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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


VII
Impero e comuni in Italia

5. La Lega Lombarda e il partito imperiale
(A) Anonimo, Continuatore della storia di Federico I, SRG, NS 7, pp. 135-138.
(B) Gli atti del comune di Milano, 64 (1168).
(C) Federico I, Diplomi, DRG 10/2, n. 356 (1162).
(D) Federico I, Diplomi, DRG 10/2 n. 367 (1162).

Il racconto delle angherie subite dai Lombardi, nel periodo che intercorre tra la distruzione di Milano e la stipulazione della Lega, offre lo spunto al continuatore anonimo della cronaca dei due Morena per scrivere pagine dolenti (A); un altro scrittore, egli pure anonimo, milanese, definisce la “schedatura” fiscale dei Milanesi operata dai rappresentanti imperiali il Libro delle Tristezze. La nascita della Lega (1167) – della cui vitalità interna è testimonianza il patto tra le città ad essa aderenti e il marchese Obizzo Malaspina (B) – cambia però rapidamente i dati della situazione. Milano è ricostruita e i Lombardi si avviano allo scontro aperto con l'imperatore, forti dell'appoggio di Alessandro III. Non è corretto, comunque, interpretare la situazione italiana come una lotta che vedeva tutte le città da una parte e Federico dall'altra. Abbiamo già visto che numerose città lombarde erano, in effetti, schierate con l'impero. E, al di fuori della Lombardia, città come Pisa o Genova ottennero da Federico I, in ricompensa della loro fedeltà, privilegi amplissimi (C, D), che risultarono decisivi proprio per l'affermazione dell'autorità di quei comuni cittadini sul loro distretto territoriale.


(A) Partito l'imperatore per la Germania [1], ove rimase per raccogliere l'esercito, quei procuratori che aveva mandato, come sopra dicemmo, in Lombardia, non solo vi esigevano il diritto ed i tributi imperiali (che se avessero esatto soltanto questi non sarebbe successo alcun male né scandalo, né i Lombardi se ne sarebbero rattristati), ma anche facevano scucire a tutti ingiustamente più di sette volte tanto di quel che era dovuto per diritto al sovrano. Ed opprimevano vescovi, marchesi, conti, ed anche consoli delle città, capitani e quasi tutti gli altri Lombardi, sia grandi che piccoli, perché essi, sia per amore, sia anche per timore dell'imperatore esitavano a difendersi da loro. Questo fatto i Lombardi stessi non potevano sostenerlo in alcun modo senza sommo danno ed ignominia di persone e di cose e soprattutto i Milanesi, ai quali dei frutti di tutte le loro terre lasciavano soltanto un terzo della terza parte; parimenti i Cremaschi, ai quali portavano via del tutto il terzo di tutte le loro terre, come se fossero i loro padroni.
Inoltre per ogni focolare, sia dei cittadini buoni e nobili che stavano in villaggi o castelli, sia dei villani e dei rustici, costringevano nobili e contadini a pagare per ogni anno tre soldi di moneta vecchia e imperiale. Anche per ogni mulino che navigava in acque navigabili esigevano dal loro padrone, chiunque fosse, ventiquattro denari antichi; dai padroni dei mulini, che macinavano in altre acque, ricevevano tre soldi di moneta vecchie. Ai pescatori portavano via la terza parte di tutti i pesci, e se qualcuno, trasgredendo il loro precetto, prendeva qualche animale selvatico o uccello e loro venivano a saperlo, gli portavano via la bestia ed il volatile, e per di più lo facevano pagar pena nelle sue proprietà e talvolta anche nella sua persona. Oltre a ciò l'imperatore aveva completamente annullato tutti i diritti utili, che i capitani o qualunque altro signore di qualche castello erano stati soliti possedere e tenere, essi ed i loro predecessori per trecento anni addietro, abitando nel castello stesso o in un suo villaggio, non permettendo loro di usufruire dei diritti, né di esercitare il loro uso, ma li aveva rivendicati tutti a sé.
Ma che dire infine, se non che li opprimevano ogni giorno per giunta con mali così grandi che, si dovessero narrare per ordine, sembrerebbe troppo difficile e si volgerebbe in fastidio per la troppa quantità? Poichè i Lombardi, come è stato detto sopra, erano sempre più oppressi (essi infatti erano soliti vivere bene e largamente, senza costrizione di alcuno, e rimanere nella libertà propria, e si erano abituati a disporre le proprie cose secondo loro talento e volontà, né nei tempi addietro erano stati così strettamente sotto l'impero o al servizio di alcuno), se la presero come un grande oltraggio e massimo disonore, anche oltre quanto si possa dire o pensare; dicendo tra di loro che per loro era meglio morire piuttosto che subire una turpitudine e disonore di tal genere. Ma tuttavia rinunciavano a fare vendette o a compiere qualche male o ad escogitarlo (né ci fu mai alcun Lombardo, per quanto io abbia visto o udito da qualcuno, che si prendesse qualche vendetta), poiché aspettavano sempre di giorno in giorno l'arrivo dell'imperatore, dicendo intanto: «Non crediamo che questo male e disonore, che i messi dell'imperatore ci inferiscono, essi lo facciano per volontà di lui. Ma ben crediamo che, quando l'imperatore verrà, ciò gli dispiacerà e farà rimuovere completamente tutti i mali che ci arrecano. Non ci sia alcuno intanto che, prima del suo arrivo, arrechi del male ad un altro, ma sopportiamo tutto in pace per amoredell'imperatore, finchè non venga». 
Mentre queste cose erano fatte dai procuratori imperiali in Lombardia e questo male, quasi come malattia gravissima, era cresciuto su quasi tutti i Lombardi, finalmente l'imperatore con la sua nobile consorte, nel mese di novembre del 1166, indizione quindicesima, ritornò in Lombardia con un grande esercito e, lasciatolo a […], venne a Lodi con la sua sposa e molti suoi principi, sia Tedeschi che Lombardi. Ivi tenne una grandissima dieta generale, durante la quale dispose di andare a Roma con tutto il suo esercito [2] . E così vescovi, marchesi, conti, capitani ed anche maggiorenti e moltissimi altri Lombardi, sia di elevata che di umile condizione, alcuni con le croci, altri senza. vengono davanti all'imperatore e si lamentano assai dei suoi procuratori e messi, e riferiscono per ordine i mali arrecati da quelli, come erano stati fatti loro, al sovrano e alla sua corte. L'imperatore, udendo ciò, dimostrò da principio di dolersene molto; ma tuttavia alla fine, quasi tenendo in nessun conto e a vili le lamentele dei Lombardi, non ne fece niente. Dunque i Lombardi, vedendo ciò e riportandone un gran dolore, si ritennero quasi per morti e da allora cominciarono ad avere un grandissimo timore misto a dolore; temevano anche e pensavano che i procuratori imperiali avessero fatto quel che avevano fatto ai Lombardi per consiglio e volontà dell'imperatore; per di più anche temevano che per il futuro toccasse loro peggio di quanto fino ad allora era toccato.

Essendo i Milanesi oppressi molto più degli altri Lombardi, così da pensare che in nessun modo avrebbero potuto scampare o vivere, finalmente fecero un raduno coi Cremonesi, i Bergamaschi, i Bresciani, i Mantovani ed i Ferraresi. Tutti questi, una volta radunati insieme, dopo essersi riferiti a vicenda i mali ed i danni loro arrecati dai procuratori e dai messi imperiali, stabilirono che era meglio morire con onore, se fosse opportuno e non si potesse fare altrimenti, anziché vivere con vergogna e tanto disonore. Perciò quelli subito strinsero tutti un patto tra di loro [3]; confermarono fermamente e corroborarono col giuramento tra di loro l'accordo ed il patto, cioè che ciascuna città avrebbe aiutato l'altra se l'imperatore o i suoi procuratori o messi volessero arrecare loro qualche ingiuria o male più grande senza ragione, salva tuttavia (come era detto esplicitamente) la fedeltà all'imperatore. Stabilirono inoltre di comune accordo un termine, entro il quale tutti si sarebbero diretti a Milano, avrebbero rimesso i Milanesi nella loro città e con essi ci sarebbero rimasti tanto a lungo e li avrebbero aiutati a ricostruire i loro fossati, [finché] i Milanesi non confidassero di potervi rimanere da soli. Fatto e compiuto ciò, tutti con animo lieto si separarono da quel raduno.

Anonimo, Continuatore della storia di Federico I, SRG, NS 7, pp. 135-138.

[1] Siamo nel 1163.
[2] Cfr. paragrafo 4 (D).
[3] È la Lega Lombarda (1167).


(B) Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo. L'anno della sua incarnazione 1168, 3 maggio, prima indizione.
1. Tenore del breve che il marchese Obizzo Malaspina e i consoli di Cremona, Milano. Verona, Padova, Mantova, Parma, Piacenza, Bologna. Brescia, Bergamo, Lodi, Como. Novara, Vercelli, Asti, Tortona e Alessandria, città nuova, su proposta del comune di Lodi unanimamente hanno accettato: nessuna persona del predetto marchese né delle predette città né di altre che sono o saranno in tale alleanza arrestino qualcuno al posto di un altro di qualche città o contro un altro facciano vendetta in occasione di un contratto o di un reato, ma quando ritengano uno debitore non solvente lo accusino e chi ha mancato sia arrestato dai consoli della sua città e se i suoi consoli non lo avranno obbligato alla restituzione del pegno o all'ammenda o al rendimento di giustizia, se c'è accusa da parte di un vicino, entro, quaranta giorni dopo la richiesta dei consoli di chi è stato defraudato o offeso, allora i consoli della città del danneggiato avranno il potere di sequestrare i beni della città alla quale appartiene la persona che ha contratto il pegno o ha commesso reato contro gli statuti, e tratterranno ciò che hanno sequestrato fino a che non sarà data soddisfazione a loro o al loro cittadino.
2. Ugualmente stabilirono che nessuna città né il suddetto marchese accolgano qualcuno bandito dai propri consoli, e se lo avranno accolto o se gli avranno permesso di entrare nel loro territorio entro i quindici giorni successivi alla richiesta presentata dai consoli o dal marchese che lo hanno posto al bando, lo allontanino dal loro dominio e territorio e in seguito non lo accolgano di nuovo, se non quando sarà assolto dal bando dai propri consoli.
3. Stabilirono poi che nessuna persona e nessuna città riscuota dazi o pedaggi nuovi sul proprio territorio: per nuovo intendiamo che sia stabilito negli ultimi trent'anni. Inoltre nessuna città o marchese in nessun modo stabilisca qualche patto o sottostia a qualche giuramento che sia ostile a questa lega comune e alleanza fra le città.
4. Ugualmente stabilirono che, se il suddetto marchese o qualche città avrà agito contro la lega stabilita fra le città, o si sarà rifiutata di rendere giustizia a qualche città alleata, tutte le altre città sono tenute in quel caso ad aiutare quella che avrà richiesto giustizia o subito il torto, fino a che non si torni in pace e concordia dopo aver ripristinato la giustizia.
5. Ugualmente stabilirono e concordarono che nessuna città o persona edifichi fortezze sul territorio di giurisdizione di un'altra città contro la volontà di quella città, se non appare per altro speciale accordo. […]
6. Ordinarono inoltre con fermezza che nessuna città o marchese accolga contro la volontà della città che vi esercita giurisdizione nessun castellano, ossia signore di castello della giurisdizione di un'altra città – che cioè si trovi entro i confini giurisdizionali di un'altra città –, o, se lo avrà accolto,  lo lasci andare dal suo territorio e in seguito non lo accolga di nuovo entro quindici giorni da quando sarà stato richiesto dai consoli di quella città. Solo la città di Alessandria non è tenuta a osservare quest'ultimo decreto.
7. Ugualmente stabilirono che non vale il ricorso fatto a Federico [1], salvo nel caso in cui vi sia l'accordo della maggioranza delle città.
8. Tutti i suddetti decreti sono tenuti a osservare con giuramento tutte le città della lega, salvo patti particolari fra le singole città intercorsi durante o dopo l'adesione alla lega.
Furono presenti testimoni di […]. [2] E io Guidotto notaio e giudice ordinario dell'imperatore Federico [3] fui presente e su richiesta dei consoli soprascritti scrissi questo documento di trattato e di alleanza.

Gli atti del comune di Milano, 64 (1168).

[1] Ovviamente si tratta del Barbarossa.
[2] Segue l'elenco dei rappresentanti delle varie città della Lega.
[3] Un giudice di nomina imperiale non era necessariamente schierato con Federico. Infatti qui Guidotto è, chiaramente al servizio della Lega.


(C) Nel nome della santa e indivisibile Trinità. Federico con il favore della divina clemenza augusto imperatore dei Romani. […] Con quanta fedele onestà la città di Pisa, fin dalla sua prima fondazione, sollevò il suo capo fra tutte le altre città, con quanta costanza aderì fedelissimamente ai nostri divini predecessori re dei Romani e imperatori, servendoli con perseveranza, lo abbiamo molto spesso udito […]. Pertanto piacque alla nostra clemenza che il popolo pisano riceva un onerevolissimo guadagno per la sua fede e devozione […]. Perciò noi, Federico per grazia di Dio augusto imperatore dei Romani, diamo e concediamo in feudo a voi, Lamberto console pisano e Villano, Enrico, Bozio, Sigerio e Opizone, ambasciatori, che lo ricevano con lui per la vostra città, tutto ciò che la detta città o qualsivoglia persona ha e tiene delle cose del regno, e tutto ciò che appartiene al regno o all'impero o è della marca o in qualche altro modo o diritto o consuetudine appartenne da trent'anni o apparterrà [all'autorità pubblica] nella città di Pisa e nel suo distretto, per terra e sulle isole. E concediamo e diamo a voi in feudo il comitato del vostro distretto […] E affinché i Pisani e quelli che sono nel loro distretto, e le loro cose, siano liberi, anche sotto il consolato e i giudici e i podestà da se stessi liberamente [eletti], come a loro piacerà. E la città di Pisa abbia piena giurisdizione e potestà di fare giustizia e anche vendetta, e di dare tutori e mundualdi e le altre cose che un giudice ordinario o qualunque potestà predetto deve avere dall'impero [per esercitare] la sua giurisdizione nel suo distretto e verso i suoi [abitanti], [giurisdizione] che gli abbiamo concesso e che gli concederemo. E i Pisani e quelli che sono del loro distretto non devono essere sottoposti a fodro e ospitalità [1] da alcuno […]. E concediamo a voi in feudo la riva del mare e [in più] soltanto, vicino ad essa, ciò che consentirà] liberamente ai Pisani di costruire navi e galee e di esercitare i commerci, e [concediamo anche] ciò che a noi appartiene da Civitavecchia a Portovenere, e che nessuna possa in questa [zona] o alle foci delle acque [2] nei confini stabiliti costruire un porto o commerciare contro la volontà dei Pisani. […] E delle cose dette investimmo i Pisani con la spada che tenevamo in mano, dando loro un terzo del tesoro del detto re Guglielmo, perché sia loro [3].

Federico I, Diplomi, DRG 10/2, n. 356 (1162).

[1] Fodrum e hospitalitas: due imposte pubbliche, entrambe legate al mantenimento diretto di truppe o funzionari regi o imperiali.
[2] Cioè dei fiumi.
[3] Il riferimento è alle ricchezze del regno normanno di Guglielmo I, che Federico sperava di conquistare con l'aiuto anche dei Pisani.


(D) Nel nome della santa e individua Trinità. Federico con il favore della divina clemenza imperatore romano e sempre augusto. […]
Poiché abbiamo udito che la città di Genova fino alla fondazione ha levato il capo al di sopra delle altre città marittime e si è distinta per evidenti opere di virtù e di molta probità per terra e per mare in ogni tempo, piaque alla nostra maestà di avere la fedeltà di così grandi persone, cioè di tutti i Genovesi, e di conservarla con ogni benevolenza avanti a tutti e di onorare i Genovesi sempre in comune con congrui onori e maggiori benefici. […]
Similmente doniamo e concediamo in feudo ai consoli ed al Comune di Genova la libera potestà di eleggere dal proprio seno, di confermare e tenere consoli che abbiano il diritto e facoltà di fare giustizia, di punire i malefici [1] nella città e nel suo distretto, di buona fede, legittimamente, secondo i buoni costumi della stessa città; e ad essi non imponiamo altra potestà. Inoltre tutti i castelli, i porti, le regalie, i possessi, i diritti e tutte le cose che tengono e posseggono, di quà e di là dal mare, le concediamo loro e le doniamo in feudo e le confermiamo per nostra grazia con imperiale autorità. […]
Questo è il giuramento che i consoli ed i cittadini di Genova faranno al signore Federico imperatore dei Romani sempre augusto: «Nel nome del Signore. Amen. Io giuro che da questa ora in poi sarò fedele al signore Federico imperatore dei Romani e sempre augusto, come per legge debbo essere al mio signore e imperatore; e non sarò (partecipe) a fatto o decisione che metta in pericolo la sua vita o la corona o l'impero o l'onore suo o la città di Genova o il suo distretto. E se, che ciò non avvenga, li avrà perduti, gli darò aiuto per ricuperarli in buona fede ed a tenerli senza frode contro tutti. E giuro che il comune di Genova compirà per lui impresa e spedizione per mare e con la sua forza [militare] in buona fede, senza frode o cattiva intenzione».

Federico I, Diplomi, DRG 10/2 n. 367 (1162).

[1] I crimini.

 

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