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Fonti

Antologia delle fonti altomedievali

a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto

© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XII
Il regno di Francia
Verso la società feudale

2. I Capetingi: la terza razza
(A) Rodolfo il Glabro, Storie, I, 5, 7.
(B) Richerio, Storie, SRG, IV, 11-13.

(A) Dunque, i discendenti di quella famiglia [1] furono a lungo re o imperatori sia in Italia che in Francia, fino all’ultimo loro re, Carlo il Semplice. Costui aveva tra i notabili del suo regno un tale di nome Eriberto di Vennandois, di cui aveva tenuto a battesimo un figlio, e che certamente per le sue doti di astuzia avrebbe potuto essere sospetto al re, se non fosse intervenuto contemporaneamente un inganno ben architettato. Eriberto aveva meditato di far cadere il suo re in un tranello, col pretesto di un incontro per trattare un certo affare, in modo da poterlo far venire senza sospetti in un suo castello, come poi avvenne, e gettarlo in catene in una prigione. Da alcuni, tuttavia, era stato dato al re il consiglio di comportarsi con molta prudenza nei confronti di Eriberto, per non cadere nel suo inganno. Mentre il re, che era uomo portato a credere, in base a questa notizia aveva deciso di diffidare di Eriberto, accadde che un giorno costui giungesse con suo figlio senza alcun imbarazzo al palazzo reale. Alzatosi, il re lo baciò ed egli prostrandosi ricevette il bacio del sovrano. Poi il re baciò anche il figlio; ma il giovane, che pure era a conoscenza dell’inganno, ma non era ancora abituato a fingere, stava eretto e non prestava il dovuto omaggio. Il padre, che gli era a fianco e lo aveva visto, gli diede con la mano un forte colpo sul collo, dicendogli: «Non si può ricevere il bacio di un signore e di un re senza piegare il corpo. Ricordalo!». Il re e tutti i presenti osservarono questa scena, e si convinsero che Eriberto era estraneo al tradimento e all’inganno contro il sovrano. Eriberto, vedendo il re riconciliato nei suoi confronti, più caldamente lo pregò di recarsi da lui per decidere su quell’affare, come già prima gli aveva chiesto. Subito il re promise di recarsi dove Eriberto avesse voluto. Stabilito il giorno, Carlo giunse nel luogo dove Eriberto lo aveva pregato di andare, facendosi scortare come prova d’amicizia solo da un piccolo drappello di soldati. Fu ricevuto con straordinari onori, ma il giorno seguente Eriberto comandò, come se si trattasse di un ordine del re, a tutti coloro che avevano scortato il sovrano di tornarsene a casa, dato che egli stesso con i suoi era in grado di garantire la protezione del re. Ascoltate le assicurazioni di Eriberto, quelli se ne andarono senza rendersi conto di lasciare prigioniero il loro sovrano. Eriberto lo tenne imprigionato fino al giorno della sua morte.

Re Carlo aveva avuto un figlio, Ludovico [2] che allora era ancora un ragazzo e che quando conobbe la sorte del padre fuggì oltre il Reno, dove rimase fino all’età adulta.

Nel frattempo i maggiorenti di tutto il regno elessero come sovrano Ludovico, figlio di quel Carlo di cui abbiamo già parlato, e lo unsero con il crisma dei re riconoscendogli il potere di regnare su di loro per diritto ereditario. Eriberto di Vermandois, infatti, aveva già trovato una morte crudele: quando, tormentato continuamente dal male, era ormai prossimo alla fine e i suoi congiunti lo interrogavano sia per la salvezza della sua anima sia per conoscere le disposizioni che intendeva lasciare riguardo alla sua famiglia e al suo patrimonio, non faceva altro che ripetere queste parole: «Fummo dodici che giurando accettammo di tradire Carlo», e morì ripetendo più volte questa frase.

Ludovico, poi, ebbe da Gerberga, vedova del duca di Lorena Gisleberto, un figlio che chiamò Lotario. Riconosciuto re, Lotario, che era un uomo agile, robusto e di buon senso, tentò di riportare ai confini di un tempo il suo regno. Infatti la parte superiore dei suoi domini, conosciuta anche come Lotaringia, era stata annessa al regno dei Sassoni da Ottone, re di Sassonia, o meglio imperatore dei Romani.

Lotario tentò anche, una volta, di catturare Ottone, figlio del famoso Ottone, mentre questi si trovava nel palazzo di Aquisgrana. Ma poiché della cosa Ottone fu segretamente avvertito da qualcuno, di notte egli riuscì a stento a salvarsi fuggendo con la moglie.

Ottone poi, riunito un esercito di più di 60.000 soldati, penetrò in Francia, arrivando fino ad occupare Parigi per tre giorni; in seguito ritornò in Sassonia, e di nuovo Lotario, radunato un esercito sul territorio della Francia e della Borgogna, inseguì l’esercito di Ottone fino al fiume Mosa, e capitò che molti dei fuggitivi trovassero la morte in questo fiume. Alla fine entrambi i re cessarono le ostilità, sebbene Lotario avesse ottenuto meno di quanto sperava.

Lotario generò un figlio, di nome Ludovico [3], e quando il giovane fu adulto lo fece consacrare re perché potesse succedergli al trono; gli scelse anche una sposa in Aquitania. Costei, accorgendosi che il giovane non aveva certo le doti del padre, decise di chiedere il divorzio, ed essendo donna di grande astuzia, gli fece scaltramente intendere che insieme avrebbero dovuto recarsi nella sua terra d’origine, la quale per diritto ereditario sarebbe stata sua. E giovane senza intuire l’astuzia della moglie acconsenti a partire come gli era stato richiesto. Quando furono giunti in Aquitania la donna lo abbandonò e raggiunse la sua famiglia. E padre, ricevuta la notizia, andò a cercare il figlio e lo riprese con sé. Essi vissero insieme e qualche anno dopo morirono tutti e due senza eredi.

Con questi due re si estinse la loro stirpe reale e imperiale.

Rodolfo il Glabro, Storie, I, 5, 7.

Testo originale

[1] Carolingi.

[2] Ludovico IV d’Oltremare.

[3] Ludovico V.


(B) Nel giorno fissato i principi della Gallia, che si erano legati tra di loro con un giuramento, si riunirono a Senlis. Radunatisi in assemblea, l’arcivescovo [1], con il consenso del duca [2] così parlò: «Ludovico [3] di santa memoria, morto senza lasciare figli, avrebbe dovuto seriamente cercare chi poteva succedergli al trono perché lo stato non corresse dei pericoli rimanendo abbandonato e senza un capo. Ecco perché noi ultimamente abbiamo ritenuto opportuno di differire il problema affinché ognuno di noi potesse venire qui a sottoporre all’assemblea il parere che Dio gli aveva ispirato e perché, confrontate le diverse opinioni, si potesse stabilire la volontà generale. Riuniti qui insieme, con molta saggezza e lealtà, dobbiamo evitare che l’odio distrugga la ragione o che il sentimento indebolisca la verità. Sappiamo che Carlo [4] ha dei sostenitori che lo affermano degno di ereditare il regno dei suoi avi. Ma se di questo si tratta, né il trono si acquisisce per diritto ereditario né va posto a capo del regno se non colui che si distingue non solo per la prestanza del corpo ma anche per la saggezza dell’animo, per la fede e per la generosità.

Leggiamo negli annali che a imperatori di stirpe illustre, che persero il potere per la loro ignavia, successero altri, talvolta simili talvolta diversi. Ma quale onore possiamo noi conferire a Carlo, che non è guidato dalla fede, che è infiacchito dalla pigrizia, che, infine, ha perduto la testa a tal punto da non vergognarsi di servire un re straniero e di sposare una donna inferiore a lui che proviene da una famiglia di vassalli? Come il potente duca potrà tollerare che una donna uscita da una famiglia di suoi vassalli divenga regina e regni su di lui? Come potrà marciare al seguito di colei i cui pari e superiori gli baciano le ginocchia e pongono le mani sui suoi piedi? Considerate accuratamente la questione e comprenderete che Carlo è caduto piuttosto per colpa sua che a causa di altri. Perseguite la felicità del regno piuttosto che la sua rovina: se volete che esso sia infelice, sostenete Carlo; se lo volete fortunato, incoronate re l’illustre duca Ugo. Nessuno si faccia commuovere dal suo affetto per Carlo, nessuno si faccia distogliere dall’interesse comune per odio contro il duca. Infatti se biasimate il buono, come potrete lodare il malvagio? Se lodate il malvagio come potrete disprezzare il buono? […]. Datevi dunque come re il duca che con le sue azioni, la sua nobiltà e il suo esercito difenderà non solo lo stato ma anche i vostri beni privati. Grazie alla sua benevolenza, sarà un padre per voi. Chi infatti ha confidato in lui e non ha trovato soccorso? Chi, abbandonato dai suoi, non è stato restituito ai suoi per il suo intervento?». Dopo che questo parere fu espresso e fu approvato da tutti, il duca fu, con il consenso unanime, innalzato al trono e fu incoronato a Noyon, dall’arcivescovo e dagli altri vescovi, re di Gallia, di Bretagna, di Normandia di Aquitania, di Gotia, di Spagna e Guascogna. […].

Per lasciare un erede sicuro nel regno dopo la sua morte, si consultò con i principi. E, preso consiglio con essi, si accordò prima con ambasciatori, poi di persona ad Auxerre con l’arcivescovo di Reims sull’elezione al regno di suo figlio Roberto. E poiché l’arcivescovo gli obbiettava che non era legittimo eleggere due re in un solo anno, quello subito gli trasmise una lettera mandata da Borrello, duca della marca di Spagna, che chiedeva aiuto contro i barbari. Diceva infatti [Borrello] che [quella] parte della Spagna era stata quasi conquistata dai barbari, e che, se egli non avesse ricevuto truppe dai Franchi entro dieci mesi, sarebbe passata tutta sotto il dominio dei barbari. Chiedeva pertanto di creare un altro re, affinché, se uno dei due fosse caduto nella mischia della guerra, l’esercito non rimanesse privo del suo capo. Diceva anche che, ucciso il re e devastata la patria, ne poteva conseguire la discordia dei grandi, la tirannide dei cattivi contro i buoni e di conseguenza la schiavitù di tutto il popolo.

L’arcivescovo, capendo che le cose potevano andare a finire così, cedette alle parole del re. E allorché i principi del regno si riunirono insieme il giorno della Natività del Signore [5] per celebrare l’onore della regia incoronazione, nella basilica della Santa Croce [Ugo] incoronò solennemente, conferendogli la porpora, suo figlio Roberto, mentre i Franchi acclamavano.

Richerio, Storie, SRG, IV, 10-13.

Testo originale

[1] Adalberone, arcivescovo di Reims.

[2] Ugo Capeto.

[3] Ludovico V.

[7] Carlo, duca di Lorena e zio di Ludovico V.

[5] 25 dicembre 987.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05