Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
8. Ottone III e la Renovatio imperii (A) Gerberto di Aurillac, Libro
sulle ragione e l’uso di ragione, PL, 139, col. 159. (B) Leone da Vercelli, Versi
su Gregorio papa e Ottone Augusto, pp. 200-201. (C) Ottone III, Diplomi,
DRG 2/2, n. 388 (1001).
Nel 996 Ottone III, figlio di Ottone II e della principessa bizantina
Teofano, diveniva maggiorenne e si recava a Roma dove insediava il nuovo
papa Gregorio V ricevendo a sua volta la corona imperiale. Dopo questa
prima spedizione italiana si univa alla corte sassone il personaggio
che più di ogni altro avrebbe influenzato la concezione del potere del
giovanissimo sovrano: il contestato arcivescovo di Reims Gerberto d’Aurillac,
che nell’estate del 997 troviamo vicino ad Ottone, allora impegnato
nella campagna contro, gli Slavi. Dai colloqui di quell’estate maturava
il trattato De rationale et ratione uti, offerto da Gerberto ad Ottone
nella primavera 998 quando era in corso la seconda spedizione italiana
con una lettera dedicatoria (A)
che conteneva, tra l’altro, un programma ideologico: “La Grecia
non deve recare, sola, il vanto della filosofia imperiale e della potenza
di Roma: nostro, nostro è l’impero romano […] Dopo la ormai lontana
polemica di Ludovico II con Basilio [cfr. capitolo 10, 9 (A)] e il recente
contrasto tra Ottone I e Niceforo Foca, ancora una volta l’impero occidentale
rivendicava per sé l’appellativo “romano”. Il secondo
viaggio di Ottone in Italia (998-999) si svolge all’insegna di questa
ideologia: Renovatio imperii romanorum è l’iscrizione che appare sulle
bolle imperiali: “Che Roma risusciti sotto l’impero di Ottone”
è l’augurio che veniva formulato da Leone di Vercelli nei coevi Versus
de Gregorio papa et Ottone Augusto (B).
La tradizione per cui gli imperatori non risiedevano a Roma in omaggio
alla donazione che Costantino avrebbe fatto a papa Silvestro fu allora
infranta, e Ottone stabilì la sua corte sull’Aventino. Nuovo e diverso
Costantino, il suo desiderio di ricondurre chiesa e impero ad una mitica
condizione di primigenia purezza e grandezza si manifestava nel 999
con l’elevazione al soglio pontificio del suo maestro Gerberto che assumeva
il simbolico nome di Silvestro II, mentre nel 1001 un documento imperiale
(C) dichiarava falsa la donazione
di Costantino e nullo il patto di Carlo il Calvo contro il quale, un
secolo prima, si era scagliato l’anonimo autore del Libellus de imperatoria
potestate in Roma [cfr. capitolo 9, 6 (C)]. (A) Al glorioso signore Ottone Cesare
sempre Augusto, imperatore dei Romani, l’ossequio della dovuta servitù.
Mi trovavo in Germania, durante la stagione calda, impegnato, come sempre
e per sempre, nel servizio dell’imperatore. La vostra mente divina andava
rivolgendo silenziosamente tra sé non so che di arcano, e ad
un tratto diede voce ai moti dell’animo, proponendo alla nostra attenzione
argomenti che Aristotele ed i più grandi filosofi hanno sviluppato nei
loro scritti con trattazioni difficilissime. Era meraviglioso che tra
le ansie ed i pericoli della guerra si preparava allora la spedizione
contro i Sarmati [1]
un uomo potesse conservare nella sua mente luoghi così remoti ed intatti
da far sgorgare, come ruscelli da una purissima sorgente, pensieri tanto
sottili, tanto elevati. Ricorderete, come io ricordo, che erano presenti
allora molti nobili ed eruditi uomini di scuola [2],
tra i quali c’erano anche alcuni vescovi, famosissimi per la loro sapienza
ed insigni per l’eloquenza. Eppure, non ne vedemmo uno che riuscisse
a definire in modo soddisfacente una di quelle questioni: alcune, troppo
poco frequentate, non erano state fino ad allora sufficientemente dibattute,
altre, affrontate un’infinità di volte, non si erano mai potute
risolvere. Perciò la vostra divina prudenza, giudicando quell’ignoranza
indegna del sacro palazzo, mi comandò di discutere le opinioni
che, in materia della ragione e del suo uso, erano da diversi autori
in diverso modo contrapposte. Una malattia, e più gravi impegni mi costrinsero
allora a rimandare. Ora ho recuperato la salute, anche se continuano
ad impegnarmi preoccupazioni pubbliche e private: compagno dell’imperatore
in questo viaggio attraverso l’Italia [3],
e per sempre, finché avrò vita, al suo completo servizio,
metto brevemente per iscritto ciò che ho pensato riguardo a tale
questione. L’Italia non deve pensare che il sacro palazzo sia rimasto
in letargo; la Grecia non deve recare, sola, il vanto della filosofia
imperiale e della potenza di Roma. Nostro, nostro è l’impero romano:
ci danno forza l’Italia ferace di messi, la Gallia e la Germania feraci
di guerrieri; non ci manca neppure il fortissimo regno degli Sciti.
E nostro sei tu, Cesare, imperatore dei Romani, Augusto, tu che, nato
dal più illustre sangue dei Greci, superi i Greci per dignità
imperiale, comandi i Romani per diritto ereditario, sovrasti gli uni
e gli altri per ingegno ed eloquenza. Al cospetto di un tale giudice
esporrò dunque, per iniziare, alcune opinioni di uomini di scuola,
o piuttosto di sofisti; proseguirò quindi illustrando quanto,
su questo terra, hanno elaborato i filosofi; infine la dialettica, multiforme
e spinosa, determinerà la conclusione della questione proposta.
Gerberto di Aurillac, Libro sulle ragione e l’uso di ragione,
PL, 139, col. 159.
[1] Trasposizione erudita dalla
etnografia classica (come più avanti la Scizia), per indicare
gli Slavi Liutezi, contro i quali era in corso una campagna nell’estate
997.
[2] Non identificabili con certezza,
anche se si possono congetturare alcuni personaggi di rilievo della
corte ottoniana, tra i quali ad esempio il primo maestro di Ottone,
Bruno, dal 993 vescovo di Hildesheim.
[3] Si tratta della spedizione del 997/998,
effettuata per ricollocare sul soglio pontificio il papa Gregorio V
(996-999), costretto ad abbandonare la città dalla fazione di
Giovanni Crescenzio.
(B) Cristo, accogli le nostre preghiere,
getta uno sguardo alla città di Roma; nella tua bontà
rinnova i Romani, risveglia le forze di Roma; che Roma risusciti sotto
l’impero di Ottone III. [Ritornello, torna dopo ogni strofa].
Nostro papa, noi ti salutiamo: salve, stimatissimo Gregorio; con Ottone
Augusto il tuo apostolo Pietro ti ha accolto [1];
umiliati, tu che ti innalzi a vertici sublimi.
Uscendo dalla casa della sposa, ecco che come sposo vi ritorni [2];
riprendi i doni del tuo venerabile padre […].
Tu sei Pietro e tu detti le lodi di Pietro; tu rinnovi i diritti di
Roma; a Roma reinstauri Roma, perché Ottone possa divenire la
gloria dell’impero.
Che Ottone abbia successo in ogni cosa; che sempre prosperi lui che
ti ha rapito alla Gallia [3]
e ti ha condotto a Roma; Dio ti ha fatto grande ed ha innalzato la tua
destra.
Nelle chiese, nei santi misteri, tu sei la bocca; tu sei il maestro
e il legame del popolo; tu giudichi le cause diverse e liberi le anime
prigioniere.
Di te prende cura attenta e vigile Ottone; poiché secondo
l’apostolo a lui sono affidati i corpi; per punire i peccatori porta
un gladio invincibile.
L’antica sede di Antiochia ti venera; l’antica Alessandria a te corre
ansiosa; tutte le chiese del mondo seguono la tua scia [4].
La Babilonia di ferro e l’aurea Grecia temono il grande Ottone e lo
servono chinando la schiena; comanda al mondo intero colui che il Re
dei re rende libero.
Gioisci, nobile papa, tu glorifichi il primo soglio, Roma, con la
maestà del tuo nome e tu innalzi il secondo, Ravenna: la tua
saggezza risplende nella destra di Gerberto [5].
Gioisci o papa, gioisci o Cesare, che la Chiesa esulti d’allegrezza;
che la letizia in Roma sia grande, che gioisca la corte imperiale. Sotto
la possanza di Cesare, il Papa riforma il mondo.
O voi, che siete due astri, attraverso lo spazio delle terre fate
luce alle chiese e fugate le tenebre. Che l’uno abbia vigore con la
spada e che l’altro faccia risuonare la sua parola.
Signore e papa, rialza ciò che è a terra e considera il dono
di Dio; Dio ti ha fatto grande e l’aiuto di Pietro è il tuo sostegno;
ti sovvenga dei tuoi e della tua gloria.
Leone da Vercelli, Versi su Gregorio papa e Ottone Augusto,
pp. 200-201.
[1] Bruno di Carinzia, parente
di Ottone, era diventato papa nel 996, per volontà del sovrano
col nome di Gregorio V.
[2] Si allude al rientro a Roma
del 998 [cfr. sopra, (A), n. 3].
[3] La Germania, identificata
con la Gallia per l’identificazione dei Tedeschi con i Franchi.
[4] In Francia pochi anni prima
(991) si era messo in discussione che Roma date le sue condizioni
di degrado potesse ancora esercitare una supremazia sui patriarcati
d’Oriente. Questi versi costituiscono forse una replica a quei dubbi.
[5] Gerberto d’Aurillac era stato eletto
vescovo di Ravenna nel 998.
(C) Ottone, servo degli apostoli e,
secondo la volontà di Dio salvatore, imperatore Augusto dei Romani.
Noi proclamiamo Roma capitale del mondo, riconosciamo che la Chiesa
romana è la madre di tutte le Chiese, ma anche che per la trascuranza
e l’incapacità dei suoi pontefici, da tempo ha appannato i titoli
del suo splendore. Infatti essi, non solamente hanno venduto ed hanno
distratto con certi sistemi sbrigativi dal patrimonio di San Pietro
possessi che erano fuori della città, ma e non l’affermiamo
senza dolore pure dei beni che possedevano nella stessa città
regia, incorrendo in una irregolarità maggiore, a prezzo di incanto
li diedero alla comunità; e spogliarono San Pietro, San Paolo,
i loro stessi altari, ed al posto di una riparazione, seminarono sempre
confusione. Sconvolte le leggi papali e ormai ridotta all’abiezione
la Chiesa romana, certi papi si spinsero al punto da annettere la maggior
parte del nostro Impero alla loro potestà apostolica: oramai
non domandandosi quali e quanti beni avevan perduto per loro colpa,
né dandosi pensiero di quel che la vanità personale faceva
loro dissipare, ma trascurando i loro propri beni in quanto da essi
stessi dilapidati, quasi facendo ricadere la loro propria colpa sul
nostro Impero, si volsero soprattutto alle cose altrui, e precisamente
alle nostre ed a quelle del nostro Impero. Tali sono infatti i testi
da loro stessi inventati, mediante i quali il diacono Giovanni, soprannominato
“mutilo”, ha redatto in lettere d’oro un decreto ch’egli
ha attribuito in modo menzognero a tempo lontano ponendolo sotto il
nome di Costantino Magno [1].
Tali sono anche i testi coi quali vorrebbero provare che un certo Carlo
ha dato a san Pietro dei nostri pubblici beni [2].
Alla quale cosa noi rispondiamo che quel Carlo non poteva giuridicamente
donare nulla, poiché, messo in fuga da un Carlo migliore [3],
era oramai privato e spogliato dell’impero, in autorità ridotta
a nulla, egli ha pertanto dato cosa che non gli apparteneva; ha dato
come invero poteva dare, cioè se non come uno che aveva mal acquistato
e non sperava di conservare a lungo. Rigettati, di conseguenza, questi
falsi decreti e queste scritture fittizie, noi doniamo, in virtù della
nostra liberalità, a San Pietro dei beni che sono nostri; non
conferiamo, a lui dei beni che gli appartengono come se fossero di nostra
pertinenza. Alla stessa maniera che, per l’amore di San Pietro, noi
abbiamo eletto papa il Signor Silvestro, nostro maestro, e a Dio piacendo,
l’abbiamo ordinato e creato [pontefice] serenissimo; allo stesso modo,
per amore di papa Silvestro, noi offriamo a San Pietro dei doni del
nostro pubblico dominio, affinché il maestro abbia cosa da offrire
al nostro principe Pietro da parte del suo discepolo. Noi offriamo dunque
e doniamo a San Pietro otto contee, per amore del nostro maestro papa
Silvestro, affinché egli le tenga per onore di Dio e di San Pietro,
per la sua salute e per la nostra, e le amministri per la prosperità
del suo apostolato e per quella del nostro Impero. E da amministrare
gli concediamo Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, Fossombrone, Cagli,
Iesi, Osimo [4], così
che nessuno osi inquietare san Pietro o in qualche modo dargli fastidio.
E chi presumerà farlo, perda tutto quello che possiede e San
Pietro abbia le cose sue. E perché ciò sia osservato da
tutti per sempre, abbiamo confermato questo nostro decreto con la nostra
mano che sia a lungo, con l’aiuto di Dio, vittoriosa, ed abbiamo ordinato
di insignirlo del nostro sigillo, perché valga per lui e per
i suoi successori. Segno del Signor Ottone invittissimo imperatore dei
Romani, augusto.
Ottone III, Diplomi, DRG 2/2, n. 388 (1001).
[1] Il Constitutum Constantini,
redatto probabilmente a Roma durante il pontificato di Paolo I (757-767)
era conosciuto da Ottone III nella copia fattane da Giovanni dalle dita
mozze, cui viene qui attribuita la paternità del Constitutum.
[2] Si riferisce al patto di
Carlo il Calvo [cfr. sopra, introduzione a questo paragrafo].
[3] Carlomanno, figlio di Ludovico
il Germanico, con la sua discesa in Italia mise in fuga l’imperatore
Carlo il Calvo (877), ma la sua impresa non ebbe esito perché
cadde malato, morendo nell’880.
[4] Nella Pentapoli.
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