Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”
5. Il monechesimo in Occidente (A) Sulpicio Severo, Vita
di Martino, FV, 9-10, 13. (B) Benedetto da Norcia,
Regola, FV, 48. (C) Gregorio di Tours, Storia
dei Franchi, FV, VIII, 15. (A) Pressappoco nella medesima
epoca, [Martino] era richiesto come vescovo di Tours; ma poiché
non poteva essere facilmente strappato dal suo eremo, un tal Rusticio,
cittadino appunto di Tours, dando ad intendere una malattia di sua moglie,
gettandosi alle sue ginocchia, riuscì a farlo uscire. Così,
predisposte turbe di cittadini lungo il cammino, fu per così
dire condotto sotto scorta fino alla città. In mirabile modo
un’incredibile moltitudine non solo da quel borgo ma anche dalle
città vicine s’era radunata per recare i suoi suffragi.
[…] Ed ora, di qual condotta e valore; sia mostrato dopo aver
assunto l’episcopato, non è nelle nostre facoltà
esporre compiutamente. Perseverava infatti con assoluta fermezza ad
esser l’uomo che s’era mostrato in precedenza. La medesima
umiltà nel suo cuore, la medesima povertà nel suo abito;
e così, pieno d’autorità e di grazia, compiva il
suo ufficio episcopale, tuttavia in modo da non tralasciare la condotta
e le virtù monastiche. Per alquanto tempo abitò dunque
in una piccola cella addossata alla chiesa, poi, non potendo sopportare
la fastidiosa inquietudine per tutti coloro che gli facevano visita,
si stabilì in una cella d’eremita a circa due miglia fuori
della città. […]
Così un altro giorno, avendo demolito un antichissimo tempio
in un villaggio, e intrapreso ad abbattere un pino che si ergeva vicinissimo
al santuario, il sacerdote di quel luogo e tutta la turba dei pagani
cominciarono a opporglisi. Ed essendo i medesimi rimasti quieti per
volontà di Dio mentre il tempio veniva demolito, non tolleravano
che l’albero fosse tagliato. Egli s’adoprava per far loro
osservare che non v’era nulla di sacro in un ceppo; seguissero
piuttosto il Dio, che egli stesso serviva; bisognava abbattere quell’albero,
poiché era consacrato a un demonio. Allora uno di quelli, ch’era
più ardito degli altri, disse: “Se tu hai qualche fiducia
in quel Dio, che dici di venerare, noi stessi abbatteremo questo albero,
ricevilo su di te nella sua caduta: e se il tuo Dio è con te,
come asserisci, ti salverai”. Allora egli, intrepidamente confidando
in Dio, s’impegnò a farlo. Al momento tutta quella turba
di pagani consentì a siffatta condizione, e facilmente si rassegnarono
alla perdita del loro albero, se con la caduta di esso avessero potuto
schiacciare il nemico delle loro cerimonie sacre. E così, essendo
quel pino inclinato da una parte in modo che non vera alcun dubbio sulla
parte dove, tagliato, si sarebbe abbattuto, egli fu posto, eretto e
legato, secondo la volontà di quei rustici, nel luogo in cui
nessuno dubitava che l’albero sarebbe caduto. E dunque essi stessi
presero a tagliare il loro pino con grande allegria e letizia. Assisteva
discosta una folla di spettatori attoniti. E già il pino oscillava
e sul punto di cadere minacciava il suo crollo. Impallidivano in disparte
i monaci, e atterriti dal pericolo ormai prossimo, avevano perduto ogni
speranza e fiducia, aspettando solo la morte di Martino. Ma, confidando
in Dio, in intrepida attesa, quando già il pino abbattendosi
emetteva un fragore, egli, levata la mano contro quello che cadeva e
rovinava su di lui, oppose il segno della salvezza. Ma allora l’avresti
creduto spinto all’indietro da una sorta d’uragano –,
il pino crollò dalla parte opposta, così che quasi schiacciò
i contadini, che erano stati lì come in luogo sicuro. Quindi,
levato un clamore al cielo, i pagani stupirono al miracolo, i monaci
piansero di gioia, tutti all’unisono glorificarono Cristo: fu
ben chiaro che in quel giorno era venuta la salvezza per quelle contrade.
Infatti non vi fu quasi nessuno in quella enorme moltitudine di pagani,
che non reclamò l’imposizione delle mani, e, abbandonato
l’empio errore, non credette nel Signore Gesù. Invero prima
di Martino pochissimi, anzi quasi nessuno in quei paesi aveva ricevuto
il Cristo. E grazie ai suoi miracoli e al suo esempio il nome di Cristo
diventò così forte che là non si trova più
alcun luogo che non sia pieno di chiese e di eremi in grandissimo numero.
Infatti dove egli aveva distrutto templi pagani, subito nello stesso
luogo costruiva chiese e romitaggi.
Sulpicio Severo, Vita di Martino, FV, 9-10, 13. Testo originale (B) L’ozio è nemico
dell’anima, e perciò i fratelli in certe ore devono essere
occupati nel lavoro manuale, in altre ore nella lettura divina. Di conseguenza
riteniamo che entrambe le occupazioni siano ripartite nel tempo con
il seguente ordinamento: da Pasqua fino alle calende di ottobre, uscendo
al mattino facciano i lavori necessari dalla prima fin quasi all’ora
quarta. Poi, dall’ora quarta fino all’ora in cui faranno
la sesta, attendano alla lettura. Dopo la sesta, alzandosi da tavola
si riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vorrà
leggere per conto suo, legga in modo da non disturbare nessuno. Si faccia
nona un poco in anticipo, verso la metà dell’ora ottava,
e di nuovo lavorino a quello che c’è da fare sino al vespro.
Se le esigenze del luogo o la povertà richiedono che essi si
occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano,
giacché allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle
proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli. Tutto però
sia fatto con misura, avendo riguardo per i deboli. Invece dalle calende
di ottobre all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino
a tutta l’ora seconda. Dopo l’ora seconda si faccia terza
e fino a nona tutti eseguano il lavoro ché viene loro assegnato.
Dato poi il primo segnale dell’ora nona, ciascuno si stacchi dal
proprio lavoro e stia pronto finché suonerà il secondo
segnale. Dopo il pasto attendano alle proprie letture o ai salmi. Nei
giorni di quaresima, dal mattino sino a tutta l’ora terza attendano
alle proprie letture e sino a tutta l’ora decima eseguano il lavoro
che è loro assegnato. In questi giorni di quaresima tutti ricevano
dalla biblioteca un libro a testa e lo leggano ordinatamente per intero.
Questi libri devono essere dati all’inizio della Quaresima.
Benedetto da Norcia, Regola, FV, 48. Testo originale
(C) “Poi mi diressi nella
regione della città di Treviri, e con i miei sforzi costruii
su questo monte, dove adesso siamo, il rifugio che tu vedi. Tuttavia
rinvenni qui un simulacro di Diana, che questo popolo senza fede venerava
come una divinità. Eressi allora una colonna, e su questa io
mi tenevo con grande sofferenza, senza alcuna copertura per i piedi.
Poi, giunto puntuale l’inverno, ero tanto assiderato dal freddo
glaciale che spesso le unghie dei piedi si spaccavano per il gelo e
sulla barba si rapprendeva l’acqua mista a ghiaccio come fosse
una candela.
Si dice, infatti, che spesso quella regione attraversa inverni simili”.
Quando gli chiesi cosa usasse come cibo o bevanda e come avesse atterrato
gli idoli che si trovavano sul monte, Vulfilaico narrò: “Bevanda
e cibo erano per me un po’ di pane, un poca d’insalata e
un po’ d’acqua. E quando cominciò a presentarsi da
me la folla della località vicine, predicavo senza sosta che
Diana era niente, che niente valevano gli idoli e niente contava il
culto che sembrava loro professassero. Erano cose indegne quelle che
declamavano in canti, fra libagioni e lussurie; e piuttosto sarebbe
stato giusto offrire un sacrificio in lode a Dio onnipotente, che ha
fatto il cielo e la terra. Spesso pregavo, anche, che il Signore si
degnasse d’allontanare quella gente dall’errore, ora che
l’idolo era stato demolito. Alla fine la misericordia di Dio piegò
la loro indole rozza, perché prestassero ascolto alle parole
della mia bocca e così, abbandonati gli idoli, potessero seguire
il Signore. Chiamati allora alcuni di quelli, riuscii con il loro aiuto
ad abbattere l’idolo gigantesco che con la mia sola capacità
non ero riuscito a svellere; poi io stesso infransi le altre statuette
senza fatica, e questa fu la parte più facile del compito. Giunti,
dunque, in molti presso la statua di Diana, attaccate le funi, cominciarono
a tirare; ma lo sforzo non approdava a nulla. Allora mi dirigo nella
basilica e, prostrato al suolo, chiedevo in lacrime l’assistenza
di Dio, affinché la potenza divina volesse abbattere quello che
la fatica umana non riusciva neppure a smuovere. Uscii dopo questa preghiera
e mi diressi accanto agli operai e afferrai anch’io un’estremità
di fune: appena cominciammo a tirare un primo strattone, subito l’idolo
cadde in terra e poi, frantumandolo con martelli di ferro, lo riducemmo
in polvere. […] quando giunsero i vescovi che mi dovevano ancor
più rafforzare a proseguire l’opera già intrapresa,
mi dissero: “La via che tu segui non è giusta, e tu, che
sei d’origine oscura, non puoi confrontarti con Simeone d’Antiochia
che vive su di una colonna”. D’altra parte il clima del
luogo non ti permette di sostenere ancora questa prova. Discendi, allora,
ed abita con i fratelli che tu stesso hai riunito al tuo seguito”.
Alle parole di quelli, poiché non prestare ubbidienza alla richiesta
d’un vescovo è considerata una colpa, scendevo, io dico,
e andavo con loro ed insieme prendevamo il cibo. Un giorno, poi, mentre
un vescovo mi aveva convocato in una località molto lontana,
furono inviati alcuni operai con leve, martelli e asce e atterrarono
la colonna sulla quale ero solito stare. Quando, successivamente, giunsi,
trovai tutto sconvolto. Allora piansi di cuore, ma non volli erigere
quello che avevano abbattuto, perché non fossi accusato d’oppormi
alle volontà dei vescovi; e per questo, fui contento d’abitare
con i miei fratelli, come ora abito”.
Gregorio di Tours, Storia dei Franchi, FV, VIII,
15. Testo originale
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