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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti altomedievali

a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto

© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


I
La fine del mondo antico / 1
Il cristianesimo, le chiese, la Chiesa

1. Il cristianesimo da religione lecita a religione di Stato
(A) Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, PG 20, X, 5.
(B) Sozomene, Storia ecclesiastica, PG 67, I, 8.
(C) Codice Teodosiano, XVI, 1, 2 (27 febbraio 380).
(D) Codice Teodosiano, XVI, 10, 12 (8 novembre 392).

(A) Ma citiamo infine anche le traduzioni fatte dal latino delle costituzioni imperiali di Costantino e di Licinio: “Già da tempo, considerando che non deve essere negata la libertà di culto, ma dev’essere data all’intelletto e alla volontà di ciascuno facoltà di occuparsi delle cose divine, ciascuno secondo la propria preferenza, avevamo ordinato che anche i cristiani osservassero la fede della propria setta e del proprio culto. Ma poiché pare che furono chiaramente aggiunte molte e diverse condizioni in quel rescritto in cui tale facoltà venne accordata agli stessi, può essere capitato che alcuni di loro, poco dopo, siano stati impediti di osservare tale culto. Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, giungemmo sotto felice auspicio a Milano ed esaminammo tutto quanto riguardava il profitto e l’interesse pubblico, tra le altre cose che parvero essere per molti aspetti vantaggiose a tutti, in primo luogo e soprattutto, abbiamo stabilito di emanare editti con i quali fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità: abbiamo, cioè, deciso di dare ai cristiani e a tutti gli altri libera scelta di seguire il culto che volessero, in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità. Con un ragionamento salutare e rettissimo abbiamo perciò espresso in un decreto la nostra volontà: che non si debba assolutamente negare ad alcuno la facoltà di seguire e scegliere l’osservanza o il culto dei cristiani, e si dia a ciascuno facoltà di applicarsi a quel culto che ritenga adatto a se stesso, in modo che la Divinità possa fornirci in tutto la sua consueta sollecitudine e la sua benevolenza. Fu quindi opportuno dichiarare con un rescritto che questo era ciò che ci piaceva, affinché dopo la soppressione completa delle condizioni contenute nelle lettere precedenti da noi inviate alla tua devozione a proposito dei cristiani, fosse abolito anche ciò che sembrava troppo sfavorevole ed estraneo alla nostra clemenza, ed ognuno di coloro che avevano fatto la stessa scelta di osservare il culto dei cristiani, ora lo osservasse liberamente e semplicemente, senza essere molestato. Abbiamo stabilito di render pienamente note queste cose alla tua cura perché tu sappia che abbiamo accordato ai cristiani facoltà libera e assoluta di praticare il loro culto. E se la tua devozione intende che questo è stato da noi accordato loro in modo assoluto, deve intendere che anche agli altri che lo vogliono è stata accordata facoltà di osservare la loro religione e il loro culto – il che è chiara conseguenza della tranquillità dei nostri tempi – così che ciascuno abbia facoltà di scegliere ed osservare qualunque religione voglia. Abbiamo fatto questo perché non sembri a nessuno che qualche rito o culto sia stato da noi sminuito in qualche cosa. Stabiliamo inoltre anche questo in relazione ai cristiani: i loro luoghi, dove prima erano soliti adunarsi e a proposito dei quali era stata fissata in precedenza un’altra norma anche in lettere inviate alla tua devozione, se risultasse che qualcuno li ha comprati, dal nostro fisco o da qualcun altro, devono essere restituiti agli stessi cristiani gratuitamente e senza richieste di compenso, senza alcuna negligenza ed esitazione; e se qualcuno ha ricevuto in dono questi luoghi, li deve restituire al più presto agli stessi cristiani.

Se coloro che hanno comprato questi luoghi, o li hanno ricevuti in dono, reclamano qualcosa dalla nostra benevolenza, devono ricorrere al giudizio del prefetto locale, perché nella nostra bontà si provvedeva anche a loro. Tutte queste proprietà devono essere restituite per tua cura alla comunità dei cristiani senza alcun indugio. E poiché è noto che gli stessi cristiani non possedevano solamente i luoghi in cui erano soliti riunirsi, ma anche altri, di proprietà non dei singoli, separatamente, ma della loro comunità, cioè dei cristiani, tutte queste proprietà, in base alla legge suddetta, ordinerai che siano assolutamente restituite senza alcuna contestazione agli stessi cristiani, cioè alla loro comunità e alle singole assemblee, osservando naturalmente la disposizione suddetta, e cioè che coloro che restituiscono gli stessi luoghi senza compenso si attendano dalla nostra benevolenza, come abbiamo detto sopra, il loro indennizzo. In tutto questo dovrai avere per la suddetta comunità dei cristiani lo zelo più efficace, perché si adempia il più rapidamente possibile il nostro ordine, così che grazie alla nostra generosità si provveda anche in questo alla tranquillità comune e pubblica. In questo modo, infatti, come si è detto sopra, possa restare in perpetuo stabile la sollecitudine divina dei nostri riguardi da noi già sperimentata in molte occasioni. E perché i termini di questa nostra legge e della nostra benevolenza possano essere portati a conoscenza di tutti, è opportuno che ciò che è stato da noi scritto, pubblicato per tuo ordine, sia esposto ovunque e giunga a conoscenza di tutti, in modo che la legge dovuta a questa nostra generosità non possa sfuggire a nessuno”.

Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, PG 20, X, 5.

Testo originale


(B) Elenco delle azioni compiute da Costantino per la libertà dei cristiani e la costruzione delle chiese e delle altre opere utili allo Stato.

Costantino, rimasto solo al governo di tutto l’impero romano, ordinò con un pubblico editto agli abitanti della parte orientale di venerare la religione cristiana e di curare la divinità con zelo. Avendo esposto queste cose e molte altre con le quali riteneva di poter indirizzare i sudditi verso la religione cristiana, stabilì che non avessero più valore le decisioni che contro di essa erano state prese e tutto quanto era stato compiuto da chi perseguitava la Chiesa; ordinò che fossero liberi tutti coloro che, per aver confessato il Cristo, erano stati condannati all’esilio o mandati alle isole o altrove contro la loro volontà o messi a lavorare nelle miniere o in altro lavoro pubblico od obbligati a servire nei ginecei o nelle botteghe dei tessitori o venduti alle curie non essendo curiali. Liberò anche dall’infamia coloro che ne erano stati bollati. A coloro ai quali era stato tolto il grado militare lasciò la scelta o di essere reintegrati o di vivere liberamente esercitando un onesto mestiere. Avendo riportato tutto alla primitiva libertà ed ai rispettivi onori, restituì anche a tutti i propri averi. Se i condannati a morte erano stati spogliati dei loro beni, ordinò che la loro eredità fosse consegnata ai parenti più prossimi; se non ve ne erano alcuni, fosse erede la chiesa del luogo dove essi risiedevano; sia che fosse un privato sia che fosse lo Stato a possedere alcunché di questi beni, li restituissero. Promise che avrebbe esaminato, per quanto fosse possibile e nel modo più opportuno, di rimborsare coloro che avevano comprati tali beni dal fisco o li avevano avuti in dono. Tali cose, come ho detto, furono stabilite dall’imperatore e fissate in leggi e fatte eseguire senza alcun indugio. I cristiani occupavano quasi tutte le magistrature dell’impero romano, e fu proibito a tutti di compiere sacrifici d’ora innanzi o di trarre auspici o di essere iniziati ai misteri o di consacrare templi o di celebrare le feste pagane. Presso i Romani furono allora per la prima volta proibiti i giochi dei gladiatori. Delle chiese, le più vaste venivano ricostruite; le altre divenivano più belle essendo ampliate e rialzate; altre poi erano costruite ex novo là dove prima non ve n’erano. L’imperatore forniva il denaro traendolo dai tesori regi dopo aver scritto delle lettere ai vescovi ed ai governatori di provincia: a quelli perché ordinassero ciò che volevano, a questi perché obbedissero e si mettessero a loro disposizione. Inoltre, prelevando una determinata quota dai proventi delle tasse fondiarie di ciascuna città, la distribuì al clero e alle chiese del luogo e stabilì per legge che tale donativo restasse anche per l’avvenire. Per abituare i soldati a venerare Dio, come egli faceva, ornò le loro armi con il segno della croce e costruì nel palazzo imperiale una chiesa e ogni qualvolta essi partivano per una guerra faceva portare un tabernacolo costruito a forma di chiesa affinché, neppure quando erano isolati, né egli né l’esercito fossero privi di un luogo sacro in cui potessero lodare Dio e pregare e partecipare ai sacri misteri; infatti dei sacerdoti e diaconi seguivano quel tabernacolo e compivano, secondo i riti della Chiesa, gli uffici sacri. Da quel tempo le legioni romane, che ora vengono distinte con un numero, cominciarono a farsi costruire ciascuna un proprio tabernacolo e ad avere sacerdoti e diaconi particolari. Nel giorno detto del Signore (che gli ebrei chiamano il primo della settimana ed i pagani avevano consacrato al Sole) e nel giorno che precede il settimo, ordinò che tutti si astenessero dal frequentare i tribunali e da qualunque altra occupazione e che soltanto fosse venerata la divinità con preghiere. Onorò il giorno del Signore perché in esso il Cristo era risorto dalla morte; l’altro perché in esso era stato crocifisso. Venerò con speciale culto la croce divina sia per le vittorie che col suo aiuto aveva ottenuto nelle battaglie contro i nemici, sia per il segno di essa che divinamente gli era stato rivelato. Inoltre ordinò che fosse vietato il supplizio della croce che in precedenza era in uso presso i Romani; ogni volta che la sua immagine era incisa nelle monete o dipinta in quadri, volle che sempre quel simbolo divino fosse con lui inciso o dipinto, come testimoniano le immagini di lui che lo rappresentano in questo modo.

Sozomene, Storia ecclesiastica, PG 67, I, 8.

Testo originale


(C) Gli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio […] al popolo della città di Costantinopoli. Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che il divino apostolo Pietro ha insegnato ai Romani e che da quel tempo colà continua e che ora insegnano il pontefice Damaso e Pietro, vescovo di Alessandria, cioè che, secondo la disciplina apostolica e la dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno stolti eretici, né le loro riunioni potranno essere considerate come vere chiese; essi incorreranno nei castighi divini ed anche in quelle punizioni che noi riterremo di infliggere loro.

Codice Teodosiano, XVI, 1, 2 (27 febbraio 380).

Testo originale


(D) Gli imperatori Teodosio, Arcadio ed Onorio al prefetto Rufino.

Nessuno, di qualunque condizione o grado (che sia investito di un potere o occupi una carica, che sia autorevole per nascita o sia di umili origini), in nessun luogo, in nessuna città, offra vittime innocenti a vani simulacri; e neppure in segreto, accendendo lumini, spandendo incenso, appendendo corone, veneri i lari con il fuoco, il genio con il vino, i penati con gli aromi. Se qualcuno oserà immolare una vittima in sacrificio e consultarne le viscere, come per il delitto di lesa maestà potrà essere denunciato da chiunque e dovrà scontare la debita pena, anche se non avesse cercato auspici né contro il benessere né sul benessere dell’imperatore. Costituisce infatti di per sé già un crimine il volere cassare le leggi imperiali, indagare ciò che è illecito, volere conoscere ciò che è nascosto, osare ciò che è vietato, interrogarsi sulla fine del benessere di un altro, sperare e cercare un presagio della sua morte. Se qualcuno venererà con l’incenso simulacri fatti dall’uomo e destinati a distruggersi con il tempo; o se, con ridicolo timore verso le sue stesse rappresentazioni, cercherà di onorare varie immagini cingendo un albero di nastri o innalzando un altare con zolle erbose (una totale offesa alla religione, pur se con la scusante di una offerta meno impegnativa), come reo di lesa religione perderà la casa o il possesso dove si sia reso schiavo della superstizione pagana. Stabiliamo infatti che tutti i luoghi dove si siano levati fumi di incenso – purché si dimostri che appartengano a chi ha usato l’incenso – siano incamerati nel nostro fisco. Se qualcuno cercherà di sacrificare con l’incenso in templi pubblici, o in case o campi altrui, qualora l’abuso avvenga all’insaputa del padrone dovrà pagare 25 libbre d’oro, e la stessa pena colpirà i conniventi. Vogliamo che questo editto sia osservato dai giudici e dai magistrati, nonché dai funzionari di ogni città, in modo che i casi accennati da questi ultimi siano immediatamente tradotti in giudizio e, una volta tradotti in giudizio, siano subito puniti dai giudici. Se i funzionari, per indulgenza o incuria, penseranno di poter coprire o tralasciare qualcosa, dovranno sottostare ad un procedimento giudiziario; quanto ai giudici, se procrastineranno l’esecuzione della sentenza saranno multati di 30 libbre d’oro, e la loro carica sarà sottoposta alla stessa multa.

Codice Teodosiano, XVI, 10, 12 (8 novembre 392).

Testo originale

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Ultimo aggiornamento: 01/09/05