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Fonti

L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale

a cura di Anna Maria Nada Patrone

© 1974 – Anna Maria Nada Patrone


Sezione III – La borghesia e la vita economica

Introduzione

Già prima del Mille nelle città italiane si era venuto a distinguere ed a formare un agglomeramento di gruppi sociali, non ben definito, che il Violante, lo studioso della società milanese precomunale [1] ha chiamato «ceto medio cittadino», composto di preti, giudici, artigiani, monetari, negoziatori, mercanti, livellari e liberi proprietari di terre.

Tale ceto, dai limiti e dalle caratteristiche ancora fluttuanti, non costituiva una cerchia ristretta e chiusa; era però essenzialmente formato da uomini d'affari, anche se per l'Italia non si può accettare completamente l'affermazione del Pirenne che il termine di mercante sin dal secolo XII fosse sinonimo di borghese. Si è visto infatti che questo nuovo ceto cittadino in Italia, accanto ai negoziatori ed ai mercanti, contava preti, uomini di legge e possessori fondiari, sollecitati ad inurbarsi ed a dedicarsi al commercio dalla constatazione che la città era capace di assorbire a prezzi remunerativi i prodotti del contado.

Proprio queste prime alleanze e questa originaria comunanza di interessi spiegano come quei primi cittadini e quei proprietari terrieri, che erano riusciti ad affermarsi attraverso un medesimo processo di trasformazione della società italiana, anche nei secoli seguenti non ebbero mai interessi ed atteggiamenti diametralmente opposti, anzi, in misura diversa a seconda dei centri, furono sempre allineati sulle medesime posizioni.

Nel periodo dello sviluppo del comune i cittadini «più antichi» furono talmente consci della loro forza e della loro funzione determinante nella vita politica ed economica che non temettero l'intromissione della rimanente nobiltà del contado, ben conoscendone la progressiva debolezza, anzi auspicarono l'inurbamento dei signori rurali, perché i nobili avrebbero costituito in tempo di guerra un aiuto militare, ed inoltre perché soltanto attraverso una diuturna coabitazione essi avrebbero potuto maggiormente accelerare i tempi per sgretolare il loro potere.

Venne così a mancare in Italia la netta separazione tra campagna-nobiltà e città-borghesia che contraddistingue le città d'Oltralpe. Di conseguenza per l'Italia sono senza valore anche altre equivalenze, basate sui binomi proprietà terriera = capitale fondiario e borghesia = capitale mobile.

Infatti frequentemente, se non usualmente, i nobili inurbati si diedero ad attività mercantili ed i borghesi impiegarono parte degli utili del commercio per l'acquisto di beni immobili nel contado.

Tenendo fermo questo assunto, si deve tuttavia sottolineare che di luogo in luogo, di caso in caso, vi fu spesso una netta differenza di comportamento della classe signorile di fronte all'affermarsi del nuovo ceto. Alcuni nobili, incapaci di avvertire le novità dei tempi e di inserirsi nel nuovo sistema economico, si condannarono da soli ad una vita di miserie morali e materiali, dannosa a sé ed agli altri (specialmente nella parte meridionale d'Italia dove la borghesia, pur essendo attiva, ebbe anche caratteristiche e forme di sviluppo completamente diverse da quelle della borghesia centro-settentrionale) [2]. Altri, conservando un'esasperata coscienza delle proprie prerogative ed una ferma volontà di dominio, riuscirono ad inserirsi nella nuova mentalità e a conservare e rafforzare il loro potere (ad esempio Venezia) [3]. Altri ancora si mescolarono con la classe mercantile, pur combattendola, finché ne furono vinti sul piano politico (ad esempio Firenze).

Nell'Italia centro-settentrionale quindi, a poco a poco, l'aristocrazia del sangue venne a decadere e ad essa si sostituì l'aristocrazia del denaro, che volle fregiarsi di un titolo nobiliare acquistando la dignità cavalleresca [4].

Si tenga però ben presente che questa nuova cavalleria non aveva più alcuno dei caratteri di quella del periodo feudale, cioè le caratteristiche aristocratiche e militari, ma era soltanto un titolo onorifico, concesso ai borghesi come compenso di servigi resi al comune o alla parte predominante nelle lotte intestine della città. A ragione dunque il Boccaccio, nel Corbaccio, poté scrivere che a certa gente la cavalleria si adatta «come la sella al porco», in quanto questi nuovi cavalieri erano amici delle virtù cavalleresche «come il diavolo delle croci», e Baldo da Perugia, giurista del secolo XIV, poté condannare la mancanza assoluta di spirito militare dei cavalieri del suo tempo, specialmente «dei cavalieri della Toscana e massimamente di quelli di Firenze, che si interessano più degli affari mercantili che della gloria militare».

Ciò nondimeno in questo periodo si andò verificando quello che il Sapori ha definito «il cedimento delle opposte mentalità», cedimento che portò alla formazione di un nuovo ceto dominante, dal quale venne emergendo la borghesia dell'età moderna.

L'equilibrio tra nobiltà cittadina e ceto medio mercantile poggiava infatti sull'equilibrio delle loro forze economiche, che a poco a poco, progressivamente, venne compromesso a tutto vantaggio dei mercanti, man mano che questi si rafforzavano e si affermavano nella società cittadina. Dopo la seconda metà del secolo XIII i mercanti riuscirono infatti ad acquistare nella vita della città un peso economico che si riflesse evidentemente nella loro posizione sociale e politica, staccandoli sempre più dai ceti bassi, che cominciarono a provare contro di loro e contro la loro prepotenza una sorda ostilità, come risulta, per esempio, dagli statuti di Calimala del 1302 («Ogni giorno i più potenti ed i loro soci con nuove prerogative e con nuove esazioni ci opprimono ovunque»).

Una questione di particolare importanza è quella concernente il modo in cui le rendite signorili terriere passarono, almeno in parte, dalle mani di una nobiltà inattiva o almeno scarsamente produttiva a quelle di una classe di mercanti-possidenti, che trasformò le rendite signorili e le preparò per nuovi investimenti, in altri termini come le rendite signorili vennero mobilitate per l'investimento capitalistico. Se l'agricoltura fu la fonte più evidente di quella che Marx chiamò l'«accumulazione primitiva», ve ne furono altre, senza le quali il ritmo dell'espansione capitalistica sarebbe stato assai più lento. Ci furono la speculazione commerciale sui prodotti di lusso e il commercio a grandi distanze che poggiava sui temporanei squilibri dei prezzi più che sullo scarto tra profitti realizzati e salari. All'accumulazione primitiva contribuì anche in maniera determinante il prestito usuraio a piccoli consumatori, cioè l'usura a più basso livello, esercitata anche in ogni piccolo villaggio, dove l'uomo che aveva a disposizione capitali mobili poteva imprestarli ad alto interesse (cfr. lettura 6) al contadino, già servo della gleba ed ora divenuto libero, che non aveva di che vivere, di che acquistare le sementi o gli attrezzi o di che pagare le imposte. Naturalmente a livello più alto c'erano i grandi mercanti e banchieri che prestavano denaro ai signori laici ed ecclesiastici o ai principi, prestito più remunerativo, ma più pericoloso in quanto sussisteva sempre il rischio di confische e di fallimenti. Infine non ricoprì un ruolo secondario nella formazione dei primi capitali la speculazione sulla scarsità o rarità di certe merci: le carestie, le fallanze furono periodiche e continue e coloro che avevano la possibilità di accumulare notevoli quantità di generi di prima necessità, li vendevano al momento opportuno al miglior offerente a prezzo notevolmente maggiorato.

Quando però dopo il Trecento mutarono le spinte produttive e gli adeguamenti conseguenti dalle forme giuridiche e politiche, si modificò anche la collocazione e l'importanza delle due figure di operatori economici, che sino ad allora avevano continuato ad agire, salvo rare eccezioni, sotto il comune denominatore delle necessità di consumo locale: l'artigiano e il mercante.

Tra questi due tipi di operatori economici, l'unico che poteva meglio evolversi economicamente e riuscire a prendere le redini dei traffici e dei mercati, accumulando così patrimoni cospicui, era quello dei mercanti, non certo quello degli artigiani, privi della possibilità di possedere una conoscenza vasta ed oculata del commercio e dei tempi più favorevoli agli acquisti perché erano legati alla produzione parcellata per un embrionale, quanto aleatorio, mercato costituito quasi esclusivamente dalle commissioni e ancorato al luogo di produzione.

Solo i mercanti, che avevano acquistato con i traffici e con gli spostamenti continui un vivo spirito commerciale ed una vastissima familiarità con gli affari, con gli sbocchi di mercato, con le condizioni di compra-vendita, poterono trasformare le modeste transazioni occasionali in un grande complesso di vendite organizzate e regolari. Questa superiorità meramente economica segnò il vero trionfo del ceto borghese, che riuscì ad imporsi sugli artigiani, tagliati fuori dal mercato e indifesi di fronte allo strapotere del capitale commerciale. Un passo importante nello sviluppo dei rapporti economici fu costituito dal fatto che ad un certo punto dell'emancipazione e del predominio del commercio sull'artigianato, il mercante, ormai padrone del mercato e possessore di cospicui patrimoni, cominciò ad agire da intermediario tra gli artigiani ed i consumatori, acquistando e poi rivendendo profittevolmente le merci della produzione parcellata. Con l'evoluzione ulteriore. di questo rapporto, il mercante iniziò a pagare l'artigiano con le materie prime necessarie al suo lavoro. Così, dopo aver escluso l'artigiano dal mercato dei prodotti finiti, lo escluse dal mercato delle materie prime e in questo modo lo subordinò definitivamente a sé. Rimase allora solo da compiere un passo per muoversi da questa forma a quella superiore di capitale commerciale, in cui il mercante distribuì direttamente la materia prima agli artigiani che la lavoravano dietro compenso. L'artigiano diventò così un lavoratore salariato, operante nel proprio domicilio per il mercante borghese.

A questo punto è però necessario sottolineare che questo processo di trasformazione del negoziatore non fu generale. Si ebbero sempre piccoli e minimi mercanti che indirizzavano il lavoro al fine della sussistenza, secondo la mentalità artigiana; ci furono mercanti medi e ci furono i grandi, i primi capitalisti. Tra questi due ultimi gruppi la differenziazione non è facile perché non ci si può basare soltanto sulla distinzione tra chi si dedicava al commercio al minuto e chi invece a quello all' ingrosso, perché tale differenza non dice assolutamente nulla sulle reali capacità economiche dei mercanti; non ci si può basare sul raggio d'azione, ponendo fra i grandi soltanto coloro che erano impegnati nei commerci internazionali, in quanto anche i piccoli mercanti, spesso uniti in società, vi si dedicavano. Neppure si può tener conto della specializzazione in quanto tutti, anche i più grandi, si dedicavano contemporaneamente ad ogni tipo di traffico, di qualsiasi merce, alla banca e spesso anche alla manifattura. Il criterio migliore, suggerito dal Sapori, è quello di considerare «grandi» coloro che attraverso la ricchezza ed il successo nei traffici, tendevano al potere politico: erano i più spregiudicati ed insieme i più esposti, in quanto spesso non lavoravano soltanto con il proprio denaro, ma anche con quello degli altri, avuto in deposito per farlo fruttare. Sono questi che, come già si è detto, possono essere considerati i primi capitalisti, non solo in senso economico, ma anche in senso politico.

Nota bibliografica sulla borghesia e la vita economica

J. LE GOFF, Marchands et banquiers du Moyen Age, Parigi, PUF, 1956; A. SAPORI, Le marchand italien au Moyen Age, Parigi, Colin, 1952.


J. STRIEDER, Le origini dello spirito capitalistico nell'Italia del Rinascimento, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», XLIII (1935); A. SAPORI, Studi di storia economica, secoli XIII-XVI, III ed., Firenze, Sansoni, 1955; R. LOPEZ, Saggi di storia economica, Torino, Einaudi, 1959; F. MELIS, Aspetti della vita economica medievale, Firenze, Olschki, 1962; C. CIANO, L'etica economica nel Basso Medio Evo, Pisa, 1965; Y. RENOUARD, Gli uomini d'affari italiani del Medio Evo, Milano, Rizzoli, 1973; A. SAPORI, La mercatura medievale, Firenze, Sansoni, 1973.

[1] C. VIOLANTE, La società milanese nell'età precomunale, Bari, Laterza, 1953.

[2] Il ceto medio meridionale era infatti composto da giuristi, notai, medici e dagli ufficiali regi; scarsissimi quegli operatori economici, che ne formavano altrove il corpo principale ed il più sensibile ed attento ai pubblici affari. Cfr. la classica Storia del Regno di Napoli del CROCE e le stimolanti pagine di G. GALASSO, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1965 e in Dal comune medievale all'Unita. Linee di Storia meridionale, Bari, Laterza, 1969.

[3] Per Venezia cfr. G. CESSI, Storia economica di Venezia dall' XI al XVI secolo, Venezia, 1961 e AA.VV., Renaissance Venice, Londra, 1973.

[4] Cfr. G. SALVEMINI, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, I ed., Firenze, Ricci, 1896; II ed. in Magnati e Popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Torino, Einaudi, 1960, pp. 339-478.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05