Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”
1. Adrianopoli e lo sfondamento del Reno (A) Ammiano Marcellino,
Storie, XXXI, 12-13. (B) Gerolamo, Lettere,
6, 123. (A) All’aurora del nove
agosto l’armata si mise in marcia lasciando, sufficientemente
protetti, i bagagli e i carriaggi sotto le mura di Adrianopoli. Il prefetto
e i membri civili del concistoro rimasero invece all’interno della
città, con il tesoro e le insegne imperiali.
Si procedeva su un terreno accidentato, sotto un cielo torrido. Finalmente
verso le due del pomeriggio, poiché gli esploratori riferivano
d’aver visto i carri nemici sistemati in cerchio, i generali romani
fecero assumere lo schieramento di battaglia: l’ala destra della
cavalleria in prima linea, sostenuta dalla quasi totalità della
fanteria, mentre l’ala sinistra, in ritardo e disseminata lungo
il difficile percorso, affrettava l’andatura. Stava poi prendendo
posizione senza il minimo impedimento quando i barbari, atterriti dall’orrendo
fragore delle armi e degli scudi (e anche perché le bande di
Alateo e di Safrace che operavano lontane, sebbene richiamate, non s’erano
ancora fatte vedere), inviarono un’ambasceria a chiedere pace.
Ma la componevano personaggi di nessuna importanza che l’imperatore
rifiutò di ricevere pretendendo, per trattare, negoziatori che
offrissero qualche garanzia. Si trattava di un diversivo dei barbari
in attesa dell’arrivo, ritenuto imminente, della loro cavalleria.
I nostri intanto, sotto quel calore reso ancor più insopportabile
dalle sterpaglie che il nemico a bella posta andava incendiando nella
torrida vastità della pianura, erano divorati dalla sete a cui
s’aggiungeva, tormentando bestie e uomini, la mancanza d’ogni
rifornimento. […] Gli arcieri e gli scutari comandati
dall’ibero Baccario e da Cassione s’erano già lasciati
troppo andare in una prima scaramuccia; e la loro ritirata, precipitosa
quanto quell’attacco era stato inopportuno, contrassegnava malamente
l’avvio della battaglia rendendo altresì inutile lo zelo
di Ricimero, impossibilitato a raggiungere le postazioni dell’avversario:
questo proprio nel momento in cui la cavalleria gota, con Alateo e Safrace
e un rinforzo di Alani, arrivava come la folgore dalle sommità
dei monti, caricando quanto le veniva fatto d’incontrare nel suo
sopraggiungere.
Nulla dall’una e dall’altra parte ormai se non un clangore
di scudi sul sibilo delle frecce. Bellona stessa faceva lugubremente
risuonare le curve trombe di guerra perseguendo con ancor più
accanimento del solito la rovina delle armi romane.
Un primo nostro cedere s’arrestò sulle proteste di molti.
Il combattimento, in un divampare d’incendio, atterriva i soldati,
tra i quali l’incurvato piovere di frecce e di giavellotti aveva
già aperto parecchi varchi. E i due opposti schieramenti, avvinghiati
come da arpioni di navi, s’agitavano senza posa in un reciproco
moto d’onda.
La nostra ala sinistra era andata ai carri; a sostenerla, sarebbe andata
oltre; invece, abbandonata dal resto della cavalleria, rovinò
sotto la caterva nemica come per la frana di un qualche enorme terrapieno.
Ma, sebbene senza protezione, i fanti resistettero, talmente stretti
nei loro manipoli da avere appena spazio per manovrare la spada.
Il cielo, ridotto a un luogo d’orrendi clamori, era nascosto da
spesse cortine di polvere per cui i dardi, lanciati da ogni parte, piombavano
sempre mortali, la loro traiettoria non essendo né visibile né
evitabile. Poiché i barbari dilagavano in schiere senza numero
pestando indistintamente uomini e cavalli, poiché ormai non c’era
spazio per una ordinata ritirata, poiché l’assembramento
era tale da impedire persino la fuga dei singoli, i nostri, in un supremo
disprezzo della morte, si buttarono con le spade su quanto gli veniva
a tiro, mentre scudi e corazze cadevano in pezzi sotto le scuri dei
combattenti […]
In questa tumultuante confusione la fanteria spossata e sfiduciata,
venendole sempre più a mancare, con la chiarezza necessaria a
una decisione, le forze d’attuarla e vedendosi preclusa ogni possibilità
di scampo, poiché nel susseguirsi degli scontri aveva perso quasi
tutte le lance, adesso si precipitava, con le spade almeno, nel più
fitto dei nemici incurante di quanto poteva essere salvezza. E, scivolando
su quel terreno reso insidioso da ruscelli di sangue, talvolta gli uomini,
nell’intento fortissimo di non morire invendicati, perivano per
le loro stesse armi.
Su quel tetro teatro di strage, sui mucchi sempre più alti dei
feriti, sui cadaveri esanimi e calpestati senza riguardo, il sole, che
dal segno del Leone stava passando in quello della Vergine, splendeva
alto, ancor più implacabile per i Romani fiaccati dalla fame,
dalla sete, dal peso delle armature. Infine, su una stretta che da parte
nemica non veniva meno, ai nostri non rimase che il rimedio d’ogni
sciagura quand’è estrema: la fuga così come a ciascuno
si presentava possibile.
Nel cieco disperdersi dell’armata, Valente, sconvolto da cupi
terrori e scavalcando uno dopo l’altro quei mucchi di cadaveri,
raggiunse i lancieri e i mazzieri che continuavano a tener duro senza
cedere d’un passo. Alla sua vista, Traiano grida che tutto era
perduto se l’imperatore, abbandonato dalle truppe romane, non
trovava protezione almeno tra gli ausiliari. Vittore, a quelle grida,
si precipitò a raccogliere i Batavi che erano stati piazzati
di riserva non lontano, proprio per proteggere l’imperatore; non
trovò nessuno; allora, come Ricimero, come Saturnino, si preoccupò
unicamente di sé e di salvarsi fuggendo.
I barbari, l’occhio fosco di furore, si davano intanto ad assalire
i nostri ormai prostrati per l’improvviso indebolimento del sangue:
gli unì cadevano senza nemmeno sapere da dove arrivasse il colpo,
gli altri rovesciati dalla sola furia degli assalitori, qualcuno trafitto
dai suoi stessi commilitoni. Non c’era tregua per chi resisteva,
non misericordia per chi avesse voluto arrendersi. Ogni pista, ogni
sentiero spariva sotto un groviglio di moribondi che si contorceva negli
spasimi delle ferite. Le masse dei cavalli abbattuti s’aggiunsero
a quel carnaio. Una notte senza luna pose fine a un disastro le cui
conseguenze pesarono a lungo sui destini dello Stato.
Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 12-13. Testo originale (B) Non indugerò sulle
calamità del momento. Essere nell’esiguo numero dei superstiti
non è merito nostro, bensì misericordia del Signore.
Popoli ferocissimi e innumerevoli occuparono ogni angolo della Gallia.
I Quadi, i Vandali, i Sarmati, gli Alani, i Gepidi, gli Eruli, i Sassoni,
i Burgundi, gli Alemanni, i nemici di Pannonia possiedono quanto si
trova fra le Alpi e i Pirenei, fra il Reno e l’Oceano, tutto devastando
in un impero su cui non resta che piangere. “Poiché Assur
è venuto con loro”. La nobilissima Magonza è stata
messa a ferro e a fuoco; nell’interno della sua chiesa la gente
venne scannata a migliaia. La splendida città dei Remi, gli Ambiani,
gli Atrebati, quei più lontani Morini, gli abitanti di Tournay,
di Nimes, di Strasburgo vennero trascinati in Germania. L’Aquitania
e i nove popoli della provincia di Lione e di Narbona non sono, eccettuate
poche città, che una sola devastazione dove si perisce all’esterno
di spada, all’interno di fame. Non posso ricordare senza lacrime
il destino di Tolosa a cui finora era stata risparmiata la rovina per
i meriti del suo santo vescovo Esuperio. Le stesse Spagne, in procinto
d’andare perdute, tremano ogni giorno al solo ricordo dell’invasione
dei Cimbri […].
Taccio il resto perché non si abbia a credere che disperi della
clemenza di Dio. Quanto va dal Ponto alle Alpi Giulie, ora sotto il
dominio dell’impero, un tempo non era nostro; ma, rotto il confine
del Danubio, si è combattuto per trent’anni nel cuore dell’impero
romano. La lunga prova ha inaridito le nostre lacrime. Tolti pochi vecchi,
tutti gli altri sono nati nella servitù e nella costrizione,
senza nemmeno poter desiderare una libertà che non hanno conosciuto.
Chi potrebbe crederlo? Quali storie potranno tramandare attendibile
il fatto di una Roma costretta a combattere nel suo interno non per
la gloria, ma per la salvezza? Anzi nemmeno combattere, se deve comprare
con l’oro e con le suppellettili il diritto di sopravvivere. E
questo è accaduto non per colpa degli imperatori che sono religiosissimi,
ma per la scellerataggine di un mezzo barbaro traditore il quale con
le nostre risorse ha armato il nemico contro di noi […]
Ora nella più favorevole delle ipotesi, noi non riprenderemmo
ai nemici, vincendoli, se non quanto ci hanno rapinato. Il poeta, esaltandosi
nel descrivere la potenza di Roma, cantò: “Se Roma è
poco, che cosa vi sarà di bastante?”. Sentenza che noi
siamo costretti a sostituire con quest’altra: se Roma perisce,
che altro mai si salverà? Gerolamo, Lettere, 6, 123. Testo originale
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