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Didattica > Strumenti > Bisanzio. Società e stato > Documenti, 2

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Bisanzio. Società e stato

di Jadran Ferluga

© 1974 – Jadran Ferluga


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2. Il malgoverno di Giustiniano

Procopio di Cesarea è il più grande storico del VI secolo e probabilmente di Bisanzio. Descrisse le guerre di Giustiniano I (527-565) contro i Vandali in Africa, i Goti in Italia e i Persiani in Asia. Scrisse un encomio esagerato sull'attività edilizia dell'imperatore. Qui riportiamo due frammenti dalla cosiddetta Storia segreta (vedi Bibliografia, traduzione di G. COMPAGNONI, pp. 67-68 e 133-135), in cui Procopio diede sfogo a tutto il suo malumore, al suo odio per Giustiniano e sua moglie Teodora. Anche se esagerata, la descrizione di Procopio offre un quadro impressionante della crisi e dei problemi che l'impero romano non era più in grado di risolvere.


I

Giustiniano salito sul trono tosto prese a confondere tutte le cose, a introdurre nella repubblica quanto dalle antiche leggi era stato proibito e a interdire quanto dalla consuetudine era consacrato, come se il real manto avesse indossato per voltar faccia alle cose. Egli abrogò le forme stabilite de' magistrati e le leggi e gli ordini militari, e altre regole introdusse non da giusto diritto indotto né dalla considerazione del pubblico bene, ma dalla vanità che tutto fosse nuovo e tutto portasse il suo nome. Per questo, alle cose che non potesse immantinenti abolire, diede ad esse per lo meno una denominazione sua. Non poté mai satollare la fame ch'egli avea del sangue e dell'oro; perciocché, fatto bottino di quanto nelle opulentissime case di uomini danarosi poteva raccogliere, movea ad assaltarne degli altri, prodigalizzando poi subito le rapite dovizie ai barbari o gittandole in pazzi edifizi. Così, macchiato del sangue di crude stragi, parecchie altre ne movea nell'animo nuove insidie studiando.

I Romani erano in piena pace colle nazioni straniere ed egli, da furor sanguinario agitato, impaziente di riposo, tutti da ogni parte i barbari mise alle mani tra loro, e senza ragione a sé chiamati i capi degli Unni, con istolta munificenza diede loro enormissime somme per conciliarsene – diceva – e assicurarne l'amicizia: cosa che dicemmo avere fatta vivendo anche Giustino. Le quali somme poi avute, que' medesimi altri capi e le turbe loro eccitavano a entrare nelle province dell'impero e a saccheggiarle per vendergli anch'essi a peso d'oro la pace. Né tardarono questi a depredare le città dei Romani e a ottenere con ciò dall'imperatore per sì bel merito gli stipendi; e a que' secondi succedettero altri devastatori egualmente delle stesse già devastate terre, i quali, carichi pur di bottino, dal munificentissimo Principe traevano ancora la mercede delle loro incursioni. E, per dir tutto in poco, niun tempo essi frapposero tra l'una e l'altra incursione e tra l'uno e l'altro devastamento, queste cose succedendosi con perenne giro. Imperciocché molti essendo i capi de' barbari e molti i luoghi nei quali all'intorno stanziavano, la guerra era fatta loro ordinaria faccenda per le smoderate largizioni appunto dell'imperatore incominciata, e tale poi divenuta da non aver mai fine, poiché sempre si tornava da capo. Così a quel tempo non vi fu paese de' Romani, non monte, non caverna salvi da saccheggiamento, e a molte province toccò d'essere fino a cinque volte e anche più devastate. Siffatti mali da costoro recati e dai Persiani, dai Saraceni, dagli Sclavi e da altri barbari, io narrai nei libri antecedenti, né ad altra cagione possono tutti riferirsi che a quella che ho qui notata. Gran denaro spese per istabilire la pace con Cosroe, poi, ostinatamente seguendo il suo capriccio, senza alcun motivo, ruppe il trattato e con ogni genere d'intrighi e di sforzi fece alleanza con Alamundaro e cogli Unni che erano soci e confederati de' Persiani: il che mi ricordo di avere già detto a luogo debito.

II

Due stretti sono ai fianchi di Costantinopoli: uno nell'Ellesponto ove stanno Sesto e Abido, l'altro alle fauci dell'Eusino (Mar Nero). Nello stretto dell'Ellesponto non si permise mai alcun ordine di pubblicani, né alcun banco di cambiatori o prestatori. Fu colà dagli imperatori mandato un pretore residente in Abido, officio del quale fosse vedere le merci e le armi che senza licenza del Principe sulle navi si trasportassero a Costantinopoli, e chicché fosse il quale di là navigasse senza lettere o tessera del magistrato a ciò preposto. Né poi era permesso partire con navi da Costantinopoli senza licenza de' ministri dipendenti dal maestro degli offici. Piccolissimo era il dazio che si esigeva dai padroni di nave. Simile magistrato mandavasi all'altro stretto colle stesse ispezioni, e invigilava se merci si conducessero ai barbari abitatori delle spiagge dell'Eusino, le quali fosse vietato di recare dalle città dei Romani ai nemici. Il pretore a queste cose destinato non poteva dai naviganti farsi pagare veruna cosa. Non così fu dacché Giustiniano salì sul trono imperiale. Sull'uno e l'altro stretto vennero messi pubblicani e due pretori colà collocati con determinato soldo, perché ogni attenzione ponessero a cavar danaro quanto potessero mai il più. Costoro, che non desideravano se non di rendersi accettissimi all'imperatore, fecero pagar dazio per ogni qualunque merce a' naviganti. Così fecesi pure all'altro stretto.

Al porto poi di Costantinopoli prepose un certo Addeo, siro di nazione e suo famigliare, a cui ordinò di procurargli guadagno qualunque sulle navi mercantili che colà approdassero. Costui, alle navi stanziate nel porto di quella capitale, non permise di partirne se non dopo costretti i padroni delle medesime, o a pagare il nolo di esse o a portare le merci in Africa o in Italia. Per lo che alcuni, non volendo più saperne di carichi e di navigazione, abbruciate le loro navi si liberarono da quelle angherie. Ma quelli che il bisogno obbligava a vivere di tale professione, vollero dai mercatanti per le condotte un prezzo tre volte maggiore, e i mercatanti per salvarsi dalle accresciute spese alzarono poi i prezzi con chi dovea comprare. Con queste diverse arti ecco come tutti finalmente i Romani vennero a patire. Ciò riguarda le negoziazioni.

Ma non credo di dovere omettere come questi Principi tesaurizzassero sulla piccola moneta. In addietro i cambiavalute pagavano per ogni statere d'oro dugento dieci oboli chiamati fole a chi voleva cambiare. I Principi, vedendo di poter guadagnare, stabilirono di cambiare a centottanta: con che vennero a rubare a tutti i sudditi il sesto della moneta d'oro. Siccome poi aveano essi fatto monopolio di quasi tutte le merci, con incredibile e cotidiano incomodo di chi avea a comprarne, salvo che di ciò che riguardava le cose di vestito e gli emporii delle medesime, vennero a sottilizzare finalmente anche su di queste. Una volta i mercatanti di vestiti di seta e gli artefici de' medesimi negoziavano gli uni e gli altri; aveano le loro officine in due città della Fenicia, Berito e Tiro, di dove le merci di tal genere diffondevansi poi per tutto il mondo. Ma sotto il regno di Giustiniano, avendo quelli presa stanza in Costantinopoli e in varie altre città, alzarono i prezzi della merce allegando che presso i Persiani ancora eransi alzati e che cresciuti erano i dazii nello Stato dell'Impero. Il che tutti capirono essere stata speculazione profonda di Giustiniano, dopo che videro stabilito per legge che la seta si vendesse otto monete d'oro la libbra sotto pena della confiscazione de' beni. La quale disposizione essendo parsa assurda ai negozianti, giacché avendo essi pagate le merci a carissimo prezzo avrebbero dovuto venderle per pochissimo, preferirono di abbandonare la mercatura.

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UpUltimo aggiornamento: 26/07/08