Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”
5. La corruzione del Papato
(A) Liutprando, Antapodosis,
II, 47, 48, III, 44-46.
(A) In quel tempo Giovanni
X di Ravenna teneva il sommo pontificato della veneranda sede romana.
Questi però aveva ottenuto in questo modo il vertice della gerarchia,
con un delitto tanto nefando e contro il giusto e il lecito.
Teodora, impudente puttana, nonna dell’Alberico che da poco è
passato in vita [1],
teneva con energia virile (cosa che anche a dirsi è turpissima)
la monarchia della città di Roma. Ella ebbe due figlie, Marozia
e Teodora, non solo a lei pari, ma anche più pronte all’esercizio
di Venere. Di queste, Marozia generò con nefando adulterio con
papa Sergio III, di cui facemmo sopra menzione, Giovanni XI, che, dopo
la morte di Giovanni X di Ravenna, occupò la dignità della
Chiesa romana [2];
da Alberico [di Spoleto] invece il marchese Alberico II, che in seguito
ai nostri tempi usurpò il principato della medesima città
di Roma [3]. Nello
stesso tempo Pietro reggeva il pontificato della sede ravennate [4],
che è ritenuto il secondo arcivescovado, dopo il primato sacerdotale
romano. Poiché questi inviava assai spesso a Roma dal signore
apostolico il già nominato Giovanni, che allora era ministro
della sua Chiesa, per il dovere della debita sottomissione, Teodora
meretrice svergognata, come ho attestato, accesa dal calore di Venere,
arse violentemente per la bellezza del suo aspetto, e non solo volle,
ma anche spinse più volte costui a fornicare con lei. Mentre
tali cose avvengono con impudenza, muore il vescovo della Chiesa bolognese
e questo Giovanni è eletto al suo posto. Poco dopo morì
l’arcivescovo di Ravenna nominato, prima del giorno della consacrazione
di quello, e Giovanni ne usurpò il suo posto per istigazione
di Teodora, abbandonando, gonfio di ambizione, la precedente Chiesa
bolognese, contro le istituzioni dei santi padri. Infatti giungendo
a Roma viene subito ordinato vescovo della Chiesa ravennate. Dopo un
breve intervallo di tempo, per chiamata di Dio, anche quel papa, che
lo aveva ingiustamente ordinato, morì [5].
La mente perversa di Teodora[…], per non aver a godere troppo
di rado degli amplessi del suo amante, per le duecento miglia che separano
Ravenna da Roma, costrinse quasi ad abbandonare l’arcivescovo
di Ravenna e ad usurpare (oh! infamia!) il sommo pontificato romano.
Marozia, puttana molto sfacciata, dopo la morte di suo marito Guido,
invia a re Ugo i suoi messaggeri e lo invita ad andare da lei e ad assumere
per sé Roma, nobilissima città. Attestava che ciò
non poteva farsi altrimenti, a meno che re Ugo se la prendesse in sposa.
[…]
All’entrata della città di Roma vi è una fortezza [6] costruita
con opera meravigliosa e di straordinaria robustezza, davanti alla cui
porta c’è un ponte preziosissimo fabbricato sul Tevere,
che è percorso da chi entra e da chi esce da Roma: non vi è
altra via di passaggio, se non attraverso quello. Tuttavia ciò
non si può fare se non col consenso di chi custodisce la fortezza.
La fortezza stessa poi, per tralasciare il resto, è di altezza
tale che, la chiesa che appare sulla sua cima, edificata in onore dell’arcangelo
Michele, sommo principe della milizia celeste, vien detta “Chiesa
di Sant’Angelo fino ai cieli”. Il re, per fiducia nella
fortezza, lasciò lontano l’esercito, e con pochi giunse
a Roma [7]. Ricevuto
decorosamente dai Romani, si recò, nella predetta fortezza, al
talamo della meretrice Marozia. Dopo aver goduto di quell’incestuosa
unione con lei, come fosse ormai sicuro, cominciò a disprezzare
i Romani. Marozia aveva avuto un figlio di nome Alberico che aveva generato
da Alberico marchese [di Spoleto]. Questi, mentre versava l’acqua
a re Ugo, suo patrigno, per invito della madre, perché si lavasse
le mani, da quello fu schiaffeggiato per punizione, perché versava
l’acqua senza misura e decoro. Egli, per potersi vendicare dell’ingiuria
infertagli, radunati in un luogo i Romani, si rivolse loro con un discorso
di tale genere: “La dignità di Roma è ridotta a
così grande stoltezza, da obbedire anche agli ordini delle meretrici.
Che cosa v’è di più turpe o più vergognoso
del fatto che la città di Roma vada alla malora per l’incesto
di una donna, e che gli schiavi di un tempo dei Romani, cioè
i Borgognoni, comandino ai Romani? […]”. Senza indugio,
udite queste cose tutti abbandonano re Ugo e si scelgono come signore
lo stesso Alberico; inoltre, perché re Ugo non avesse neppure
il tempo di introdurre i suoi soldati, rapidamente iniziano ad assediare
la fortezza.
È chiaro che questa fu decisione della divina grazia, che re
Ugo non potesse in ogni modo mantenere ciò che tanto vergognosamente
aveva acquistato col delitto. Infatti fu spinto da terrore così
grande, che si calò per una fune da quella parte in cui la fortezza
si congiungeva alle mura della città, abbandonò Roma e
si rifugiò dai suoi. Scacciato dunque re Ugo con la predetta
Marozia, Alberico tenne la monarchia della città di Roma, mentre
suo fratello Giovanni [8] era a capo della sede del pontificato sommo ed universale.
Liutprando, Antapodosis, II, 47, 48, III, 44-46.
Testo originale
[1] Alberico principe dei Romani,
morto nel 954.
[2] Giovanni XI (931-935) non fu
il successore immediato di Giovanni X.
[3] Liutprando qui fa confusione:
sebbene figlio del marchese di Spoleto, Alberico non ebbe mai il titolo
paterno.
[4] In realtà era vescovo
di Bologna.
[5] Era Sergio III.
[6] Si tratta di Castel S. Angelo.
[7] Marzo 932.
[8] Giovanni XI.
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