Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
2. Roma: il comune, Arnaldo da Brescia, l'incoronazione imperiale (A) Ottone di Frisinga, Cronaca, SRG 45, VII,
27, 31, 34. (B) Ottone di Frisinga, Gesta di Federico imperatore,
SRG 46, 1, 28. (C) ….
A partire dal 1143 i pontefici dovettero fare fronte
alla ribellione (nata sulla base di un conflitto locale con Tivoli)
dei Romani, che proclamarono - nella forma velata di nostalgie anticheggianti
della renovatio Senatus – il comune e si opposero quindi
all'autorità politica della chiesa; il papa Eugenio III dovette
lasciare la città (A). Contemporaneamente,
alla ribellione politica si aggiunse la contestazione religiosa di Arnaldo
da Brescia, un predicatore di stampo patarinico-evangelico, severo giudice
della gerarchia ecclesiastica e della sua perdurante compromissione
con il mondo, non risolta nemmeno dopo la fine della lotta delle investiture.
Arnaldo in realtà nelle sue richieste andava oltre l'accordo,
pur mai realizzato, perché troppo rivoluzionario [cfr. cap. 2])
di Pasquale II e Enrico III sulla totale “sfeudalizzazione ecclesiastica”
e pretendeva addirittura la rinuncia alla ricchezza e il ritorno alla
povertà evangelica da parte del clero. I giudizi su di lui sono
divergenti: ad esempio, durissimo è quello di Ottone di Frisinga
(B), mentre più articolato
è quello di Giovanni di Salisbury, presente alla corte papale
sotto Eugenio III (1145-1153) durante una delle fasi più calde
dell'intera vicenda (C).
Arnaldo, allontanandosi da Roma dove si era rotto il suo rapporto con le forze
trainanti della città, fu consegnato dal Barbarossa – della cui
protezione si era ingenuamente fidato – al papa Adriano IV, per ordine
del quale fu impiccato e bruciato. Subito dopo, forte del compromesso con il papa,
il Barbarossa entrò in Roma dove fu incoronato, nel giugno del 1155. (A) Il papa
Innocenzo, che già da molto tempo aveva scomunicato i Tiburtini
[1] e li aveva
pressati [anche con altri mezzi], li costrinse angustiati, ad arrendersi
dopo aver accettato degli ostaggi e dopo che era stato prestato un giuramento.
E allora il popolo romano, poiché voleva [invece] che li costringesse
tramite ostaggi e giuramento a condizioni durissime, e cioè che
cedessero tutto il loro territorio dopo aver abbattuto le mura, mentre
il nobilissimo e liberalissimo sacerdote non voleva acconsentire a tanta
irragionevole e inumana richiesta, muove una sommossa; e sull'onda di
questa stessa rivolta [i Romani], venendo in Campidoglio e desiderando
rinnovare l'antica dignità dell'Urbe, ricostituiscono l'ordine
senatorio, che ormai era scomparso da moltissimo tempo, e rinnovano
la guerra con i Tiburtini. La causa di tanta inumanità fu che
l'anno prima, mentre stavano con il loro pontefice all'assedio della
predetta città, essendo usciti [fuori] i cittadini [di Tivoli]
ed essendo venuti alla mani con essi, [i Romani] erano stati messi in
fuga con vergogna, dopo aver perso molte delle [loro] cose. Nello stesso periodo il papa Lucio, uomo degno per la sua mansuetudine
e l'umiltà del suo officio sacerdotale, successore di Celestino,
che non aveva regnato nemmeno sei mesi [2],
avendo sopportato una grave persecuzione da parte dei cittadini [romani],
inviò delle lettere al re Corrado [3]
nelle quali si parlava tanto della sua oppressione quanto dell'incolumità
e prosperità di lui, richiedendo grazia a Dio e invitandolo a
proteggere la chiesa romana […]. Il popolo romano, non volendo
porre alcun limite alla sua pazzia, aggiunse ai senatori, che aveva
già istituito, un patrizio e, eleggendo a questa dignità
Giordano figlio di Pierleone [4],
si sottomette a lui come ad un principe. Poi [i Romani] vanno dal loro
pontefice e rivendicano al diritto del loro patrizio anche tutte le
sue regalie, poste tanto nell'Urbe che fuori e, dicendo che quello [5],
secondo il costume degli antichi sacerdoti, doveva mantenersi solo con
le decime e le offerte, di giorno in giorno non temettero di affliggere
l'anima di quel giusto. Egli pure, afflitto da angustie quotidiane e
preso da disgusto di vivere, morì dopo meno di un anno di pontificato
e lasciò come successore per voto comune del clero e del popolo
Eugenio, uomo illustre per religione e santità [6].
Questi, all'inizio della dignità che aveva assunto, poiché
tutto il popolo voleva sollecitarlo, come già il suo predecessore,
a consegnare le regalie dell'Urbe, lasciò l'Urbe con i vescovi
e i cardinali e la domenica successiva alla consacrazione pontificale
si rifugiò nel monastero di Farfa, mutando abitudini a causa
dell'inumanità della persecuzione. Poi, fuggendo il furore del
popolo romano, si trasferì in luoghi muniti e infine, venendo
a Viterbo, lì si trattenne per un po' di tempo. Ma il popolo
romano, infuriato, [guidato] dal suo patrizio Giordano, abolendo la
dignità della prefettura, costrinse tutti i principi e i nobili
fra i cittadini alla sottomissione al patrizio e, abbattendo non solo
le torri di alcuni degli illustri laici, ma anche le case dei cardinali
e dei chierici, fa una preda immensa. Non temono anche di incasellare
[7] in modo sacrilego
e profanissimo la chiesa di S. Pietro, capo di tutte le chiese. I pellegrini
che venivano per pregare, dopo che li avevano richiesti di [compiere]
offerte li costringevano con la grazia delle ferite e con le frustate;
e alcuni di questi, che non volevano fare offerte, non temevano di ucciderli
nello stesso portico e vestibolo del tempio in modo sacrilego. Infine
il venerabile pontefice, dopo aver percorso prima con la spada della
scomunica Giordano con alcuni di suoi fautori, con l'appoggio della
milizia dei Tiburtini, antichi nemici dei Romani, li attaccò
e li costrinse a chiedere la pace. Eugenio fece una pace con i Romani di questo tenore, che abolissero
la dignità di patrizio e ricevessero nella precedente dignità
il prefetto, e tenessero i senatori della sua autorità; e così
tornando nell'Urbe, vi celebrò il giorno della natività
del Signore, all'inizio dell'anno dell'incarnazione del Signore 1146
[8] Ottone di Frisinga, Cronaca, SRG 45, VII, 27, 31, 34. [1] Gli abitanti di Tivoli.
[2] Marzo 1144; si tratta di Celestino
II e Lucio II.
[3] Corrado III (1137-1152).
[4] Giordano Pierleoni.
[5] Papa Lucio.
[6] Eugenio III, febbraio 1145.
[7] Cioè fortificare.
[8] È il 25 dicembre 1145. Molto
presto però il papa fu costretto a lasciare di nuovo la città. (B) In quei giorni [1]
un certo Arnaldo, che indossava l'abito religioso, ma che non lo rispettava
affatto, come si rivelò dalla dottrina che predicava per invidia
dell'onore ecclesiastico, entra nella città di Roma e, volendo
rinnovare la dignità senatoria e l'ordine equestre a somiglianza
degli antichi, sollevò quasi tutta l'Urbe e particolarmente il
popolo contro il suo pontefice. Ottone di Frisinga, Gesta di Federico imperatore, SRG 46, 1, 28. [1] Ottone inserisce la venuta di Arnaldo
a Roma fra avvenimenti del 1146; è probabile invece che essa sia più tarda. (C) Si trattava la pace tra il papa
[1] e i Romani e partivano
continuamente ambascerie dalle due parti. Ma si frapponevano molti ostacoli soprattutto
perché non volevano cacciare Arnaldo da Brescia che si diceva si fosse votato con
un giuramento alla difesa dell'onore della città e del
comune romano. E il popolo di Roma gli aveva a sua volta promesso aiuto e consiglio contro
tutti e in particolar modo contro il papa; infatti la chiesa romana l'aveva scomunicato e
aveva comandato che fosse isolato come eretico. Era sacerdote, canonico regolare e tormentava
le sue carni con vesti ruvide e con digiuni. Di vivace intelligenza, tenace nello studio
della Scrittura, era eloquente e energico predicatore del disprezzo del mondo. Ma, come
dicono, era sedizioso, predicatore di scismi e, in qualunque luogo si trovasse, non permetteva
che i cittadini fossero in pace con il clero. Era stato abate a Brescia e, mentre il vescovo,
partito per Roma, vi si tratteneva alquanto, aizzò l'animo dei cittadini a tal punto
che a malapena furono disposti ad accogliere il vescovo al suo ritorno. Perciò papa
Innocenzo lo depose e lo cacciò dall'Italia; egli si ritirò in Francia e si
unì a Pietro Abelardo che egli appoggiò con grande impegno assieme a Giacinto,
che è ora cardinale, contro l'abate di Claivaux [2].
Dopoché maestro Abelardo partì per Cluny, rimase a Parigi sul ponte di Santa
Genoveffa a spiegare la Sacra Scrittura ai discepoli a S. Ilario, dove il già
ricordato Pietro era stato ospitato. Ma non ebbe altri ascoltatori al di fuori di poveri
che mendicavano l'elemosina di porta in porta per sostenere se stessi e il loro maestro.
Insegnava cose che concordano perfettamente con la legge dei cristiani e che discordano
dalla loro vita. Non risparmiava i vescovi per la loro avarizia e per le loro vergognose
esazioni e soprattutto per la loro vita indecorosa e perché edificavano la chiesa di
Dio sul sangue. Accusava l'abate [3],
che era famoso per i suoi molti meriti, di vanagloria e di invidia verso coloro che avevano
fama nel mondo delle lettere e della religione, se non appartenevano alla sua scuola.
L'abate ottenne che il cristianissimo re di Francia lo cacciasse dal suo regno. Perciò,
dopo la morte di Innocenzo, ritornò in Italia e, avendo promesso di pentirsi e di
obbedire alla Chiesa di Roma, fu accolta a Viterbo da papa Eugenio [4].
Gli fu imposta penitenza che egli promise di fare con digiuni, veglie e preghiere nei luoghi
santi che sono… MANCANO INTERE PAGINE.
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