Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”
3. Ottone I, re di Germania (A) Widukindo di Korvey, Gesta
dei Sassoni, SRG, II, 1-2. (B) Widukindo di Korvey, Gesta
dei Sassoni, SRG, III, 7-9. (C) Widukindo di Korvey, Gesta
dei Sassoni, SRG, III, 44, 46, 49.
Alla morte di Enrico I (936) gli succedeva il figlio primogenito Ottone
I che continuava la politica paterna di rafforzamento del regno, arrivando
a modificare la struttura dei ducati dove progressivamente i duchi perdevano
la fisionomia di capi di una gente (Stamm) per acquisire quella di rappresentanti
del re su un territorio: un processo che può scorgersi già
delineato nel cerimoniale del banchetto seguito all’incoronazione regia,
allorché i duchi come ci informa il già citato Widukindo
adempirono a funzioni che li qualificavano come grandi vassalli del
sovrano (A). Nel proseguire le linee
paterne Ottone se ne distanziava tuttavia per il maggiore impegno politico-religioso
dell’espansione ad oriente (sulla quale torneremo), e soprattutto per
l’attenzione all’Italia nelle cui instabili vicende Ottone riusciva
ad inserirsi ce ne informa brevemente Widukindo impadronendosi del
regno italico già nel 951, dopo aver affermato la propria supremazia
in Boemia (B). Dati i precedenti instaurati
nell’età carolingia, con la conquista del regno italico era compiuto
il passo preliminare verso l’impero, ma la necessità di fronteggiare
i problemi interni in Germania dilazionarono per un decennio la meta
imperiale. Questa si fece peraltro sempre più prossima dopo la clamorosa
vittoria riportata nel 955 sugli Ungari: un evento che costituisce uno
dei punti centrali della narrazione di Widukindo che addirittura, andando
contro l’evidenza dei fatti, connette direttamente il titolo imperiale
di Ottone alla vittoria del 955, assimilando così Ottone ai capi della
tradizione germanica e agli imperatori-soldato della tradizione romana
(C). (A) Dopo la morte dell’insigne Enrico,
padre della patria, eccellente, tra tutti i re, il popolo dei Franchi
e dei Sassoni si scelse come capo il figlio di questi, Ottone, già
a suo tempo designato dal padre come re. Coloro che dovevano indicare
il luogo dell’elezione scelsero il palazzo di Aquisgrana [1],
poiché era vicino alla località di Julich [2],
che aveva ricevuto il nome dal suo fondatore Giulio Cesare. Giunti tutti
al luogo convenuto, i duchi ed i capi civili e militari si raccolsero
entro il colonnato adiacente alla basilica fatta edificare da Carlo
Magno: lì posero il nuovo signore sul trono appositamente costruito
e lo fecero re secondo il proprio costume, offrendogli le mani, promettendogli
fedeltà ed impegnandosi a prestargli aiuto contro tutti i nemici.
Mentre i duchi e gli altri notabili seguivano questa procedura, il più
alto prelato [3], con tutto
il clero ed il popolo, giù nella basilica preparava il corteo per il
nuovo re. Al suo arrivo l’arcivescovo gli andò incontro, rivestito
dei parametri di lino, con la stola e la pianeta, con il pastorale nella
destra: e con la mano sinistra prese la destra del re e così procedette
fermandosi al centro del tempio. Lì dove poteva essere visto da tutti,
rivolto al popolo che faceva corona (infatti, in quella basilica, di
forma rotonda [4], vi erano
due ordini di gallerie circolari) disse: “Ecco, io vi conduco
Ottone, scelto da Dio, già designato da Enrico, ed ora fatto
re da tutti i signori; se siete d’accordo con questa elezione manifestatelo
alzando la mano destra al cielo”. Al che tutto il popolo, levata
in alto la destra, acclamò il nuovo re augurandogli prosperità.
Quindi l’arcivescovo, con il re che indossava una stretta tunica secondo
l’uso franco, avanzò verso l’altare dove si trovavano le insegne
regie: la spada con la cintura, il manto con i bracciali, il bastone
con lo scettro ed il diadema. […] L’arcivescovo, appressandosi
all’altare e prendendo la spada con la cintura, si rivolse al re e disse:
“Prendi questa spada con la quale caccerai tutti gli avversari
di Cristo, barbari e cattivi cristiani; poiché per volontà
divina il potere su tutto il regno dei Franchi ti è stato conferito
per garantire una solida pace a tutti i cristiani”. Quindi lo
rivestì del manto con i bracciali e disse: “Da queste punte che
scendono a terra trai ammonimento ad essere zelante nella fede ed a
perseverare fino all’ultimo nella difesa della pace”. Infine prese
scettro e bastone e disse: “Queste insegne ti ammoniscano a levare
i tuoi paterni castighi sui tuoi sudditi ed a mostrare misericordia
in primo luogo verso i ministri di Dio, le vedove e gli orfani; dal
tuo capo non venga mai meno il balsamo della compassione così che tu
riceva la corona dell’eterna ricompensa ora e sempre”. Il re fu
quindi cosparso di sacro crisma e incoronato con il diadema di oro dagli
arcivescovi Ildeberto e Wicfrido [5]:
completata così la consacrazione fu condotto dai medesimi prelati al
trono costruito tra due colonne marmoree di straordinaria bellezza
cui si accedeva con scalini a spirale e da cui egli poteva vedere
tutti e da tutti essere visto. Pronunciate quindi le lodi del Signore
e celebrata solennemente la messa, il re si recò al palazzo ed
appressandosi alla mensa di marmo [6],
ornata con apparato regale, vi si sedette con i sacerdoti ed il popolo,
mentre i duchi provvedevano a tutto. Il duca di Lotaringia, Gisleberto
[7], che aveva signoria
su Aquisgrana, forniva ogni cosa; Everardo [8]
sovraintendeva alla mensa; Ermanno,
[9] sorvegliava i coppieri; Arnolfo
[10] era responsabile
dei cavalieri e degli accampamenti. Nel frattempo Sigfrido, il più illustre
dei Sassoni, secondo solo al re, un tempo cognato del sovrano ed allora
unito a lui per rapporti di affinità, si occupava della Sassonia
per prevenire irruzioni nemiche e teneva presso di sé il giovane
Enrico [11]. In seguito
il re, con regale munificenza, onorò i principi con doni appropriati
e quindi congedò la folla in grande letizia.
Widukindo di Korvey, Gesta dei Sassoni, SRG, II, 1-2.
[1] Città tra il Reno
e la Mosa (Lotaringia, ora Renania settentrionale-Westfalia). In età
carolingia era stata una delle sedi favorite da Carlo Magno, che vi
aveva fatto edificare una basilica consacrata da Leone III nell’805.
[2] Località a circa 30
Km. da Aquisgrana. L’etimologia che la collega a Giulio Cesare è
fittizia ed è attribuibile a Widukindo.
[3] Ildeberto, arcivescovo della
sede di Magonza, che era allora una delle principali metropoli ecclesiastiche
di Germania.
[4] La cattedrale era stata costruita
secondo il prototipo di S. Vitale a Ravenna: un corpo ottagonale con
in alto due ordini di gallerie.
[5] Arcivescovo di Colonia, altra
sede metropolitana.
[6] Si tratta del trono di Carlo
Magno, in marmo bianco, alzato su sei gradini. Fu usato per le incoronazioni
fino al 1531.
[7] Gisleberto, personaggio di
grande peso dell’aristocrazia lotaringica e genero di Enrico I, era
stato da questi nominato duca nel 926. Il ducato sarebbe stato poi (944)
assegnato da Ottone al proprio genero, Corrado il Rosso, proveniente
dall’aristocrazia di Franconia. Nel 955, dopo la destituzione di Corrado,
resosi colpevole di ribellione, la Lotaringia sarebbe quindi toccata
al più giovane dei fratelli di Ottone: Brunone, già arcivescovo
di Colonia.
[8] Duca di Franconia, fratello
del defunto re Corrado I [cfr. sopra, paragrafo 2 (A)].
[9] Cugino del duca di Franconia,
nominato da Enrico I duca di Alamannia (Svevia) alla morte di Burcardo
I [cfr. sopra, paragrafo 2 (A), n. 3] nel 926. Il ducato sarebbe andato
in seguito al figlio di Ottone, Liudolfo.
[10] Duca di Baviera [cfr. sopra,
paragrafo 1, n. 11]. Anche su questo ducato Ottone avrebbe in seguito
posto un proprio parente, il fratello Enrico, per cui cfr. alla nota seguente.
[11] Fratello minore di Ottone, divenne
in seguito duca di Baviera. A partire dal 952 ebbe anche le marche di
Verona ed Aquileia, staccate al regno italico.
(B) In quel tempo aveva usurpato il
potere e regnava nel nord dell’Italia un uomo feroce ed avaro, Berengario
[1], che per denaro vendeva anche
la giustizia. Costui temeva le straordinarie qualità di prudenza
della regina vedova del re Ludovico [2],
e quindi la perseguitava in molte maniere, per spegnere, o almeno per
offuscare, lo splendore della sua dignità. In quel tempo il re
Ottone I organizzò una spedizione armata contro il re dei Boemi,
Boleslao [3]. Era in
procinto di prendere la città di Nova [4],
dove era assediato il figlio di Boleslao, ma poi con saggia decisione
evitò l’attacco, per timore che i soldati, nel fare bottino,
incorressero in qualche pericolo. Tenendo conto del valore del re e
della soverchiante moltitudine del suo esercito, Boleslao [5]
uscì da Nova, e ritenne preferibile sottomettersi a tanta maestà
piuttosto che andare incontro ad una inevitabile catastrofe. Ponendosi
sotto le insegne di Ottone ebbe un incontro con lui e ne ottenne il
perdono. Il re tornò in Sassonia, pieno di gloria per la straordinaria
vittoria riportata. E poiché conosceva le qualità della
regina Adelaide di cui prima abbiamo parlato decise ma era una meta
fittizia di recarsi a Roma. Come giunse nel nord dell’Italia cercò
di assicurarsi l’amore della regina inviandole doni preziosi. Una volta
certo del suo amore la unì a sé, e con lei prese possesso della
sede regia di Pavia [6].
Widukindo di Korvey, Gesta dei Sassoni, SRG, III, 7-9.
[1] Berengario II, già
marchese di Ivrea. Dopo varie vicende che lo videro alternativamente
alleato di Ottone I e del re d’Italia, Ugo di Provenza, alla Morte del
figlio di questi, Lotario, fu coronato nel 950 re d’Italia insieme al
proprio figlio Adalberto.
[2] In realtà, Lotario:
l’autore sta trattando qui di Adelaide di Borgogna, la giovane vedova
del figlio di Ugo di Provenza.
[3] Boleslao I [cfr. sopra,
paragrafo 2 (B), nn. 4-5]. Il suo titolo era ducale, non regio.
[4] Odierna Nymburk in Boemia.
[5] Boleslao II, figlio di Boleslao
I, fu duca di Boemia dal 972 al 999.
[6] Ottone giunse il 23 settembre a Pavia
dove prese la corona del regno italico (con l’antico titolo di re dei
Longobardi) e dove, pochi giorni dopo, sposava in seconde nozze Adelaide.
Widukindo offre una versione romanzata degli eventi, forse anche allo
scopo di celare lo smacco subito da Ottone, allorché l’ambasciata
inviata a Roma per sollecitare la corona imperiale non ebbe esito.
(C) Poiché i razziatori di
entrambi gli eserciti avevano dato notizia che le due armate non distavano
molto l’una dall’altra, fu prescritto un digiuno e tutti ricevettero
l’ordine di tenersi pronti a combattere il giorno seguente. I soldati
si alzarono all’alba, si scambiarono la pace, e promisero con giuramento
prima al comandante poi vicendevolmente che non avrebbero risparmiato
il loro impegno. Quindi uscirono dall’accampamento, in numero di quasi
otto legioni, con le insegne spiegate, e si misero in marcia seguendo
un itinerario difficile ed impervio, che offriva però un riparo
di arbusti contro le implacabili frecce del nemico. Le tre prime legioni
dell’armata erano composte di Bavari, comandati dal luogotenente del
duca Enrico [1], assente
perché colpito dalla malattia che lo avrebbe poi condotto a morte.
La quarta legione era formata da Franchi guidati dal duca Corrado [2].
Il re in persona, protetto da migliaia di guerrieri scelti, circondato
dal fiore della gioventù, era a capo della legione più importante, che
aveva il nome di legione regia: davanti a lui procedeva il vessillo
con l’angelo, insegna di vittoria. La sesta e la settima legione erano
costituite da guerrieri Svevi, comandati da Burcardo [3],
che aveva sposato la figlia di un fratello di Ottone. Nell’ottava legione
vi erano i Boemi [4]:
mille guerrieri scelti, esperti nelle armi più che protetti dalla fortuna.
Poiché era l’ultima, e veniva ritenuta la meno esposta a pericoli,
le erano stati affidati i bagagli e le salmerie. Ma le cose andarono
diversamente da come si era pensato. Gli Ungari, senza esitare, traversarono
la Lech [5], aggirarono
la nostra armata, tempestarono di frecce l’ultima legione e la aggredirono
levando alti clamori: presero prigionieri alcuni soldati, altri ne uccisero
e gli altri li misero in fuga, impadronendosi di tutti i carichi. Allo
stesso modo attaccarono la sesta e la settima legione, abbattendo molti
guerrieri e mettendo in fuga gli altri. Come il re si rese conto che
era stata attaccata battaglia dal fondo e che la retroguardia si trovava
in gravissime difficoltà, mandò in aiuto la quarta legione,
che liberò i prigionieri, recuperò le salmerie e mise
in fuga le schiere di razziatori. Compiuto queste imprese, il duca Corrado,
che era a capo della legione, tornò dal re con le insegne vittoriose:
con soldati non addestrati e quasi inesperti aveva riportato un trionfo
mirabile, là dove dei veterani, solitamente vittoriosi, si erano
trovati in difficoltà.
Come il re vide che doveva prepararsi a reggere l’urto di una battaglia
che gli veniva portata alle spalle, si rivolse ai suoi con queste parole
di incoraggiamento [6]:
“Miei guerrieri, vedete anche voi come vi sia bisogno di tutto
il nostro coraggio in questo momento decisivo, quando il nemico non
è più lontano, ma ci è proprio accanto. Finora, grazie alle vostre instancabili
braccia ed alle vostre armi invitte, dovunque, in tutti i territori
fuori del mio regno, io sempre ho conseguito la vittoria. E proprio
ora dovrei volgere le spalle, ora che sono nella mia terra e nel mio
regno? Lo so, i nemici ci superano in numero, ma non in valore, e non
in forza. Sappiamo che la maggior parte di loro è priva di armi e, ciò
che più ci conforta, sono privi dell’aiuto di Dio. Come difesa hanno
solo la propria audacia, mentre noi abbiamo la speranza e la protezione
divina. Noi, che siamo signori di quasi tutta l’Europa, non possiamo
cedere al nemico. Se è destino, è meglio morire gloriosamente in battaglia
piuttosto che vivere in servitù o venire strangolati come bestie nocive.
Miei soldati, se pensassi che le parole potessero infondere coraggio
ed audacia ai vostri animi vi parlerei più a lungo. Ma più che le voci,
facciamo parlare le armi”. E con queste parole afferrò
la spada e la Sacra Lancia, e per primo spronò il cavallo tra
i nemici, adempiendo alla sua funzione di valoroso soldato e di eccellente
comandante. I più valenti degli Ungari dapprima opposero resistenza,
ma come videro che i compagni fuggivano si persero d’animo, rimasero
isolati in mezzo ai nostri e vennero sterminati. Degli altri Ungari
alcuni, a spron battuto, cercarono rifugio nei villaggi vicini ma furono
accerchiati e perirono tra le fiamme delle costruzioni dove avevano
cercato riparo. Altri tentarono di traversare il fiume ma non riuscendo
a scalare la riva opposta, che era scoscesa, morirono inghiottiti dalle
acque. Quello stesso giorno il loro accampamento fu invaso e vennero
liberati tutti i prigionieri. Nei due giorni successivi gli abitanti
delle città limitrofe massacrarono gli Ungari superstiti, così
che nessuno, o quasi, riuscì a salvarsi.
Carico di gloria per quell’illustre trionfo il re ricevette dal suo
esercito il titolo di padre della patria e di imperatore; stabilì che
in tutte le chiese si rendessero onori e lodi a Dio affidandone l’incarico
alla sua santa madre; e col più grande tripudio tornò in Sassonia
dove il popolo lo accolse col massimo entusiasmo: nessuno dei suoi sovrani,
da duecento anni a quella parte, lo aveva infatti allietato con una
simile vittoria.
Widukindo di Korvey, Gesta dei Sassoni, SRG, III, 44, 46,
49.
[1] Fratello di Ottone I [cfr.
sopra, paragrafo 3 (A), nn. 10-11].
[2] Corrado detto il Rosso,
genero di Ottone I di cui aveva sposato la figlia Liudgarda, nata dal
primo matrimonio di Ottone con la principessa anglosassone Edith. Già
duca di Lotaringia, era rientrato nel favore del re ed aveva potuto
conservare i suoi allodi in Franconia.
[3] Burcardo II parente del
duca di Svevia Burcardo I aveva ricevuto la Svevia dopo la ribellione
del duca Liudolfo (952-954), figlio di Ottone I. Aveva sposato la figlia
di Enrico di Baviera.
[4] Boleslao I [cfr. sopra,
(B), n.3], da poco pacificato con Ottone, aveva inviato un contingente
boemo.
[5] La battaglia ebbe luogo
il 10 agosto 955 presso il fiume Lech, un affluente di destra del Danubio,
in prossimità di Augusta.
[6] L’uso retorico del discorso prima
della battaglia, come l’uso di termini classicheggianti quale “legioni”,
mostra l’influenza delle opere sallustiane.
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