma svuotata da ogni sostanza, perché i sovrani in carica erano definiti augusti, mentre i loro presumibili successori ricevevano in genere il titolo di cesare. Il titolo di Augusto, di origine romana, fu però soppiantato nel VII secolo, quando a Bisanzio si smise di parlare latino, da quello greco di «basileus», che restò nell’uso ufficiale fino alla caduta dell’impero.

La dignità imperiale era teoricamente elettiva e, nel tardo antico, si ebbero effettivamente alcuni casi di una simile successione. Il collegio elettorale in questo caso era costituito dal senato e dai principali dignitari di stato, anche se in realtà la scelta era spesso favorita dai gruppi di pressione che agivano a corte. Notevole, sotto questo profilo, poteva essere il ruolo delle imperatrici che riuscivano talvolta a legittimare un successore. Al principio elettivo si opponeva la tendenza naturale dei sovrani a costituirsi una discendenza, rendendo ereditario il potere. In questa prospettiva l’imperatore in carica si associava un collega, destinato a succedergli automaticamente alla sua morte. Sebbene di pari grado al sovrano più anziano, di fatto però l’associato era di rango inferiore e entrava nella pienezza dei diritti soltanto dopo la scomparsa del predecessore. La coreggenza non implicava comunque la divisione del territorio, una concezione estranea alla mentalità dei Bizantini, che si fece strada soltanto occasionalmente nell’ultima epoca. Vi era poi un terzo modo per acquisire il potere supremo, naturalmente confinato all’illegalità ma che non di meno ebbe notevole fortuna: prenderlo cioè con la forza deponendo l’imperatore in carica. In questo caso contavano ovviamente soltanto i rapporti di potere che potevano instaurarsi nei complessi meccanismi della politica bizantina.

La tendenza a istituire dinastie è presente fin dalle origini. La prima di queste si deve a Costantino (324-337), alla cui morte subentrò il figlio Costanzo (337-361) seguito dal nipote Giuliano (361-363). Alla morte di Giuliano si ebbe il breve regno di Gioviano (363-364), eletto dalle truppe in assenza di altri eredi di Costantino. Una nuova dinastia fu successivamente istituita da Teodosio I (379-395) e questa durò fino al 450 quando morì Teodosio II. Si ebbero poi ebbero poi la dinastia di Leone I (dal 457 al 474) e di Giustino I (dal 518 al 578). Se mancava un erede maschio, una volta fissatasi la dinastia, si riteneva che anche le donne della famiglia imperiale fossero adatte a trasmettere i diritti sovrani e, più tardi (a partire da Irene nel 797), anche a esercitare direttamente il potere, una prassi che non trova riscontro nella tradizione romana. Ad esempio la vedova di Zenone, Ariadne, nel 491 fece cadere la scelta su Anastasio I, che subito dopo sposò. Fino al IX secolo la successione ereditaria fu spesso superata dagli avvenimenti, ma poi andò progressivamente affermandosi. A partire da Michele II (820-829) si susseguirono infatti sette dinastie quasi senza interruzione: gli Amoriari (820-867), i Macedoni (867-1056), i Doukas (1059-1078), i Comneni (1081-1185), gli Angeli (1185-1204), i Lascaridi di Nicea (1204-1261) e i Paleologi (1261-1453). Contemporaneamente si andava rafforzando l’idea legittimista, di larga presa sulla popolazione, che già si era radicata nella mentalità comune nel IX-X secolo e che tale resterà anche in seguito. Il trono divenne un bene familiare e il potere prese forma collegiale, con imperatore e imperatori associati, senza però divisione di territorio. È significativo in proposito che al tempo della dinastia macedone si cominci a parlare di «porfirogeniti» per indicare i principi «nati nella porpora» e come tali appartenenti alla famiglia regnante. Malgrado ciò si ebbero numerose usurpazioni, favorite dall’instabilità politica e dalla minorità degli eredi, ma altrettanto significativo è che gli usurpatori non ebbero l’autorità per soppiantare la dinastia legittima. Ciò vale ad esempio per Romano I (920-944), Niceforo Foca (963-969) e Giovanni Zimisce (969-976), che governarono al posto dei macedoni Costantino VII Porfirogenito, Basilio II e Costantino VIII. La forza del sentimento legittimista in questo periodo è dimostrata con chiarezza da due episodi: la deposizione di Michele V nel 1042 quando cercò di disfarsi dell’imperatrice Zoe e l’esercizio diretto del potere in linea femminile con Zoe e Teodora quali ultime rappresentanti della dinastia macedone, che fu accettato senza riserve a Bisanzio.

Non si ebbe mai, comunque, un meccanismo rigido di avvicendamento al trono: la scelta del successore dipendeva unicamente dalla volontà sovrana e l’imperatore che entrava in carica, a sua volta, doveva patteggiare il proprio riconoscimento con il patriarca di Costantinopoli e le forze più rappresentative della società. In linea di principio l’esercizio del potere spettava al primogenito che, però, formalmente ereditava il trono assieme ai fratelli coimperatori. Nella pratica la decisione ultima spettava però al sovrano e si hanno esempi, anche se rari, di mancato rispetto dell’ordine successorio. Nel 1143, ad esempio, Giovanni II Comneno lasciò il trono al figlio cadetto Manuele a detrimento del primogenito Isacco e, nel Trecento, Giovanni V Paleologo (1341-1395) scartò dal trono il primogenito associandosi il fratello di questo. Sappiamo anche che, nel 1118, l’imperatrice Irene e Anna Comnena cercarono di convincere Alessio I morente a nominare successore Niceforo Briennio, marito di Anna, al posto del figlio Giovanni.

Qualunque fosse il modo con cui otteneva il potere, il nuovo sovrano veniva proclamato con una cerimonia solenne e con tale atto iniziava la sua vita ufficiale. L’investitura imperiale traeva origine dalla tradizione romana, come gran parte della vita pubblica dei Bizantini, ma si arricchì nel corso del tempo con l’introduzione progressiva di nuovi elementi. Nel V-VI secolo, quando più forte era il legame con le origini, aveva ancora un carattere essenzialmente militare, mentre a partire dal VII prevalse l’aspetto religioso, che anche in seguito sarebbe stato determinante. Per la proclamazione si avevano due diverse procedure, a secondo che fosse ancora in vita oppure già deceduto il predecessore. Nel primo caso la cerimonia era molto semplificata e si limitava ad alcuni atti essenziali. Nel secondo, al contrario, si articolava in tre passaggi essenziali: il rito militare di proclamazione, l’incoronazione religiosa da parte del patriarca di Costantinopoli e la presentazione ai sudditi del nuovo eletto. Il rito militare comportava la sollevazione sullo scudo, un’usanza di origine germanica, e la consegna del torques (o, in greco, maniakis), una decorazione portata al collo da alcuni soldati che veniva posta in capo al neo eletto da un sottufficiale istruttore. In termini simbolici significava la delega dell’autorità di comando all’imperatore, in cui l’esercito riconosceva il proprio capo. Alla sollevazione sullo scudo si accompagnava in origine la consegna delle insegne del potere, fra cui la corona, che era effettuata in genere da un alto funzionario. A partire dal V secolo, però, si fece strada l’incoronazione religiosa, dapprima un atto accessorio, ma che in seguito avrebbe relegato in secondo piano il rito militare. Il primo sovrano a essere così incoronato fu Leone I nel 457. Dopo aver ricevuto il diadema secondo il rito consueto, si recò a S. Sofia deponendo la corona sull’altare. Qui il patriarca pronunciò una preghiera e lo incoronò nuovamente. La proclamazione in questa epoca aveva luogo in uno spazio pubblico, in genere l’ippodromo di Costantinopoli. Il cerimoniale mostrava piccole varianti da un sovrano all’altro e alla cerimonia vera e propria si accompagnavano di norma le acclamazioni del popolo, spesso mescolate a richieste politiche, e un discorso rivolto ai sudditi, con la promessa di buon governo e di donativi alla truppa. La cerimonia proseguiva quindi con una processione a S. Sofia e terminava in un banchetto solenne offerto ai dignitari di corte.

La sollevazione sullo scudo perse progressivamente l ’essenzialità delle origini quale rito di legittimazione da parte delle truppe, ma si conservò come formalità tradizionale. Lo ritroviamo ancora nel XIV secolo quando precedeva l’incoronazione e si svolgeva al primo piano del palazzo patriarcale, che dava sulla piazza in cui si radunava il popolo per assistervi. Lo scudo non era più sollevato dai soldati, come nel periodo antico, ma dal patriarca e dai principali dignitari. L’incoronazione da parte del patriarca introdusse a sua volta un elemento di novità, anche se il rito non perse il carattere delle origini fino a Foca. Nel 602, infatti, questo sovrano fu proclamato dalle truppe in rivolta con il consueto rito della sollevazione sullo scudo; la cerimonia fu poi ripetuta con la stessa prassi a Costantinopoli e, infine, si ebbe l’incoronazione da parte del patriarca in una chiesa cittadina. Da accessorio, tuttavia, il cerimoniale religioso divenne preminente e in seguito gli imperatori vennero regolarmente incoronati in chiesa, che a partire dal 641 fu sempre S. Sofia, in significativo parallelo con la maggiore importanza acquisita dalla chiesa nella vita pubblica. In epoca più tarda la cerimonia militare divenne soltanto un ricordo del passato conservato in omaggio alla tradizione. L’incoronazione del patriarca divenne un’indispensabile sanzione dell’avvento al trono e, come tale, destinata a mettere in luce gli aspetti religiosi dell’istituzione imperiale.

La principale dimora dei sovrani di Costantinopoli fu per parecchi secoli il «Gran Palazzo» o «Palazzo Sacro». Era così definito un complesso di costruzioni, che sorgeva in prossimità di S. Sofia. Si estendeva su un’enorme superficie tra il foro Augusteon, la principale piazza della città, e il Mar di Marmara comprendendo edifici di vario genere, corti, terrazze e giardini, ed era cinto di mura. Il primo nucleo fu edificato da Costantino I e, nel corso dei secoli, vi si aggiunsero numerose costruzioni destinate sia alla vita pubblica che a quella privata dei sovrani. Il Gran Palazzo iniziò a declinare verso la fine dell’XI secolo, quando i sovrani lo abbandonarono a poco a poco per quello delle Blacherne situato lungo le mura terrestri. Quando i Turchi presero Costantinopoli, nel 1453, era in rovina e da tempo i materiali venivano usati per altre opere o sottratti dai privati. In seguito vi si costruì sopra cancellandone ogni traccia. La perdita delle vestigia architettoniche è però compensata dalle testimonianze scritte, in particolare la letteratura sul cerimoniale, che hanno consentito una ricostruzione abbastanza precisa del complesso e della forma dei principali edifici. Sulla base soprattutto del Libro delle cerimonie di Costantino VII Porfirogenito (913-959) si è tentato, a partire dal secolo scorso, di ricostruirne la topografia, con esiti più o meno felici ma superiori a quanto si è potuto appurare attraverso le ricerche archeologiche. Vi si trovano infatti molti riferimenti che consentono di stabilire nelle linee essenziali la disposizione, la funzione e, talvolta, la struttura interna dei diversi edifici. A ciò si aggiungono i risultati degli scavi condotti a varie riprese dopo gli incendi che nel secondo decennio del Novecento distrussero i quartieri a ovest di S. Sofia, facendo emergere le fondamenta di alcuni edifici e, tra l’altro, un ampio mosaico pavimentale di una corte interna.

L’imperatrice bizantina aveva lo stesso titolo del marito al femminile: augusta (in greco sebasté) nel tardo antico e, in seguito, basilis, basilissa o autokratorissa. Già dal tempo di Costantino portava il diadema e in seguito la sua incoronazione ebbe luogo a palazzo con la partecipazione del patriarca e dei grandi dignitari. Le venivano inoltre tributati onori ufficiali. Per influsso dei costumi orientali, che a Bisanzio si affiancarono costantemente a quelli di origine romana, l’imperatrice non godeva però di grande libertà e viveva nei ginecei fra le ancelle e gli eunuchi, anche se ciò non comportava una completa segregazione. La sovrana non partecipava infatti alle cerimonie pubbliche, ma a corte godeva comunque di una certa libertà e talvolta prendeva parte all’amministrazione dello stato. È significativo in proposito l’esempio di Teodora, moglie di Giustiniano I (527-565), che riceveva senatori e ambasciatori, corrispondeva con principi stranieri e si occupava di affari di governo. Si avevano inoltre circostanze in cui le sovrane potevano disporre dell’impero o anche esercitare direttamente il potere senza che questo loro diritto fosse messo in discussione. Ciò si verificava in particolare durante le minorità dei titolari del trono: vediamo, ad esempio, Pulcheria salutata come augusta alla morte del padre Arcadio (395-408) che resse l’impero per il fratello Teodosio II (408-450) in minore età. Così pure Teodora assunse la reggenza per il figlio Michele III (842-867). La stessa Pulcheria, dopo la morte del fratello, trasmise il potere a Marciano (450-457) sposandolo. La figlia di Costantino VIII, Zoe, nel 1028 portò al governo Romano III sposandolo per volontà del padre e lo stesso fece con Michele IV quando questo morì. Rese quindi possibile l’ascesa di Michele V nel 1041 adottandolo e, quando fu deposto da una rivolta popolare, si sposò per la terza volta con Costantino IX Monomaco (1042-1055) che divenne imperatore. L’impero fu inoltre governato da donne per tre volte senza che si esigesse da queste un matrimonio: da Irene (797-802), Zoe e Teodora (1042) e di nuovo Teodora (1055-1056). Nel primo caso vi era stata un’usurpazione, dato che Irene si era liberata del figlio per governare al suo posto; nei due successivi, al contrario, la successione avvenne senza traumi in forza del principio di legittimità.

La scelta della moglie del sovrano era considerata come un importante atto politico. Le usanze matrimoniali variarono nel corso del tempo: fino al secolo X gli imperatori sposarono in genere le figlie dei loro sudditi, senza preclusioni sociali ma generalmente in base alle caratteristiche fisiche e morali. I matrimoni con straniere si limitarono ai casi di Giustiniano II (685-695 e 705-711) e Costantino V (741-775) che sposarono due principesse cazare. Simili unioni erano però guardate ancora con sospetto al tempo di Costantino VII Porfirogenito (913-959), il quale affermava che esisteva una disposizione di Costantino I per cui era vietato il matrimonio con stranieri, particolarmente se non erano cristiani, a tutti i membri della famiglia imperiale, con eccezione per i Franchi. Malgrado ciò lo stesso Costantino VII, su pressione del suocero, aveva permesso che il proprio figlio Romano sposasse Berta, figlia illegittima di Ugo di Provenza. Dopo la prematura morte di questa, però, Romano II (959-963) sposò Anastaso, che da imperatrice assunse il nome di Teofano, figlia di un oste di Costantinopoli, una donna destinata ad avere un peso notevole sulle vicende del tempo. Qualche tempo più tardi, nel 968, si rifiutò all’imperatore Ottone II la mano della porfirogenita Teofano, figlia di Romano II, che era stata chiesta da Liutprando ambasciatore del sovrano germanico. Nel 972 il matrimonio fu però concluso ma è incerto se Ottone II abbia sposato questa Teofano o un’omonima parente dell’usurpatore Giovanni Zimisce. In questo caso la resistenza dei Bizantini si legava anche a motivi di ordine politico, ma la diffidenza verso l’unione con stranieri dei membri della famiglia regnante era un principio consolidato nella mentalità corrente. Una trentina di anni più tardi, tuttavia, si ebbe una deroga rilevante, allorché Basilio II (976-1025) fu costretto a dare in sposa la sorella Anna a Vladimiro principe di Kiev, che lo aveva aiutato a riconquistare il trono insidiato dagli usurpatori. A questo avvenimento si legò comunque un evento di portata mondiale perché i Russi accettarono di convertirsi al cristianesimo ortodosso. L’importanza connessa alla scelta della sposa imperiale è significativamente messa in luce dalla pratica del «concorso di bellezza», ampiamente attestato tra VIII e IX secolo ma che doveva avere origini molto più antiche, dato che già la troviamo nel V secolo per le nozze di Teodosio II. Alcuni emissari della corte percorrevano le province scegliendo le fanciulle più belle e, dopo essersi assicurati che appartenevano a famiglia onesta e che le loro forme e rispondevano al «canone» imperiale, le portavano a corte per la selezione definitiva.

Il matrimonio con donne straniere, da occasionale come era stato in precedenza, divenne la regola con i sovrani di epoca comnena, che considerarono queste unioni un importante mezzo di azione diplomatica. Abbiamo così le nozze di Giovanni II Comneno (1118-1143) con Irene di Ungheria figlia del re Ladislao, di Manuele I (1143-1180) con Berta di Sulzbach parente di Corrado III e, in seconde nozze, con Maria principessa normanna di Antiochia. Il fenomeno si accentuò con i Paleologi e accanto a principesse occidentali, come Anna di Savoia moglie di Andronico III (1328-1341), si ebbero anche come consorti degli imperatori le figlie di sovrani ortodossi, ad esempio Anna, figlia del principe di Mosca, che sposò Giovanni VIII (1425-1448) in prime nozze. In quest’epoca l’unione di un porfirogenito con una straniera pareva così naturale che il despota Demetrio, fratello di Giovanni VIII (1425-1148), fu criticato dalla famiglia per aver voluto sposare la figlia di un nobile del Peloponneso. La decadenza di Bisanzio, già nel secolo precedente, aveva d’altronde modificato i tradizionali schemi sociali e l’usurpatore Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354) non aveva esitato a far sposare la propria figlia a un sultano turco, dal quale aveva ottenuto appoggio militare.

Il cerimoniale e la gerarchia palatina variarono notevolmente nel corso dei secoli, come anche la ricchezza e lo splendore della corte, in parallelo al corso degli avvenimenti politici. Bisanzio fu a lungo una notevole potenza, ancora capace nel X secolo di estensione territoriale; nel corso del successivo si fecero però avvertire i primi sintomi di una lenta e inesorabile decadenza, in gran parte dovuta alla crisi interna. I sovrani comneni, fra XI e XII secolo, cercarono di risollevare le sorti dell’impero, ma la crisi si accentuò dopo la loro dinastia arrivando al culmine con la IV crociata, che portò nel 1204 alla conquista occidentale di Costantinopoli e alla spartizione del territorio bizantino fra i vincitori. Costantinopoli tornò in mano greca nel 1261, ma l’estensione dell’impero si era notevolmente ridotta e continuò a decrescere in seguito. La decadenza politica si ripercosse negativamente anche sulla corte, con una notevole contrazione del tono e dello splendore di un tempo. A metà del XIV secolo i lussi del passato erano soltanto un ricordo e, alla cerimonia di proclamazione di un sovrano, fu usato vasellame di piombo e di terracotta al posto dei materiali preziosi dei giorni migliori. Le mutate condizioni di vita non incisero tuttavia sulle concezioni fondamentali del potere: l’imperatore continuò a essere considerato dai suoi sudditi al vertice della gerarchia degli stati cristiani. All’inizio come alla fine, infatti, si ritenne che il sovrano di Bisanzio fosse l’unico depositario del potere supremo per volontà divina. «Il santo imperatore — scriveva verso la fine del Trecento il patriarca di Costantinopoli al granduca di Mosca — non è affatto come gli altri regnanti e signori di paesi» e aggiungeva, citando la sacra scrittura, che egli doveva essere considerato l’unico imperatore universale, quando ormai una simile affermazione era in stridente contrasto con la rovina del mondo bizantino.

La straordinarietà che si riteneva connessa alla figura del sovrano di Bisanzio ne fece l’oggetto di un culto particolare, in parte si connesso alle origini pagane del suo potere, ma su cui si erano ampiamente inserite le concezioni del cristianesimo. Alla nozione dell’imperatore-dio, occasionalmente presente nel modo romano e tipica dell’ultima età pagana, si era infatti sostituita per influsso del cristianesimo quella più sfumata di «eletto da Dio», una sorta di tredicesimo apostolo a capo dell’ecumene romana. Come già quella dell’imperatore pagano, la figura del sovrano di Bisanzio fu ritenuta sacra, sacro e divino tutto quanto gli si connetteva e sacrilegio offenderlo in qualsiasi modo, anche trasgredendo i suoi ordini. A questa sorta di religione imperiale si accompagnavano l’esistenza di un luogo di elezione per la manifestazione del culto e di una vera e propria liturgia. Il primo può essere identificato nel Gran Palazzo, almeno finché fu al centro della vita di corte, e la seconda nell’assieme di riti che in questo si svolgevano. Le sale del palazzo destinate alla vita ufficiale, spesso a forma basilicale, ricordavano intenzionalmente l’architettura delle chiese con il trono al posto dell’altare. Un esempio significativo, a questo proposito, viene dal Chrysotriklinos o «salone d’oro», che doveva essere di forma simile alla chiesa di S. Vitale in Ravenna. Il trono dell’imperatore sorgeva nell’abside sotto il mosaico raffigurante il Cristo in trono, con evidente simbologia dello stretto legame fra il regno celeste e quello terrestre. Ogni sala palatina aveva inoltre una precisa funzione nel cerimoniale e così anche l’ippodromo, dove tutto il popolo era associato al culto del sovrano. I riti del Palazzo avevano per oggetto la manifestazione esteriore del culto e la venerazione dovuta alla maestà imperiale. Tutto ciò si manifestava attraverso la «taxis» cioè l’etichetta, che consisteva nella determinazione dei posti in ordine di importanza secondo il grado rivestito, negli atteggiamenti da tenere di fronte al sovrano, nei gesti e nelle formule. Ogni infrazione all’etichetta era considerata un sacrilegio e attraverso il ripetersi formale di atteggiamenti consoni a questa si riteneva di poter manifestare, in termini tangibili, l’ossequio dovuto al sovrano. Di qui un cerimoniale complesso e regolato fin nei minimi dettagli, le cui forme variarono nel corso dei secoli ma che sempre ebbe un unico principio ispiratore. Attraverso una rigida osservanza di questo si riteneva di poter manifestare in modo tangibile l’ossequio dovuto al basileus, regolando ritualmente ogni aspetto della vita di corte. La rigida formalità era ritenuta adatta a dare dell’istituzione imperiale un’immagine di armoniosa perfezione: «possa il potere imperiale — scrive Costantino VII — esercitandosi con ordine e regolarità riprodurre il movimento armonioso che il Creatore dà a tutto l’universo e l’impero apparire ai nostri sudditi più maestoso e perciò più gradito e ammirabile». Un concetto che si adatta particolarmente al mondo bizantino, in cui molto spesso forma e sostanza tendevano a identificarsi. Attraverso la ripetizione delle forme, in altre parole, si riteneva che potessero manifestarsi la potenza dell’impero e il lealismo dei sudditi.

Una regola fondamentale dell’etichetta era il silenzio da osservare in presenza del sovrano. Le stesse assemblee imperiali avevano preso il nome di «silentia» fin dai tempi più antichi. A sua volta l’imperatore, come una specie di idolo, non doveva manifestare alcuna passione umana mantenendo una rigida impassibilità durante le udienze solenni che si svolgevano a Palazzo. Era inoltre accompagnato costantemente da eunuchi che, come angeli in terra, lo assistevano e soltanto in presenza di eunuchi indossava gli abiti da cerimonia. Non calcava il terreno comune, ma soltanto lastre di porfido o tappeti di porpora ed era l’unico ritenuto degno di calzare scarpe di porpora. Chi riceveva da lui un dono o un’insegna del potere doveva prenderli nascondendo le mani sotto un lembo del mantello. Una qualsiasi cerimonia palatina, quale ad esempio il ricevimento di ambasciatori, si svolgeva come una sorta di celebrazione religiosa. I dignitari ammessi ad assistere dovevano presenziare secondo il protocollo e rivestiti degli abiti d’apparato che indossavano a palazzo. L’assemblea veniva introdotta quando il basileus, circondato dal suo seguito, aveva preso posto in trono. I dignitari non entravano tutti assieme, ma in successione e divisi per classi. Ogni volta che un corpo di dignitari entrava nella sala in cui si svolgeva la cerimonia, veniva tirata una portiera, come se fossero ammessi in un luogo di culto, ed essi si disponevano nei posti loro assegnati dal protocollo. L’imperatore, immobile in trono, faceva cenno agli eunuchi addetti al servizio e, questi, con una complicata successione di gesti, introducevano uno alla volta i diversi corpi di spettatori. A ciò si accompagnavano le rituali acclamazioni al sovrano e, spesso, la musica degli organi, che facevano da indispensabile corredo all’atto diplomatico vero e proprio. Altro rito essenziale del cerimoniale era l’«adorazione», già presente nell’ultima epoca pagana, con un evidente significato cultuale nei confronti dell’imperatore divinizzato. Si svolgeva secondo modalità diverse a secondo dei tempi e del rango delle persone tenute a farla e andava dal semplice inchino alla prosternazione. L’adorazione si estendeva anche alle immagini imperiali, che erano oggetto di un culto ugualmente di derivazione pagana. Questa forma di omaggio, oggetto di riserve da parte del clero nel IV-V secolo, divenne meno intensa nel corso del tempo ma non fu abolita e ancora in epoca tarda vigeva la consuetudine di far figurare le immagini del sovrano fra le icone dei santi portate in processione durante le solennità religiose.

La vita di corte era inoltre scandita da un rigido sistema di precedenze, che fissava il rango e la posizione dei dignitari nelle cerimonie, dando a queste l’aspetto di una sorta di rappresentazione rituale. Anche questa concezione faceva parte a pieno titolo del bagaglio ideologico dei Bizantini per i quali la corte terrestre, come copia di quella celeste, doveva dare di sé un’immagine di ordine e perfezione. Imitando l’immagine dell’universo, il sovrano cristiano adempiva a un suo preciso obbligo devozionale e, a sua volta, chi veniva direttamente a contatto con lui doveva ai rigidi meccanismi che ne celebravano la potenza. Al rango dei dignitari, perciò, si accompagnava una collocazione precisa nel sistema delle precedenze, che ne fissava i diritti e i doveri. I primi consistevano essenzialmente nella dimensione sociale; gli altri nell’obbligo di partecipare alle cerimonie occupando un posto determinato. La differenza di rango comportava materialmente una diversa disposizione dei dignitari, come cioè si collocavano a tavola, stavano in piedi o potevano avvicinarsi al sovrano.

L’assimilazione del rituale palatino alle celebrazioni religiose è resa evidente anche dall’uso di ceri, di canti o di vesti appropriate. In molti casi, anzi, fu sicuramente la liturgia palatina che fornì il modello a quella ecclesiastica. Ceri e incensieri erano di uso ricorrente. I primi erano già stati presenti nel mondo romano nei cortei in cui comparivano magistrati e senatori e ugualmente si bruciava incenso nei templi davanti alle statue. In origine la chiesa respinse queste usanze ma poi le accettò, a imitazione della liturgia palatina. Anche gli abiti da cerimonia portati da imperatori e dignitari avevano il carattere di veste liturgica, variando di forma e colore secondo le feste. Prima della cerimonia il sovrano si cambiava gli abiti comuni o, a volte, lo faceva anche durante la celebrazione stessa dietro un paravento teso dagli eunuchi. Ogni classe di dignitari aveva i propri abiti, che indossava secondo regole precise. Anche in questo caso le usanze ecclesiastiche furono influenzate da quelle palatine. Era assai diffuso, infine, l’uso di acclamazioni ritmiche, ugualmente già presenti nel mondo romano e di qui passate a Bisanzio dove, come altre manifestazioni di origine spontanea, furono ritualizzate inserendole nel culto imperiale. Le acclamazioni erano l’accompagnamento obbligatorio di ogni cerimonia e prendevano talvolta la forma di dialogo fra primo cantore e coro. Vi si univano inni e canti, accompagnati da musica, e ciò accentuava la somiglianza con un ufficio religioso. I canti erano di soggetto vario, ma sempre a esaltazione del sovrano. Il compito di acclamare l’imperatore spettava essenzialmente ai dignitari e alle fazioni dell’ippodromo (i «demi»), che avevano svolto questo ufficio fin dalla prima età bizantina. Le loro acclamazioni consistevano in frasi corte, che esprimevano voti di lunga vita e vittoria. Fino a quando inoltre i demi ebbero una rilevanza politica vi si univano anche lagnanze o richieste di vario genere. La perdita di questa caratteristica non li fece comunque passare in secondo piano e, al contrario, essi assunsero un ruolo sempre più centrale nell’esaltazione del basileus attraverso la formazione di cori e la presenza costante alle cerimonie.

L’evoluzione della gerarchia palatina nel corso del tempo comportò la creazione, la scomparsa o la modifica del valore dei diversi gradi, ma ebbe sempre due costanti: la non ereditarietà dei titoli e la corrispondenza fra l’esercizio di una carica pubblica e un rango nella gerarchia, per cui si ebbe essenzialmente una nobiltà di funzionari. I cortigiani si dividevano in due categorie distinte: i semplici dignitari senza compiti amministrativi, i cui titoli erano vitalizi e teoricamente irrevocabili, e quelli incaricati di assolvere una funzione, sia militare che civile, a tempo determinato. I primi, secondo la terminologia in uso nel X secolo, quando il sistema nobiliare raggiunse una notevole complessità, ricevevano «dignità per insegne», cioè contraddistinte da un brevetto o insegna della carica, mentre i secondi ottenevano «dignità a voce» o «per editto» conferite con una semplice nomina verbale. Le dignità a voce erano sessanta e investivano delle funzioni effettive di comando nei vari servizi dello stato, con alle dipendenze un ufficio amministrativo più o meno ampio. Le dignità per insegne erano diciotto, suddivise in senatoriali e processionali, che davano il diritto rispettivamente di assistere a tutte le cerimonie di corte o soltanto alle processioni. Potevano implicare funzioni palatine effettive oppure corrispondere a semplici titoli onorari e si aggiungevano di regola al predicato dei sessanta titolari delle cariche superiori, variando a secondo del grado rivestito. Tra le dignità per insegne la più elevata era quella di cesare, ereditata della tradizione più antica; seguivano quindi in ordine discendente quelle di nobilissimo e di curopalate, conferite di norma ai membri della famiglia imperiale. Si arrivava quindi alla «patrizia con cintura», l’unica dignità femminile esistente a corte, e sempre in ordine discendente ai titoli di magistro, antipato, patrizio, protospatario, disipato, spatarocandidato, spatario, ipato e altri ancora di minore rilievo. Le dignità a voce si ripartivano a loro volta in sette classi a cui si aggiungeva un gruppo a parte di cariche speciali. A questa gerarchia si accompagnava una gerarchia parallela degli eunuchi, la cui importanza a corte fu sempre notevole, comprendente cariche e titoli speciali contrapposte a quelle dei «barbuti», cioè dei dignitari non eunuchi che portavano la barba per distinguersi. I gradi di nobiltà degli eunuchi erano otto, le dignità a voce nove. La distinzione fra cariche e gradi di nobiltà in questo caso era più nominale che reale, dato che gli eunuchi di qualsiasi rango avevano normalmente incarichi a corte; potevano inoltre esercitare quasi tutte le funzioni pubbliche dei barbuti, con soltanto alcune limitazioni. Le dignità a voce riservate agli eunuchi si riferivano a servizi assai vicini al sovrano: si avevano così il «parakoimomenos» che ne sorvegliava la camera da letto, l’addetto alle vesti e alla tavola imperiale, il portiere del Gran Palazzo e il suo vice, i portieri di due altri importanti edifici palatini e i coppieri del sovrano e dell’imperatrice.

Un altro aspetto rilevante della vita imperiale in ogni epoca fu dato dalle cerimonie. La liturgia imperiale comprendeva infatti una serie di feste, fisse e mobili, a carattere religioso e profano, alle quali il sovrano prendeva parte con la sua corte. Potevano svolgersi all’interno del palazzo o al di fuori di questo. Nel secondo caso le celebrazioni più solenni comportavano una processione alla chiesa di S. Sofia, che si svolgeva con un grande apparato e una serie di fermate rituali nei punti previsti dal cerimoniale, per atti di devozione o per l’accoglienza da parte dei demi e dei dignitari. Le cerimonie erano normalmente concluse da banchetti, che avevano ugualmente un andamento rituale ed erano parte integrante della cerimonia stessa. Nel X secolo, a quando risalgono le nostre migliori informazioni, i banchetti imperiali ebbero un grande sviluppo, al punto che esisteva una vera e propria dottrina per regolarli. La maggior parte di questi aveva luogo nel Gran Palazzo nel cosiddetto «Triclinio dei XIX letti», una sala con diciannove tavole intorno alle quali gli invitati si sdraiavano alla maniera romana per consumare il pasto. Attorno a ogni tavola prendevano posto dodici persone e il sovrano, a sua volta, pranzava circondato da dodici «amici» che ricordavano simbolicamente gli apostoli. Alle altre mense si disponevano i dignitari, gli ospiti stranieri o anche i prigionieri di guerra e i popolani invitati secondo il protocollo. L’andamento del banchetto, come tutto a Bisanzio, obbediva a rigide regole. Esistevano funzionari appositi, gli «atriklinai», addetti all’organizzazione e questi dovevano provvedere a compilare le liste degli invitati, come previsto dal cerimoniale per ogni festività, a introdurli nelle sale di apparato chiamandoli uno per uno in ordine di precedenza e a farli accomodare nei posti loro assegnati. Lo stesso banchetto era poi spesso interrotto da precisi obblighi cerimoniali cui dovevano sottostare i presenti seguendo i funzionari che li disciplinavano. La partecipazione a un banchetto alla corte di Bisanzio era comunque un’esperienza unica, capace di destare la meraviglia degli invitati, soprattutto se questi erano stranieri e occasionali osservatori dei rituali complessi in uso a corte. Ce lo attesta con chiarezza il vescovo di Cremona Liutprando, che nel 949 fu ospite di Costantino VII appunto nel Triclinio dei XIX letti assistendo con meraviglia ai giochi che vi si svolsero per allietare gli ospiti.

La letteratura di Bisanzio si sofferma spesso sulla corte, che impressionava fortemente l’immaginazione dei contemporanei sia ovviamente per le vicende politiche che per quelle legate al cerimoniale e alla vita di ogni giorno. Procopio di Cesarea, uno dei più noti storici bizantini, nella sua celebre «Storia Segreta», ci offre ad esempio un quadro vivace della corte di Giustiniano e Teodora. Un altro autore dell’epoca, un modesto poeta africano di nome Corippo, ci racconta in versi la proclamazione di Giustino II nel 565 e la sua assunzione dell’ufficio di console l’anno successivo. Andando avanti nel tempo, si possono ricordare la «Cronografia» di Michele Psello, un erudito del secolo XI, addentro alle vicende politiche, che ci narra la storia di numerosi sovrani di cui fu testimone e, ancora, l’opera di Anna Comnena, figlia di Alessio I (1081-1118), che nella sua monumentale «Alessiade» racconta la vita del padre. Ma è soprattutto la letteratura cerimonialistica, che ebbe grande fortuna a Bisanzio, a portarci direttamente a contatto della vita pubblica dei sovrani. Un posto di rilievo, in questo campo, spetta al «Libro delle cerimonie» di Costantino VII Porfirogenito, scritto fra il 938 e il 959 da questo imperatore erudito per fissare un canone al cerimoniale. L’opera contiene una grande quantità di materiale antiquario relativo a cerimonie religiose, civili o profane cui si aggiungono testi di vario argomento, fra i quali anche relazioni storiche. Così come ci è giunto, il Libro delle cerimonie ha un aspetto caotico e discontinuo, ma è non di meno una miniera di informazioni, ancora utilizzate soltanto in parte, che volendo potrebbe consentire addirittura una rappresentazione scenica della vita palatina. Sulla base soprattutto del Libro delle cerimonie, ad esempio, è stata possibile una ricostruzione abbastanza accurata dell’aspetto del Gran Palazzo, utilizzando i continui riferimenti agli edifici in cui si svolgevano molti atti del rituale. A pochi anni prima di quest’opera data inoltre un altro testo singolare, il «Trattato sui banchetti» (in greco Kletorologion) scritto da un funzionario palatino di nome Filoteo. Appartiene al genere letterario dei «Taktikà», cioè degli scritti relativi all’ordine di precedenza, di cui ci sono giunti alcuni esemplari. A differenza dei normali testi del genere, di regola limitati alla semplice elencazione dei titoli, l’opera di Filoteo ha però la struttura di un vero e proprio manuale e riguarda in particolare l’ordine di precedenza da seguire in occasione dei banchetti. Egli era infatti un «atriklines», addetto quindi a questa incombenza e, come tale, scrisse un’opera destinata ai suoi colleghi di lavoro che lo avevano sollecitato a redigerla. Questa si articola essenzialmente in una sezione teorica, con l’elencazione di tutti i titoli e funzioni, informazioni su ognuno di questi e le indicazioni sulla collocazione nella gerarchia delle precedenze, cui fa seguito una parte pratica con la descrizione dei banchetti solenni che si svolgevano a corte. La letteratura specialistica sulla corte continuò poi ad affascinare i Bizantini anche nell’età della decadenza e, verso la metà del Trecento, fu composto un «Trattato sulle cariche», attribuito falsamente a un funzionario di nome Codino, che ci fornisce un quadro dettagliato della corte del tempo, soffermandosi sulla gerarchia, le uniformi dei dignitari, le feste e altri aspetti del cerimoniale. L’ideologia politica, nei suoi legami con l’istituzione imperiale, è ampiamente trattata nella letteratura parenetica, che ebbe ugualmente molto sviluppo, mentre un contributo notevole per la ricostruzione della vita di corte è dato anche dall’iconografia. A questa dobbiamo numerose immagini ufficiali di sovrani, frequenti soprattutto in mosaici, miniature e naturalmente nelle monete, nonché di dignitari di corte nelle vesti di apparato. Come molti aspetti della civiltà del tempo, infine, anche l’iconografia religiosa fu influenzata dai modelli imperiali e spesso le immagini della devozione ci mostrano abbigliamenti che, in modo più o meno diretto, possono essere ricollegati ai costumi della corte di Costantinopoli.

Fonti e bibliografia orientativa

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UpUltimo aggiornamento: 25/04/2005