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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


3. Il mercante all'opera

4. Il mercante straniero

Abbiamo visto come l'associazione nelle arti e corporazioni servì di trampolino di lancio ai mercanti italiani per prendere nelle mani il governo nella maggior parte dei Comuni; come una volta al potere quei mercanti orientarono la politica monetaria e quella tributaria; come organizzarono la società commerciali per esplicare un lavoro che richiedeva forti capitali. Allargando lo sguardo ai mercanti al di là delle Alpi, in paesi nei quali, pur nella diversità delle situazioni il clima politico era diverso da quello che si aveva in Italia cominciamo, per stabilire un confronto, dalle associazioni parallele alle arti ma ora soltanto simili e ora diverse sostanzialmente: quelle delle «gilde», dei merchants adventurers, delle «Hanse» del mondo anglosassone.


a) LE GILDE, I MERCANTI AVVENTURIERI, L'HANSA. Le «gilde», più vicine alle arti italiane, erano mercantili e artigiane. Prime nella seconda metà del secolo XII furono le mercantili che si formarono nei piccoli centri agricoli, nei quali quelle artigiane non si potevano costituire in quanto la divisione del lavoro era pressoché inesistente, e gli artigiani, come compratori delle materie prime occorrenti al loro lavoro, potevano essere ammessi fra i mercanti. A mano a mano che le manifatture, e con esse i commerci, presero sviluppo nei centri urbani, nelle città nacquero le gilde di mestiere in contrasto con le altre, le quali, dopo avere atteso in blocco a ogni sorta di traffici, si polverizzavano col circoscrivere la loro attività alla vendita dei vari oggetti della produzione. La forza delle gilde artigiane crebbe dal secolo XIII e raggiunse il massimo fra il Trecento e il Quattrocento quando i loro membri, soprattutto di quelle del continente (non le inglesi), arrivarono a coprire cariche nelle amministrazioni cittadine in contrasto con il patriziato, debole del resto per le lotte interne.

I merchants adventurers inglesi si unirono per accentrare nelle loro mani la esportazione dei prodotti del regno, minerali e metalli e soprattutto lana e poi panni lavorati. La monarchia li riconobbe e concesse a loro molte facilitazioni fino all'esenzione dal pagamento dei dazi, data la concomitanza dei loro interessi con i propri, per il raggiungimento dei quali organizzava la sua politica economica.

La «Hansa», che nel tedesco antico significa «raggruppamento», fu agli inizi (secolo XII) una unione di mercanti prevalentemente tedeschi delle città e del retroterra dell'Europa settentrionale per tutelare gli interessi comuni all'estero ovunque si portassero temporaneamente o si fermassero stabilmente: per il che costituivano delle colonie nelle quali ottennero dalle autorità locali il diritto di vivere secondo le proprie leggi, e particolari agevolazioni ai loro traffici. Ciò che richiama molto da vicino gli «stabilimenti italiani in Terrasanta» degli anni delle crociate. La Hansa più antica fu la Stalhof di Londra, e l'estrema ad est quella di Novgorod. La solidarietà fra mercanti fece luogo a mano a mano alla solidarietà fra le città a cui appartenevano, le quali, non avendo ciascuna la forza per garantire da sola la tutela ai propri uomini, e godendo di una larga autonomia per la debole o addirittura mancante autorità politica dell’impero, presero a unirsi in leghe varianti per il numero delle città aderenti: numero che andò via via crescendo fino a che la più nota e più forte, la Lega hanseatica, arrivò nel Cinquecento a contare 90 confederate. Comunque, federazione non stabile e senza statuto fisso, non ebbe un apparato militare proprio: il che non toglie che alcune città associate abbiano dichiarato guerra a tutela dei loro interessi con l'aiuto indiretto della Lega

È chiaro che in un clima diverso da quello dell'Italia i mercanti d'Oltremonte e di là dalla Manica non potessero assurgere, per mezzo delle loro associazioni, alla pienezza del potere a cui pervennero quelli dei nostri Comuni, ma ciò non significa che essi pure non abbiano fatto leva sulla loro organizzazione per avere influenza, riflesso della loro forza economica, sulle direttive politiche nel senso largo della parola delle autorità costituite. Non che i signori, comunque si chiamassero fino al re, abdicassero ai loro fondamentali diritti sovrani, ma nel sottofondo di molti dei loro atti non è difficile riconoscere una sollecitazione di stampo mercantesco: nel trattamento, per esempio, fatto agli stranieri, fino a decretare la loro espulsione se fossero concorrenti degli uomini d'affari o del lavoro del luogo. Non bisogna dimenticare, d'altronde, che anche nei regni, più solidi di altre formazioni minori, le città riscattavano, dietro pagamento di somme di danaro, una autonomia amministrativa di varia larghezza, in seguito alla quale a capo di quelle «municipalità» si trovavano spesso mercanti. Così in Inghilterra, mi limito al solito a un solo esempio, si assiste a una lotta continua fra le gilde e i mercanti stranieri. I quali, se pure erano accolti di buon grado perché portavano materie prime e altre merci richieste in quanto mancanti sul posto, per un altro erano serrati, con disposizioni regie, in una rete di regolamenti e di controlli per impedire che spezzassero il monopolio del mercato interno, appannaggio dei mercanti regnicoli, mettendosi in diretta corrispondenza con i produttori e con i consumatori. Lotta nella quale le gilde presero a perdere terreno via via che i sovrani, impegnati in imprese belliche costose e costretti a ricorrere ai capitalisti di fuori, soprattutto agli italiani, abrogarono i privilegi rilasciati alle comunità, al cui governo preponevano propri funzionari, scelti talvolta fra i loro finanziatori: che potevano essere anche mayor della stessa Londra. In questi momenti le gilde mordevano il freno, ma seminavano e scatenavano l'odio della popolazione: quella di Londra nel 1326 saccheggiò e bruciò i magazzini dei Bardi, inferendo a essi uno dei tanti colpi che prepararono la loro rovina. Per il fatto che i mercanti stranieri non avevano il governo delle città, è ovvio che non poterono agire sulla moneta (del resto il diritto di cui i signori erano più gelosi); e quanto ai tributi potevano tutt’al più fare includere nelle «carte di franchigia» comprate dai sovrani il diritto a qualche riduzione.


b) LE SOCIETÀ COMMERCIALI [v. LETTURA 5].  Due parole, invece, si debbono spendere – e così si conclude il raffronto fra due situazioni – per le società commerciali che all'estero –ripeto che traggo i dati dal Jeannin che si è occupato di grandi aziende della fine del Quattrocento e di tutto il Cinquecento, tedesche (Fugger, Hochstetter, Imhof, Paumgartner, Tucher, Vöhlin, Welser), spagnole (Laran), fiamminghe (Schetz) – ricalcavano a distanza di tempo i modelli già affermati in Italia nel Dugento e nel Trecento. Così le caratteristiche della «commenda» genovese degli anni di Benedetto Zaccaria si ritrovano a La Rochelle nel 1599. E lo stesso si dica per le «compagnie» ora ricordate, con questo da precisare: che rimasero per lo più di tipo familiare ammettendo fra i soci esclusivamente membri della casata: i Fugger, per esempio, non uscirono mai dall'orbita dei consanguinei. I capitali di manovra erano costituiti dal «corpo di compagnia» e dai depositi in conto corrente dei compagni («fuori corpo di compagnia»), nonché da quelli di terzi, rimunerati con un interesse fisso di un tanto per cento maggiore per i compagni e minore per i terzi. Per essere completo aggiungo che il Jeannin dice anche, e qui ci sarebbe una diversità, di depositi di clienti, a più lunga scadenza, che avrebbero partecipato agli utili per una aliquota però minore di quella dei soci. Le società si imperniavano come le italiane su una casa madre e una costellazione di succursali che dapprima, prive di autonomia finanziaria, dipendevano strettamente dalla sede centrale; e poi si troverà il tipo della holding che Francesco di Marco Datini da Prato aveva impostato, come si è visto, sullo scorcio del Trecento e i Medici avevano precisato nel corso del secolo successivo. Come le italiane, svolgevano una attività multipla, commercio, industria, banca, e avevano rapporti con i sovrani, ai quali facevano prestiti con le medesime modalità e le medesime garanzie, e correndo i medesimi rischi (si accosti il fallimento dei Bardi e dei Peruzzi al seguito dei mancati pagamenti di Edoardo III e la rovina dei Fugger dopo la bancarotta di Filippo II). Tra i sovrani c'erano anche i pontefici, dei quali Jakob Fugger il Ricco prese a essere tesoriere dal 1476 mentre una quantità di compagnie italiane già nella seconda metà del Dugento erano state incaricate dalla Camera apostolica di raccogliere e trasmettere le «decime della cristianità»: funzione di campsores domini Papae che ebbero un peso sui grandi fallimenti a Firenze a mezzo Trecento. Infine, anche nella organizzazione amministrativa niente di sostanzialmente diverso: Jakob il Ricco, all'apogèo della sua impresa, disponeva di un capo contabile, il famoso Matteo Schwarz da cui dipendevano due sottocontabili e un archivista per tenere distinte le lettere dell'azienda da quelle private; nei libri contabili dei Bardi e dei Peruzzi si trovano, per anni e anni, nomi e stipendi di «fattori-scrivani» e di «fattori-chiavai» (contabili e cassieri), diretti da uno o più «fattori-segretari», i pendants dello Schwarz, nonché due notai a stipendio fisso, uno per redigere gli atti e uno per discutere le cause in giudizio. Si potrebbe continuare. Ma quanto si è detto sulle società commerciali penso che basti a dare un'altra prova che il mercante italiano, già alla testa della rinascita dell'Europa, continuò a distanziare, anche per ciò che riguarda gli istituti societari, i mercanti stranieri; e a portare un altro elemento a proposito della «crisi», documentando che quel nostro mercante non fece progressi sostanziali nella tecnica del suo lavoro dopo la metà, appunto, del Trecento.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06