Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
11. Enrico II e la Renovatio regni Francorum (A) Tietmaro, Cronaca,
VII, 20-21.
Si è parlato dell’età di Enrico II (1002-24) cugino
in secondo grado di Ottone III ed ultimo, imperatore di casa sassone come
di una età di stabilizzazione. Già la scritta del sigillo
dei documenti enriciani Renovatio regni Francorum, marca la distanza da
quell’universalismo imperiale che aveva caratterizzato il programma
di Renovatio imperii Romanorum dell’ultimo Ottone. Mettendo infatti
in secondo piano la scena italiana e romana Enrico, che pure fu coronato
re d’Italia nel 1004 ed imperatore nel 1014, concentrò le
sue forze sul consolidamento dell’autorità regia in Germania,
dalla Sassonia alla Lotaringia, riprendendo le linee politiche di Ottone
il grande. In questa ripresa della prima età ottoniana Enrico si
guadagnò l’ammirazione di Tietmaro, dal 1009 vescovo di quella
sede di Merseburgo che era stata fondata da Ottone I, soppressa da Ottone
II e reinstaurata appunto da Enrico. Come già si è accennato
Tietmaro è autore di un Chronicon in otto libri che copre l’intera
storia della dinastia sassone fino al 1018, anno della morte dell’autore.
L’opera, composta tra il 1012 ed il 1018, è particolarmente
dettagliata sul regno di Enrico II, cui l’autore non lesina solidarietà
ed elogi per quanto riguarda le trattative per l’acquisizione della
Borgogna (che si concluderanno definitivamente solo nel 1033, con Corrado
II) o per la politica di rafforzamento del regno. L’unica critica
di Tietmaro al re riguarda la sua alleanza con la popolazione pagana dei
Liutezi contro la Polonia: del resto si tratta di un settore nel quale
il ripudio dell’universalismo di Ottone III aveva portato Enrico
a distanziarsi anche dalle direttive del primo imperatore sassone.
(A) L’imperatore attendeva
la visita del re di Borgogna, ma quello non poté recarsi all’appuntamento
e pregò l’amato nipote di venire da lui [1].
L’incontro ebbe luogo a Strasburgo e lì i due congiunti
poterono godere della carità del reciproco amore. Era presente
anche l’illustre sposa del re Rodolfo [2],
sua stretta collaboratrice, che raccomandò all’imperatore
i due figli avuti dal primo matrimonio; ed egli donò in feudo
ai suoi cari vassalli tutto quello che suo zio gli aveva concesso e
che fino allora, per la generosità regia, era in mano al conte
Guglielmo di Poitiers [3].
D’altro canto l’avvedutezza di Enrico lo indusse a chiedere
ai suoi interlocutori di rafforzare più saldamente gli impegni
giurati che da lungo tempo il re di Borgogna aveva assunto nei suoi
riguardi, relativamente a ciò che sarebbe accaduto dopo la propria
morte. Ricevette così dallo zio, che mise le mani nelle sue,
la supremazia su tutta la Borgogna, nonché la garanzia che nessuna
decisione importante sarebbe stata presa senza consultarlo. […]
L’imperatore distribuì al re, alla sua sposa ed a tutti
i grandi delle ingenti somme di denaro, e come ebbe ottenuto ancora
una volta la conferma del già stabilito passaggio del regno,
li autorizzò a congedarsi. Lui stesso si diresse verso Basilea
alla testa della sua armata. […] Quanto al re di Borgogna, debole
ed effeminato, volle impedire la messa in atto degli impegni che aveva
assunto nei confronti di suo nipote, su istigazione di coloro ai quali
aveva allentato il morso e che si compiacevano di correre lontano come
sventurati puledri [4].
Poi però cambiò nuovamente avviso e si sforzò di
persistere nei suoi impegni iniziali: ma questa volta non poté
farlo per l’opposizione dei suoi avversari. Non vi è nessun’altro
re che governi in questo modo: della regalità egli non porta
che il titolo e la corona, e dona i vescovati a persone scelte dai grandi
signori. Ciò che egli possiede in proprio è poca cosa:
vive a spese dei vescovi e non può difendere quelli della sua
cerchia se vengono in qualche modo oppressi. E’ per questo che
i vescovi, che hanno le mani legate, obbediscono ai grandi: è
il prezzo per poter vivere in pace. In verità il senso di una
regalità siffatta è solo quello di permettere alla discordia
di dispiegarsi liberamente e di impedire ad un nuovo re di mettere in
qualche modo fine ad un’anarchia così ben radicata. Il
conte Ottone-Guglielmo, di cui ho parlato, è solo di nome un
funzionario del re, in realtà è padrone; e non vi è
in Borgogna un conte che non abbia il rango ed il potere di un duca.
E perché il potere regio in Borgogna risulti ulteriormente indebolito,
vi si combatte, come ho già detto, la maestà dell’imperatore.
Tietmaro, Cronaca, VII, 20-21.
[1] Re di Borgogna era allora
Rodolfo II (993-1032), la cui sorella Gisella era madre dell’imperatore
Enrico II. La Germania aveva cercato di estendere la propria supremazia
sulla Borgogna (costituitasi in regno con la dissoluzione dell’impero
carolingio) sin dai tempi di Enrico I. L’incontro del 1016 fu, in questo
senso, definitivo. Rodolfo, che non aveva figli, designò Enrico
II come erede.
[2] Ermengarda, seconda moglie
di Rodolfo.
[3] In realtà si tratta
di Ottone Guglielmo (suocero di Guglielmo di Poitiers), il più
potente feudatario di Borgogna, che secondo Tietmaro sarebbe stato spodestato
da Enrico a vantaggio, dei suoi fedeli. L’operazione, verosimilmente,
rimase del tutto teorica.
[4] La citazione proviene da una favola
latina in versi, composta in Lotaringia agli inizi del X secolo, intitolata
Ecbasis cuiusdam captivi (vv. 66 sgg.).
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