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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


LETTURE

2. La decadenza del Mediterraneo: una polemica per un nuovo «tipo» di storia[1]

La pubblicazione della rivista «Annales d'histoire économique et sociale», che nel 1929 si aggiunse alla «Revue de Synthèse Historique», significò che nella battaglia per l'allargamento della visuale della storia le posizioni raggiunte da Henri Berr sarebbero state superate da Marc Bloch e da Lucien Febvre, ai quali si univa Henri Pirenne collaboratore fin dal primo fascicolo delle «Annales». Già la «Revue de Synthèse» aveva mostrato l'interesse della costruzione d'insieme, il cui risultato supera la somma dei singoli dati. Ma bisognava andare ancora più in profondità per vedere se, in relazione a ciò che si deve intendere per Storia, sia opera storica la presentazione separata ancorché organica, di fatti di natura diversa: politica, economica, sociale e così via; se più del fatto sia da ricercare l'uomo che ne è l'autore; se in tale ricerca dell'uomo sia da tener presente il «tipo» eterno, immutabile, sempre identico a se stesso, o non piuttosto la creatura che, inquadrata nell'ambiente, muta atteggiamento col variare delle circostanze, e, nel mutare delle circostanze, col partecipare alla categoria, alla classe, alla nazione. Solamente spostando l'occhio dalla astrazione dell'uomo isolato alla realtà dell'uomo associato, la constatazione del reale consentirà di interpretare la successione degli accadimenti nei quali si risolve lo svolgimento della civiltà. Dopodichè, sapendo come furono risolti problemi del passato, e come e perché l'oggi differisce dall'ieri, potremo essere più avveduti nella scelta dei mezzi per fronteggiare il dramma di cui siamo attori nel mondo attuale. È pertanto evidente che l'opera di storia non si risolve in un racconto, ma ha per principio e fine il porre problemi. Agli interrogativi che stabilirà, lo storico darà risposta, finché sarà possibile, con l'ausilio e sulla base della documentazione: in difetto, con la formulazione di ipotesi, con le quali tanto più si accosterà al vero quanto più larghi saranno i suoi interessi, quanto più sarà consapevole dei legami, sempre più ampi e concreti, che uniscono la storia alle altre discipline: dalla geografia alla antropologia, dal diritto alla economia, dalla psicologia alla linguistica e via dicendo.

Ecco come la Storia, se vuole, come deve, ricostruire quella unità che sono gli uomini e le società, non è suscettibile di attributi che caratterizzano compartimenti-stagni. Sociale nella sua essenza, le partizioni in storia politica, storia economica, storia giuridica, diplomatica, e quant'altro si voglia presentano l'arbitrarietà del cosiddetto «periodo» con il quale si usa di circoscrivere entro dati cronologici il corso ininterrotto della civiltà, facendo perno, appunto, sui fenomeni più appassionanti di uno dei tanti aspetti della vita associata. Proprio in virtù di questo convincimento, dal 1929 a oggi la ricordata rivista di Marc Bloch e Lucien Febvre ha più volte mutato titolo nel tentativo di rispecchiare una tendenza sempre più precisata: da «Annales d'histoire économique et sociale» a «Annales (e poi Mélanges) d'histoire sociale» e finalmente solo «Annales» col sottotitolo «Economies, Sociétés, Civilisations». Frattanto Fernand Braudel entrava a far parte della direzione della rivista, che quasi alla fine del conflitto mondiale perdeva il «partigiano» Marc Bloch, caduto per la libertà coerentemente con la sua fede storica e umana. Siamo, evidentemente, al tentativo di superare le posizioni della vecchia storiografia: quella condotta con vari metodi, ossia strumenti, via via di moda, metodo storico, metodo filologico, metodo critico, i cui risultati sono condensati nei manuali irti di date, di nomi, di fatti e privi di idee che hanno tormentato generazioni di studenti fino a quelli di oggi. E a questo punto mi si domanderà se dietro a tanto travaglio sta l'aspirazione di dar fede all'aforisma «Storia maestra della vita»: inteso nel senso che la conoscenza della storia, condotta sui nuovi indirizzi, potrebbe finalmente evitare errori ulteriori alla umanità. Senza dubbio, no: questa non è la finalità. Ma ciò non toglie che una tale storia non possa avere una influenza benefica sugli orientamenti della società e della civiltà. Intanto una storia che presenti tutti gli uomini partecipi, come in realtà sono, agli avvenimenti – partecipi non soltanto alle battaglie, ma con il lavoro, con l'aspirazione alla giustizia, con la stessa sofferenza – sarà scuola di socialità, ossia di umanità. L'esaltazione del singolo e dell'élite ha ingenerato lo scetticismo; e lo scetticismo ha giustificato l'acquiescenza alle dittature, alla onnipotenza della diplomazia, alla imprescindibilità dell'intrigo per cui la condotta politica può e deve avere un contenuto diverso dalla morale comune: premesse tutte queste alla accettazione di rapine, di umilianti mercati, infine dei lutti di tante guerre. Il ridimensionare le «figure gigantesche» significherà rendere «gigantesca» la società umana, «giganti» i popoli, degni e capaci dei propri destini. Una storia, che spalancando le finestre sulla vita di tutto il mondo cerchi motivi e riflessi che si fanno sempre più numerosi e più impegnativi, potrà indicare le direttive di una politica, la quale, superando nazionalismi e imperialismi, apra la via ad una collaborazione veramente mondiale. Una storia, infine, suscitatrice di pensiero, sarà palestra di dignità e di responsabilità, anticiperà il raggiungimento del traguardo ultimo del singolo e della collettività: la libertà.


Questo lungo discorso vuole supplire, in primo luogo, alla brevità del resoconto dell'opera, d'altronde non riassumibile per la mole e soprattutto per la ricchezza del contenuto, che Fernand Braudel pubblicò nel 1949 col titolo La Méditerranée et le Monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, e che ora, 1953, la Casa Einaudi presenta nella traduzione di Carlo Pischedda, con modifiche e perfezionamenti soprattutto bibliografici, che, a parte la ricchezza delle illustrazioni, autorizzano a parlare di vera nuova edizione (voll. 2 di complessive pp. 1158, con 112 tavole fuori testo, alcune delle quali a colori). Siccome l'A. definisce, con orgoglio e con coraggio insieme, l'opera sua «una polemica sincera a favore di un tipo di storia», quella, appunto, per la quale è scesa in campo la rivista «Annales», ecco un'altra giustificazione del mio excursus iniziale, premessa, necessaria alla comprensione dell'interessantissimo studio.

La polemica comincia con il titolo stesso del lavoro e con la impostazione delle parti che lo costituiscono.

Il titolo significa proprio una di quelle che poc'anzi ho detto aperture di grande respiro. Si tratta del Mediterraneo, che sino alla fortuna degli oceani fu pressoché tutto il mondo. Nel suo ambito, ove si erano susseguite e svolte più civiltà, ancora all'epoca di Carlo V e di Filippo II racchiudeva incognite, conservava segreti, minacciava pericoli. Si tratta di una unità — elemento spazio — della quale andavano trovati, e provati, gli elementi costitutivi; e andavano indagati — elemento tempo — gli sviluppi in virtù dei quali, nel periodo studiato, quella unità presentava dati aspetti.

La partizione è in tre grandi settori. Primo: L'ambiente. La geografia del Mediterraneo (l'A. parla di geostoria) estesa alle pianure, ai deserti, agli altipiani, alle montagne, alle città e alle strade del retroterra ben lontano dalle coste (gran parte dell'Europa, l'Africa sino all'Abissinia e al Niger, e il Vicino Oriente fino al Mar Rosso, al Golfo Persico, al Caucaso, alle steppe russo-asiatiche), ha consentito di mettere a fuoco il valore di forze costanti, capaci di frenare o stimolare il giuoco delle forze degli uomini. Secondo: Destini collettivi e movimenti d'insieme. Si parla delle civiltà, delle società e degli stati: opere indubbiamente degli uomini che nell'organizzarle si adattano o reagiscono all'ambiente, e che presentano, esse pure, una certa costanza in quanto appaiono, piuttosto che espressioni di singole volontà, il risultato di forze impersonali. Terzo: Gli avvenimenti, la politica, gli uomini, dal 1550 al 1584. Qui, nel tumulto dei fatti, il caso e il genio hanno rilievo particolare, pur non venendo meno il peso delle forze considerate nelle prime due parti dello studio. Vorrei dire, piuttosto, che inseriscono molti fili di ordito in una trama di cui non si perdono, tuttavia, le caratteristiche essenziali.

Non siamo, evidentemente, in presenza di un racconto. Compiamo, piuttosto, un viaggio fascinoso, che l'A. ha percorso superando enormi difficoltà per rendere agevole il passo al lettore, per fornirgli i dati necessari affinché il meno possibile sfugga alla sua vista e alla sua riflessione; e senza mai imporgli gli occhi propri e la propria sensibilità. Uno, appunto, dei segreti di quest'opera, è che sei con un Maestro e ti sembra un compagno con il quale intrecci di continuo un dialogo per aiutarvi a vicenda a suscitare problemi e a tentarne la soluzione. Un altro segreto è che nessuna delle visioni che si susseguono, grandiose, meravigliose o terrificanti, appare miracolo ossia del tutto inattesa. Si è che il vero storico, che non crede al miracolo nel mondo del razionale, pur potendo sentire fortemente non si lascia sorprendere da quella commozione che ai mestieranti o agli istrioni della storia è facile pretesto per esonerarsi dalla dura ricerca del «perché». Come ogni scienziato degno di questo nome, lo storico non si rassegna a non spiegare.

Eppure, quante cose al Braudel non sono totalmente chiare! Sotto questo aspetto un altro segreto dell'opera è la sincerità, è la semplicità con le quali l'A. insiste sui problemi non sicuramente risolti. Un esempio: laddove la tradizione storica ha cancellato con gli inizi del Cinquecento la grande via del Mediterraneo, il Braudel ha portato ad un secolo più tardi il calare del sipario sulla grandezza mediterranea. E questo è certo: documentato, non frutto di ipotesi. Ma ho risolto, si domanda, il problema della «decadenza» e le questioni annesse del declino dell'Italia, della Spagna e della Turchia? Non avrei, si accusa, minori esitazioni se avessi allargato i limiti spaziali, e soprattutto quelli cronologici della mia opera, imponendomi di conoscere a fondo l'equilibrio del secolo XV morente e la situazione dei primi decenni del secolo XVII? E soggiunge: atteso che «la storia si offre a noi come una serie di crisi, fra le quali si notano equilibri di cui non si parla abbastanza forse perché si rivelano soltanto con la loro distruzione», non sarebbe necessario formulare un concetto preciso del vocabolo «crisi»? Ma si può, o comunque lo può lo storico da solo — ossia senza il concorso dell'economista, del sociologo e così via — concludere che c'è una decadenza-tipo di cui i vari casi storici sarebbero successive varianti? In mancanza di un metro universalmente ritenuto valido come unità di misura, il Braudel elenca una quantità di sintomi di decadenza, nessuno dei quali però riconosce decisivo. Forse, egli dice, poco ho concesso all'«audacia» che pure è un caposaldo del mio e del nostro «metodo». Senza dubbio se meno avesse concesso alla «prudenza», che è necessaria e dannosa a un tempo, avrebbe potuto affermare, e non solo prospettare, sintomo dei sintomi, il progressivo abbandono delle vie marittime che avevano segnato l'ascesa dai tempi più lontani fino alle crociate, e la lenta ripresa delle vie terrestri; mentre alla ognor diminuita importanza dello spazio liquido, già veicolo decisivo per il rifiorire dell'economia e della cultura, si accompagnava il mutamento della tecnica della guerra navale: non più protagoniste le flotte creatrici di imperi, anche quelli economici delle repubbliche marinare italiane, ma protagoniste le navi corsare, dalle quali Roma aveva spazzato il suo mare per assicurare la propria fortuna, e Venezia e Genova avevano spazzato l'Adriatico e il Tirreno per la conquista della loro. A ogni modo, che pensare del fatto, innegabile, che proprio nel momento in cui tante ombre si addensano sul mondo mediterraneo, preludendo alla notte del secolo XVII, sprizzano bagliori di più intensa civiltà? Forse ciò che chiamiamo civiltà, nel senso qualitativo, è sempre un segno di deterioramento e di compimento ad un tempo? «Proprio nell'autunno degli stati cittadini, nel loro stesso inverno, fiorì il Rinascimento italiano destinato a stupire il mondo. Proprio nell'autunno degli imperi del mare, quello di Costantinopoli, quello di Madrid, quello di Roma, crescono le loro vaste civiltà imperiali: alla fine del secolo XVI queste ombre brillanti ondeggiano là dove vissero i grandi corpi politici al principio del secolo».

Non andavo errato, adunque — e credo che bastino questi pochi cenni a provarlo — allorché accennavo, nell'opera del Braudel, a una problematica che impegna costantemente l'autore e il lettore e li lega in un dialogo da pari a pari. Il che è la premessa di discussioni ulteriori, forse fra altri interlocutori, al seguito delle quali il volume attuale sarà superato. Ed è prova decisiva di fede e di dedizione alla scienza quella offerta dall'A. che, dopo aver impegnato tutto se stesso nella grande costruzione, gode per la certezza che il suo libro «sarà riscritto», in quanto «la storia è una interrogazione sempre nuova e differente del passato, perché deve seguire i bisogni e talora le angosce dell'ora presente». A rinnovare il libro, di cui tuttavia tante parti saranno convalidate, sarà di stimolo anche la sua inquadratura: nella quale si avverte l'intimo dramma di chi, facendo perno sull'uomo come fattore di storia, constata quanto duramente l'uomo è vincolato da forze esterne alla sua volontà: forze fisiche e forze collettive, che per il fatto di essere spesso silenziose gli dànno la illusione della libertà.

C'è adunque la libertà dell'uomo? Ed entro quali limiti si può esplicare? Questi limiti appaiono molto ristretti se si ammetta che la bandiera della libertà ha per campo preferito le brevi zone situate fra determinismi, sorta di falle lasciate dalle realtà costrittive là dove non riescono alla piena saldatura; e più angusti ancora risultano quei limiti allorché si constata che su quelle zone gli uomini sono tutt'altro che numerosi. Il Braudel, che pur respinge come «abusiva ogni semplificazione della storia per mezzo di spiegazione materialistica», ammette però che quanto più si allarga la portata dei problemi tanto più piccola si fa la parte degli individui. Eppure, aggiunge, i problemi umani restano tali, ossia «affondanti le radici nei dominii non ancora chiari della biologia»; e «la visione dilatata di esperienze umane i cui elementi non sono più gli uomini singoli ma i gruppi di uomini, non distrugge la funzione dell'individuo: analoga a quella dei catalizzatori in date combinazioni chimiche, può apparirci di volta in volta infima o magnificamente essenziale».

Il dramma che ho detto si agita nell'animo del Braudel appare in tutta la sua evidenza allorché, chiuso il libro, si ripensano le prime due parti, e della terza si ricordano le pagine dedicate a don Giovanni d'Austria e a Pio V, «forti personalità che seppero rompere, squilibrare, la linea normale dei destini del secolo». È vero che il loro sforzo grandioso non ebbe continuatori, forse «perché veri pionieri sono soltanto coloro che sanno comprendere meglio l'oscuro desiderio, l'inconscio sforzo della loro epoca, e illuminarlo con il loro genio»; ma ciò non toglie che l'A. si sia sentito trascinato. «La loro povera libertà [dei grandi uomini], così caramente disputata, mi appare come un bene più prezioso, una piccola fiammella, ma che arde». Il metodo di cui il Braudel ha inteso dare un saggio polemico mostra forse una incrinatura nel non prendere partito deciso fra determinismo e volontarismo? Non fraintendiamo. Nell'opera di storia, che è ricostruzione di vita, non pretendiamo un rigorismo che finirebbe per far dimenticare proprio il principio e il fine ultimo: l'uomo.

Torno all'inizio. Il lavoro di vera Storia può fornire elementi per spaziare nel futuro, il presente illuminando il passato e il passato gettando fari di luce sull'avvenire? Riporto dall'ultima pagina del volume: «Mi sembra che l'Atlantico si trovi oggi al centro del mondo — ma per quanto tempo ancora? — un po' come il Mare interno, un tempo, al cuore del vecchio mondo. L 'Oceano è un legame, una unità, un vasto sistema urbano dalle stazioni unite le une alle altre. Sincronizza la vita dei popoli, delle razze, degli stati, delle nazioni e delle civiltà che si trovano vicine al suo spazio. È lo strumento silenzioso di una civiltà complessiva che congiunge l'occidente dell'Europa all'oriente delle Americhe, che in ogni campo, qualunque siano le differenze e gli ostacoli, o anche le volontà talvolta manifestate, impedisce loro di disgiungere i propri destini. Soltanto alcuni scrittori inglesi, nel periodo fra le due guerre, ne segnalarono la vigorosa realtà. Forse se ne parlerà comunemente soltanto il giorno in cui una decadenza dell'Oceano avrà creato, contro di sé, sia la fortuna di altri spazi liquidi, sia, mostruosa, la fortuna delle terre». Evidentemente il Braudel ha una sua idea. L 'ho accennato più sopra, e volutamente qui ci ho insistito: la certezza che la civiltà si sviluppa attraverso il mare. Per questa tesi le pezze di appoggio non mancano, e si hanno conferme anche e contrario: per esempio, all'impero di Carlo Magno non fu possibile di dare l'impronta alla civiltà tutta del tempo proprio perché gli mancò il mare. Una certezza, adunque, per il passato. Ma che cosa potrà portare l'avvenire, soprattutto con lo sviluppo della tecnica, a partire dalla sua applicazione ai trasporti materiali e alla comunicazione delle idee? In un tempo di cui lo storico non può prevedere la data ma di cui non può escludere l'avvento, la «fortuna delle terre» sarà, come oggi appare al nostro A., «mostruosa»? Un altro problema aperto: uno degli innumerevoli problemi suscitati dall'opera geniale di Fernand Braudel.

[1] A. SAPORI, Studi di storia economica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. III, pp. 299-306 (Recensione a F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, voll. 2. Torino, Einaudi, 1953). Vedi «2. La crisi del secolo XIV». Questa lettura vuole richiamare l'attenzione su un'opera indicata nella «Nota bibliografica», notevole per la comprensione di un indirizzo storiografico.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06