Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
7. La leggenda del Mille (A) Rodolfo il Glabro, Storie,
II, 13-14, 17. (B) Rodolfo il Glabro, Storie,
III, 13, 19. (C) Rodolfo il Glabro, Storie,
IV, 9-10.
(A) Sette anni prima del millennio
il monte Vesuvio, chiamato anche pentola di Vulcano, entrò in
eruzione, emettendo dai crateri apertisi in numero molto maggiore del
solito una gran quantità di enormi frammenti di roccia misti
al fuoco prodotto dallo zolfo, che ricadevano poi fino a tre miglia
di distanza, mentre le sue fetide esalazioni rendevano inabitabile tutta
la zona circostante.
Ritengo di non dover passare sotto silenzio questo fenomeno perché
avviene nella zona desertica dell’Africa. La causa dipende innanzitutto
dal fatto che il suolo è reso cavo dall’eccessivo calore del
sole; l’aria, percossa dalle immense e vorticose ondate che l’Oceano
che si stende verso oriente solleva e spinge avanti, si infiltra sottoterra,
fuoruscendone poi impetuosamente verso l’alto, spinta dal vapore infuocato
da cui trae forza. L’aria, infatti, normalmente per la sua stessa composizione
sale verso l’alto, e a causa della sua duplice natura che ha in sé
l’umidità e il calore, quando è resa turbolenta spesso
fa scaturire il fuoco nelle zone aride e produce invece il ghiaccio
in quelle umide.
Contemporaneamente quasi tutte le città della Gallia e dell’Italia
subirono danni provocati da incendi. Anche la stessa città di
Roma fu distrutta in gran parte da un incendio, durante il quale il
fuoco si appicco addirittura alle travature della chiesa di San Pietro,
e avvampando sotto la copertura del soffitto cominciò a bruciare
le parti in legno. La grande folla dei presenti, visto l’incendio e
non trovando alcun mezzo per scongiurare il pericolo, tutta insieme
si diresse con grida angosciate verso l’altare della confessione del
principe degli apostoli, e gridò che se in quella circostanza
l’apostolo non fosse stato vigile protettore della sua chiesa, molti
nel mondo avrebbero abbandonato la fede. Subito le fiamme divoratrici
andarono smorzandosi sulle travature d’abete e poi si spensero.
Nello stesso periodo morirono in Italia e in Gallia i più eminenti
vescovi, duchi e conti. Il primo a morire fu papa Giovanni, seguito
da Ugo [1], il migliore
dei marchesi. Dopo queste morti avvennero in Italia quelle di molti
tra i più nobili, e in Gallia quelle di Oddone e di Eriberto,
il primo conte di Tours e di Chartres, l’altro di Méaulte e di
Troyes. Venne a mancare anche Riccardo duca di Rouen [2],
che aveva edificato a Fécamp il ricchissimo monastero nel quale,
dopo essere stato sepolto, ora riposa. All’incirca negli stessi anni
moli Guglielmo duca di Poitiers, e lasciarono questo mondo anche alcuni
tra i più religiosi vescovi della Gallia: Manasse, uomo pieno
di santità, vescovo di Troyes; Gilberto, vescovo di Parigi; Geboino,
vescovo di Chálons-sur-Marne e molti altri, tra i quali san Maiolo di
buona memoria, che terminò la sua giornata terrena nel monastero
di Sauvigny. Il modo stesso con cui seppe morire è una lode alla
onestà della sua vita. Da tutto l’occidente accorsero per la
fama della sua santità moltissimi uomini e donne appartenenti
ad entrambi gli ordini, sia laici che ecclesiastici, i quali se ne tornarono
dopo aver ottenuto la grazia della guarigione da molte infermità.
In quel tempo una terribile malattia travagliava gli uomini: un fuoco
nascosto consumava e staccava le membra che aveva colpito. Molti furono
completamente divorati da questo fuoco in una sola notte. Il rimedio
a questo terribile flagello fu trovato nelle reliquie di numerosi santi,
e per questo vi fu un enorme concorso di popolo soprattutto nelle chiese
dei tre venerati confessori Martino di Tours, Ulrico di Baviera, e del
nostro venerabile padre Maiolo, e per loro intercessione si ottenne
la guarigione desiderata.
In quello stesso tempo si verificò in tutto l’occidente una grandissima
carestia che durò cinque anni: non vi fu regione in cui non regnasse
la miseria e non mancasse il pane. Molta gente morì consumata dall’inedia.
Allora in molti paesi per la fame atroce si arrivò al punto di cibarsi
non solo della carne di animali immobili e di rettili, ma addirittura
di carne umana di uomini, donne e bambini, e non vi fu alcun vincolo
di parentela che potesse impedirlo. La crudeltà della fame era arrivata
a tal punto che i figli già adulti divoravano le carni delle madri e
queste quelle dei bambini più piccoli, senza più alcun sentimento di
amore materno.
Rodolfo il Glabro, Storie, II, 13-14, 17. Testo originale
[1] Ugo, marchese di Toscana e
signore del ducato di Spoleto e di Camerino. Morì nel 1001. Il
papa è Giovanni XV.
[2] Riccardo I Senzapaura, duca di Normandia
(942-996).
(B) Mentre ci si avvicinava
al terzo anno dopo il Mille, in quasi tutto il mondo, ma soprattutto
in Italia e in Gallia, furono rinnovati gli edifici delle chiese. Benché
la maggior parte di esse, essendo costruzioni solide, non avesse bisogno
di restauri, tuttavia le genti cristiane sembravano gareggiare tra loro
per edificare chiese che fossero le une più belle delle altre.
Era come se il mondo stesso, scuotendosi, volesse spogliarsi della sua
vecchiezza per rivestirsi di un bianco manto di chiese. I fedeli, infatti,
non solo abbellirono quasi tutte le cattedrali e le chiese dei monasteri
dedicate a diversi santi, ma persino le cappelle minori poste nei villaggi.
Mentre il mondo intero, come si è detto, si illuminava dei bianchi edifici
religiosi restaurati, otto anni dopo il millennio numerosi indizi permisero
di riportare alla luce molte reliquie di santi dai luoghi in cui a lungo
erano rimaste nascoste. Come se avessero atteso una gloriosa resurrezione,
esse si offrirono, ad un cenno del Signore, alla contemplazione dei
fedeli, infondendo nei loro cuori un grande conforto.
Rodolfo il Glabro, Storie, III, 13, 19. Testo originale (C) Appena prima del 1033 dall’Incarnazione
di Cristo, cioè mille anni dopo la passione del Salvatore, morirono
in occidente molti personaggi famosi che erano stati vessilliferi, cioè
punti di riferimento, per la nostra santa religione.
Scomparvero Benedetto [1] pontefice universale; il re dei Franchi Roberto [2];
il vescovo di Chartres Fulberto, pastore incomparabile e uomo di profonda
saggezza; e infine il padre dei monaci e il fondatore di conventi che
tante e tante volte abbiamo ricordato, cioè quell’uomo straordinario
che fu Guglielmo. […]
Poco tempo dopo in tutto il mondo la carestia cominciò a far
sentire i suoi effetti, e quasi tutto il genere umano rischiò
di morire. Il tempo diventò in effetti così inclemente
che non si riusciva a trovare il momento propizio per alcuna semina
né il periodo giusto per il raccolto, soprattutto a causa delle
inondazioni. Gli elementi sembravano essere in guerra tra loro: sicuramente
invece essi erano lo strumento di cui Dio si serviva per punire l’orgoglio
degli uomini.
Tutta la terra era stata talmente inzuppata dalle continue piogge che
nell’arco di tre anni non si poterono preparare solchi adatti alla semina.
Al tempo del raccolto le erbacce e l’inutile loglio avevano ricoperto
tutta la campagna. Un moggio di semente, quando rendeva tanto, dava
al momento della mietitura uno staio, e lo staio a malapena riempiva
un pugno. Questo flagello vendicatore era iniziato in Oriente, e dopo
aver devastato la Grecia si abbatté sull’Italia, da dove si diffuse
nelle Gallie arrivando poi a colpire tutta la terra degli Angli.
Non vi fu chi non risentisse allora della mancanza di cibo: i grandi
signori e la gente di media condizione alla pari dei miseri: tutti la
fame aveva reso smunti. L’indigenza comune aveva avuto come effetto
quello di far cessare la violenza dei potenti. Se qualcuno aveva del
cibo, poteva venderlo al prezzo che voleva, anche il più elevato,
sicuro di ottenerlo. In più di un caso il costo di un moggio
di grano salì a sessanta soldi, in qualche altro un sestario
fu venduto addirittura a quindici soldi.
Quando non vi furono più animali o uccelli da mangiare, gli uomini,
spinti dai morsi terribili della fame, dovettero risolversi a cibarsi
di ogni tipo di carogne e di altre cose che destano ribrezzo al solo
parlarne. Alcuni per scampare alla morte fecero ricorso alle radici
degli alberi e alle erbe dei fiumi, ma inutilmente, perché non
vi e scampo contro la collera di Dio se non in Dio stesso.
C’è da inorridire a raccontare gli orrori commessi in quell’epoca
dagli uomini. Ahimé! come poche volte capitò di udire
nel corso della storia, la fame rabbiosa allora spinse gli uomini a
divorare carne umana.
I viandanti venivano aggrediti da gente più robusta di loro e
i loro corpi, tagliati a pezzi, venivano cotti sul fuoco e divorati.
Anche coloro che si spostavano da un paese all’altro nella speranza
di sfuggire alla carestia, ospitati lungo il cammino, durante la notte
venivano sgozzati e servivano da nutrimento e quegli stessi che avevano
dato loro accoglienza.
Molti, poi, mostrando un frutto o un uovo ai bambini, li attiravano
in disparte per poterli scannare e poi cibarsene.
Rodolfo il Glabro, Storie, IV, 9-10. Testo originale
[1] Benedetto VIII (1012-1024).
[2] Roberto il Pio.
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