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Fonti

Antologia delle fonti altomedievali

a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto

© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


III
La riconquista dell’Italia

3. La restaurazione romano-bizantina
(A) Procopio, La guerra gotica, IV, 31-32.
(B) Prammatica Sanzione, 1, 2, 11.

(A) Allora si fece avanti Totila, da solo, nello spazio tra i due schieramenti, non per sfidare qualcuno a duello, ma anzi per impedire agli avversari di usare tale tattica: egli sapeva infatti che stavano per giungere i duemila cavalieri goti che ancora mancavano, e voleva ritardare la battaglia fino al loro arrivo con questo espediente. Intanto non gli dispiaceva far mostra di se stesso ai nemici nel proprio abbigliamento. Indossava una corazza abbondantemente ricoperta d’oro, e dalle piastre della corazza, dal copricapo e dalla lancia pendevano fiocchi di porpora e fregi di ogni altro genere, degni di un re e veramente meravigliosi.

Egli dunque, montando su un imponente cavallo, si diede a caracollare con destrezza nello spazio fra i due eserciti in una specie di danza armata: fece galoppare il cavallo in un girotondo, poi in senso contrario, e continuò a farlo volteggiare così in cerchio. Mentre cavalcava, gettava per aria il giavellotto e l’afferrava a volo, ancora vibrante, e lo palleggiava abilmente dall’una all’altra mano, con mille evoluzioni. Nell’eseguire questi esercizi, si pavoneggiava, piegandosi all’indietro con le spalle, dondolandosi sulle anche, inchinandosi a destra e a sinistra, come uno che fosse stato accuratamente educato fin da bambino all’arte della danza. […] In quel frattempo giunsero i duemila Goti, e appena Totila fu sicuro del loro arrivo all’accampamento, siccome era ormai l’ora del pasto di mezzogiorno, si ritirò nella propria tenda e permise ai Goti di rompere le file e di tornare negli alloggiamenti.

Quando fu giunto al suo quartiere generale, Totila trovò i duemila già sul posto. Allora ordinò anche a loro di consumare il rancio, mentre egli cambiava tutto il proprio equipaggiamento e indossava un’armatura esattamente uguale a quella di un soldato qualunque.

Poi, subito dopo, guidava di nuovo l’esercito contro i nemici, sperando di capitare su di loro inaspettato e di coglierli di sorpresa.

Ma non trovò affatto i Romani impreparati. Narsete, temendo appunto ciò che difatti avvenne, per evitare che i nemici arrivassero addosso all’improvviso, aveva dato ordine che nessun soldato, assolutamente, si mettesse a sedere per mangiare il rancio o si sdraiasse per riposare o anche solo si togliesse la corazza o allentasse le briglie del proprio cavallo. Non che egli li facesse rimanere completamente digiuni: diede loro il permesso di consumare un po’ di cibo, pur restando nei ranghi con l’armatura indosso, in modo da essere sempre all’erta, con un occhio attento alle mosse dei nemici.

Ad ogni modo i due eserciti non furono più schierati come prima, ma le ali dei Romani, in ciascuna delle quali prendevano posto quattromila arcieri appiedati, erano state spostate per ordine di Narsete in modo da formare un semicerchio, mentre tutti i fanti goti stavano raccolti in un solo blocco, alle spalle della cavalleria, affinché, nel caso che si fosse verificata una rotta tra i cavalieri, potessero salvarsi ritraendosi in mezzo a loro, per poi di nuovo avanzare subito tutti insieme.

Oltre a ciò, ai Goti era stato dato ordine di non servirsi né degli archi né di alcun’altra arma durante la battaglia, ma solamente delle lance.

Perciò accadde che Totila si trovò a subire un tremendo rovescio per colpa della propria sconsideratezza, perché, entrando in combattimento, non so per quale consiglio, egli commise l’errore di usare un esercito non adeguato nell’armamento e nella formazione, a quello dei nemici, né pari ad esso per qualunque altro rispetto. I Romani infatti potevano servirsi nello scontro di tutte le specie di armi, secondo le particolari necessità del momento: o lanciando frecce con gli archi, o scagliando giavellotti, o sguainando le spade, o ricorrendo a qualunque tipo di arma che avessero a portata di mano e che fosse opportuna in quel frangente. Alcuni continuarono a rimanere a cavallo, altri entrarono nella mischia anche a piedi, in numero adatto alla situazione, cosicché, mentre gli unì potevano effettuare l’accerchiamento dei nemici, gli altri facevano fronte agli attacchi e ne rintuzzavano l’urto con gli scudi.

I cavalieri dei Goti, dal canto loro, poiché avevano i fanti dietro le spalle, dovevano confidare unicamente nelle proprie lance, e si gettarono all’assalto alla cieca; ma una volta entrati nella mischia, pagarono le conseguenza della loro avventatezza. Infatti, siccome fecero irruzione al centro dello schieramento avversario, vennero a trovarsi chiusi in mezzo agli ottomila fanti nemici. Presi di mira da una parte e dall’altra dagli arcieri, dovettero tosto retrocedere, perché gli arcieri romani cominciarono gradatamente a stringere ambedue le estremità del loro fronte, in modo da serrare il semicerchio di cui ho parlato sopra.

Di conseguenza i Goti perdettero in quell’azione molti uomini e molti cavalli, prima ancora di essere venuti a contatto diretto con gli avversari, e solo dopo aver subito gravissime perdite riuscirono con grande stento a raggiungere ì ranghi dei nemici. […] Era ormai quasi sera, quando improvvisamente i due schieramenti cominciarono a spostarsi: i Goti per battere in ritirata, i Romani per lanciarsi al loro inseguimento. I primi, infatti, non avevano saputo resistere. al contrattacco degli avversari e avevano cominciato a perdere terreno di fronte alla loro avanzata; infine si erano volti in fuga, spaventati dal grande numero e dal perfetto ordine dei nostri soldati. Né mostrarono alcuna intenzione di difendersi, colti dal terrore come se fossero apparsi loro dei fantasmi o fossero assaliti dal cielo.

Ma appena, poco dopo, essi giunsero tra i propri fanti, la situazione si fece ancora più grave, divenne catastrofica. Essi infatti non si ritrassero in mezzo ai commilitoni ordinatamente, allo scopo di riprender fiato e tornare quindi a combattere insieme con loro, come si fa di solito, per fermare in massa compatta l’avanzata degli inseguitori, o per assalirli a loro volta, prendendo l’iniziativa, o tentare qualsiasi altra manovra bellica; si riversarono invece così scompostamente e disordinatamente, che accadde persino ad alcuni fanti di perire travolti dall’urto dei cavalli. Quindi i soldati di fanteria non poterono nemmeno scostarsi per far posto tra le proprie file, né fermarsi onde permettere ai cavalieri di porsi in salvo, al riparo; ma si diedero essi pure ad una fuga precipitosa, travolgendosi gli unì con gli altri, come se fosse stata una battaglia notturna.

I soldati romani, approfittando del loro panico, continuarono a massacrare senza pietà tutti quelli che capitavano loro davanti, i quali non cercavano nemmeno di difendersi, anzi non ardivano guardare in faccia i nemici, ma quasi si offrivano loro perché facessero ciò che volevano: a tal punto si era impadronita di loro la paura e li dominava lo sgomento.

Ne perirono seimila in quell’azione; molti si arresero al nemico. […]

La battaglia ebbe dunque questa conclusione, quando ormai erano calate completamente le tenebre.

Lo stesso Totila fuggì nel buio della notte, scortato da non più di cinque uomini, tra cui si trovava anche Scipuar; e venne inseguito da alcuni Romani, i quali però non sapevano che si trattava di Totila. Con costoro c’era anche il gepido Asbado, il quale, venuto a trovarsi a pochi passi da Totila, gli si accostò per colpirlo alle spalle con la lancia.

Allora uno dei Goti, un giovinetto che faceva parte della servitù di Totila e accompagnava nella fuga il proprio padrone, fuori di sé per ciò che stava succedendo, gridò ad alta voce: “Che fai, cane? Hai forse intenzione di colpire il tuo signore?”.

Asbado piantò ugualmente la lancia, con tutte le sue forze, nel corpo di Totila, ma intanto venne anch’egli trafitto a un piede da Scipuar, e dovette fermarsi. Lo stesso Scipuar, a sua volta, fu ferito da uno degli inseguitori, perché anche gli altri, che stavano effettuando l’inseguimento insieme ad Asbado, ed erano appena in quattro, si erano fermati per proteggerlo e infine, anzi, desistettero dall’inseguimento e tornarono indietro con lui.

Tuttavia coloro che accompagnavano Totila, convinti di avere ancora i nemici alle calcagna, continuarono a cavalcare senza posa, trascinandolo con sé quasi a forza, sebbene debolissimo per la ferita mortale, perché si ritenevano costretti a quella fuga folle. Dopo aver percorso ottantaquattro stadi, giunsero in una località di nome Capre, e lì si fermarono per curare la ferita di Totila. Questi però, non molto dopo giunse al termine della propria vita. I suoi compagni lo seppellirono sul luogo, poi ripartirono.

Tale fu la conclusione del regno e della vita di Totila, che aveva governato i Goti per undici anni.

Procopio, La guerra gotica, IV, 31-32.

Testo originale


(B) 1. Che rimangano valide tutte quelle cose che avevano concesso Amalasunta, Atalarico e Teodato. Dietro richiesta del venerabile Vigilio vescovo della Roma più antica, abbiamo ritenuto fossero da stabilire alcune cose che riguardavano l’utilità di tutti quelli che abitano le parti occidentali [dell’impero]. Prima di tutto stabiliamo e ordiniamo che tutto ciò che concessero Atalarico, o Amalasunta madre del re, o anche Teodato ai Romani o al Senato che lo richiedeva siano mantenute inviolabili. Ma anche quelle cose che sono state concesse da noi o dalla augusta Teodora di pia memoria, un tempo nostra moglie, vogliamo che siano conservate intatte, senza che ad alcuno sia data licenza di andare contro di esse […].

2. Che le donazioni fatte da Totila siano tutte annullate. Se si trova qualcosa che è stato fatto o donato dal tiranno Totila ad un Romano o a chiunque altro, non concediamo assolutamente che sia conservato e che rimango saldo, ma stabiliamo che i beni, tolti a tali possessori siano restituiti agli antichi padroni. Ciò infatti che si trova fatto da quello al tempo della sua tirannide, non concediamo abbia valore nei tempi del nostro legittimo governo.


11. Che le leggi degli imperatori si spandano su tutte le province dell’impero. Il diritto e le leggi inoltre inseriti nei nostri codici, che subito abbiamo trasmesso in Italia con un editto, stabiliamo che abbiano un valore. Ma anche quelle costituzioni che abbiamo promulgato successivamente ordiniamo che siano divulgate mediante un editto, e che da quel momento nel quale saranno state rese note abbiano valore anche in Italia, affinché, essendo stato con il volere di Dio riunito l’impero, anche l’autorità delle nostre leggi si spanda ovunque.

Prammatica Sanzione, 1, 2, 11.

Testo originale

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05