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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


III
Bisanzio
L'Impero greco medievale

4. La Megalopolis
(A) Liutprando, Antapodosis, 5, 8, 9, 10.
(B) Continuatore di Teofane, pp. 50 e 53-55.

II quadro che il vescovo Liutprando di Cremona fa di Bisanzio è tanto più significativo in quanto esso esprime il punto di vista di un provinciale, per di più culturalmente ostile ai Greci. Esponente del “partito” ottoniano, Liutprando non può però fare a meno di subire il fascino di Costantinopoli-Bisanzio, della Megalopolis, l'autentica capitale del mondo quanto a fasto, prestigio, ricchezza, la città contro le cui mura ormai da secoli si frangevano le onde delle incursioni di sempre nuove orde barbariche, attratte dal miraggio della sua ricchezza e potenza [cfr. anche vol. I cap. 4, 2]. A Bisanzio sorgeva lo splendido e favoloso complesso dei palazzi imperiali, dove Liutprando, ambasciatore di Berengario II, si aggirò intimorito (anche se, nel suo orgoglio, mai l'avrebbe ammesso apertamente), partecipando a banchetti, assistendo a cerimonie e spettacoli per lui strani ed esotici, assistendo alla vita di una corte segnata da un profondo formalismo, di tipo orientale. In quei luoghi avvenivano fatti misteriosi, la cui eco andò a costruire la sinistra fama della vita politica della Bisanzio medievale. Liutprando racconta (B) le circostanze della deposizione di Romano Lecapeno – grande imperatore, vittorioso in guerra e riformatore all'interno [cfr. paragrafo successivo] – da parte dei due figli Stefano e Costantino (944), a loro volta sbalzati dal trono dal legittimo imperatore, genero di Romano, Costantino VII “Porfirogenito”.


(A) Vi è a Costantinopoli una casa, contigua al palazzo, di meravigliosa grandezza e bellezza, che dai Greci è detta Magnaura, quasi grande aura, con la “v” posta al luogo del “digamma”. Costantino fece così preparare questa casa sia per i messi degli Ispani, che allora erano appena arrivati, sia per me e Liutifredo. Innanzi al sedile dell'imperatore stava un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli ugualmente di bronzo e dorati di diverso genere, che secondo le loro specie emettevano i versi dei vari uccelli. II trono dell'imperatore era disposto con una tale arte, che in un momento appariva al suolo, ora più in alto e subito dopo ancora più in alto , e lo custodivano, per dir così, dei leoni di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d'oro, i quali, percuotendo la terra con la coda, aperta la bocca emettevano il ruggito con le mobili lingue. In questa casa dunque fui portato alla presenza dell'imperatore sulle spalle di due eunuchi. E sebbene al mio arrivo i leoni emettessero un ruggito, e gli uccelli strepitassero secondo le loro specie, non fui commosso né da paura, né da meraviglia, poiché di tutte queste cose ero stato informato da chi le conosceva bene. Chinatomi prono per tre volte adorando l'imperatore alzai il capo e quello, che avevo visto prima seduto, elevato da terra in moderata misura, lo vidi poi rivestito di altre vesti seduto presso il soffitto della casa; come ciò avvenisse non lo potei pensare, se non forse perché era stato sollevato fin là da un ergálion [1], con cui si sollevano gli alberi dei torchi. Allora non disse nulla di sua bocca, giacché, anche se lo volesse, la grandissima distanza lo renderebbe sconveniente, ma per mezzo del logoteta mi domandò della vita e della salute di Berengario. Avendogli risposto conseguentemente, ad un cenno dell'interprete uscii e mi ritirai subito nell'ostello concessomi.
Vi è una casa presso l'ippodromo rivolta a nord di meravigliosa altezza e bellezza, che si chiama Dekaenneakubita, nome che ha preso non dalla realtà, ma per cause apparenti; deka in greco è dieci in latino, ennéa è nove, kubita poi possiamo dire le cose inclinate o curvate dal verbo cubare. E questo pertanto, perché nella natività secondo la carne del signor nostro Gesù Cristo vengono apparecchiate diciannove mense. A queste l'imperatore e i convitati banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma sdraiati; in quei giorni si serve non con vasellame d'argento, ma solo d'oro. Dopo il cibo sono recati dei pomi in tre vasi d'oro che, per l'enorme peso, non sono portati dalle mani degli uomini, ma da veicoli coperti di porpora. Due vengono posti sulla mensa in questo modo. Attraverso fori del soffitto tre funi ricoperte di peli dorate sono calate con anelli d'oro che, posti alle anse che sporgono nei vassoi, con l'aiuto in basso di quattro o più uomini, vengono sollevati sopra la mensa per mezzo di un ergálion girevole, che è sopra il soffitto, e allo stesso modo vengono deposti. Tralascio di scrivere, che sarebbe troppo lungo, i giochi che ho visto lì; uno solo non mi increscerà d'inserire qui per la meraviglia. Venne un tale che portava sulla fronte senza aiuto delle mani un palo lungo ventiquattro piedi o più, che aveva un altro legno di due cubiti per traverso ad un cubito più in basso dalla sommità. Furono introdotti due fanciulli nudi, ma “campestrati”, cioè con un cinto, i quali salirono sulla pertica, vi fecero evoluzioni e discesero poi a capo in giù, mantenendola immobile come se fosse infitta al suolo con le radici. Quindi, dopo la discesa di uno, l'altro, che era rimasto e lassù aveva fatto giochi da solo, mi rese attonito per ancor più grande meraviglia. In ogni modo, finché entrambi avevano giocato, sembrava cosa possibile, perché, sebbene in modo mirabile, governavano con un peso uguale la pertica su cui erano saliti. Ma quel solo che rimase sulla sommità della pertica, poiché seppe equilibrare il peso così bene da giocare e discendere indenne, mi rese così stupefatto che la mia meraviglia non passò inosservata anche all'imperatore in persona.
Nella settimana prima del baiophóron, che noi chiamiamo i rami delle palme, l'imperatore fa l'erogazione di monete d'oro sia ai militari, sia a quelli preposti ai vari uffici, a seconda del merito di ciascun ufficio [2]. E poiché volle che io partecipassi all'erogazione, mi ordinò di venire. Fu una cosa di tal genere. Era stata posta una mensa di dieci cubiti di lunghezza e quattro di larghezza, che aveva le monete poste in scatolette, secondo quello che era dovuto a ciascuno, col numero scritto all'esterno delle medesime. Entravano alla presenza dell'imperatore non alla rinfusa, ma in ordine secondo la chiamata di colui che recitava i nomi scritti degli uomini secondo la dignità dell'ufficio. Fra questi è chiamato per primo il rettore della casa, al quale vengono posti non nelle mani ma sugli omeri le monete con quattro scaramangi [3]. Dopo di lui ho domestikòs tes askalónes e ho deloggares tes ploôs, dei quali il primo è il capo dei soldati, l'altro della flotta.
Questi, siccome la dignità è pari, ricevono monete e mantelli in pari numero e, per la gran quantità, non li portarono già sugli omeri, ma se li trascinarono dietro a fatica con l'aiuto di altri. Dopo questi furono ammessi i magistri nel numero di ventiquattro, ai quali furono erogate libbre di monete d'oro, a ciascuno secondo lo stesso numero ventiquattro, con due mantelli. Dopo questi seguì l'ordine dei patrizi, che ricevettero in dono dodici libbre di monete con un mantello. Non so il numero dei patrizi né quello delle libbre, ma soltanto ciò che era dato a ciascuno. Dopo queste cose vien chiamata una turba immensa, dei protospathari, degli spathari, degli spatharokandidati, dei kitoniti, dei manglaviti, dei protokarabi, dei quali uno aveva preso sette libbre, altri sei, cinque, quattro, tre, due, una libbra, secondo il grado di dignità. Non vorrei tu credessi che questa cosa si sia compiuta in un sol giorno. Si cominciò il giovedì dall'ora prima del giorno fino all'ora quarta del venerdì e al sabato fu terminata dall'imperatore. A quelli che prendono meno di una libbra, non già l'imperatore ma il parakoimómenos distribuisce per tutta la settimana che precede la Pasqua.

Liutprando, Antapodosis, 5, 8, 9, 10.

[1] Argano.
[2] Tra il 24 e il 30 marzo 950.
[3] Mantelli.


(B) Il palazzo di Costantinopoli eccelle non solo per bellezza, ma anche per solidità tra tutte le fortezze che abbia mai visto, perché è custodito anche da un grandissimo presidio di soldati in continuazione. È d'uso che esso dopo il crepuscolo mattinale sia aperto a tutti; ma dopo l'ora terza, mandati fuori tutti ad un segnale dato, che è il mìns, e fino all'ora nona, si impedisce ad ognuno l'entrata. In esso dunque Romano viveva eis tò chrysotríklinon, cioè nel triclinio aureo che è la parte più nobile, e aveva distribuito le altre parti al genero Costantino ed ai suoi figli Stefano e Costantino. Questi due poi, come ho già detto, non sopportando la giusta severità del padre, radunarono molti soldati nelle loro stanze e fissarono il giorno in cui poter detronizzare il padre e regnare essi soli. Giunto il giorno desiderato, usciti tutti dal palazzo secondo l'usanza, Stefano e Costantino tendono l'insidia, assalgono il padre e lo scacciano dal palazzo, senza che i cittadini lo sappiano, e lo inviano ad un'isola vicina, in cui una moltitudine di cenobiti filosofavano, a filosofare anche lui, dopo avergli tosato il capo secondo la regola. Subito sorge un rumore di molte dicerie che si diffondono fra il popolo di Costantinopoli: alcuni gridavano che Romano era stato espulso, altri che Costantino suo genero [1] era stato ucciso. E senza indugio tutto il popolo accorre a palazzo. Non si chiede di Romano, imperatore per così dire abusivo, ma si domanda da parte di tutti se Costantino sopravvive. E poiché si stava facendo un gran tumulto per la ricerca in favore di Costantino, su preghiera di Stefano e Costantino, da quella parte in cui si stende la grandezza dello Zucanistrio, Costantino coi capelli sciolti mostrò la testa attraverso i cancelli e mostrandosi sedò subito il tumulto del popolo e convinse ciascuno a tornarsene a casa sua. Questo fatto arrecò gran dolore ai due fratelli. “Che giovò, dicono, una volta costretto il padre ad abdicare, subire ora un altro signore che non è padre? Sopporteremmo infatti più tollerabilmente e decorosamente la dominazione paterna che non una estranea. Che significa il fatto che in aiuto di costui vennero non solo le sue genti, ma anche gli stranieri? Infatti il vescovo Sigifredo, messo di re Ugo, prendendo con sé le genti della sua lingua, cioè gli Amalfitani, i Romani, i Gaetani, è stato per noi di rovina, per costui di difesa”.
Dette tali cose, riempiono le stanze di schiere di armati, come già per loro padre. A queste era a capo Diavolino, che era stato l'istigatore di tutte queste cose e poco dopo ne fu il traditore. Infatti a Costantino, che stava curvo sui libri, così si rivolse: “Quali danni ti vengano preparati da Stefano e Costantino tuoi fratelli, anzi tuoi nemici, lo ignora codesto tuo sentimento religioso, che in te rimane inveterato. Se infatti conoscessi gli infortuni che ti sono preparati penseresti a come poter sopravvivere. Stefano e Costantino, fratelli di tua moglie, radunate schiere di armati e racchiusele già nelle stanze, meditano non di scacciarti dal palazzo, come loro padre, ma di ucciderti qui. L'occasione della tua morte sarà questa: fra tre giorni Stefano e Costantino ti inviteranno a cena. Quando tenterai di ottenere per l'eccellenza tua il posto a sedere in mezzo, come è costume, battuto lo scudo, salteranno fuori quelli racchiusi nella stanza e porranno termine alla tua vita con spargimento di sangue.
Udito ciò Costantino disse: “Orsù, come hai rivelato la perfidia dei congiurati, dammi un parere per cui io possa debellarla”. […]
E a lui Diavolino: “Non ti è ignoto che i Macedoni ti sono tanto devoti quanto duri in guerra; mandali dunque e riempine le tue stanze all'insaputa di Stefano e Costantino. E quando sarà venuto il giorno stabilito per il banchetto e sarà scoppiato il litigio per la precedenza del posto a sedere, dato il segnale, come ti ho già detto, con la percussione dello scudo, mentre la schiera dei loro armati non potrà essere loro di difesa, i tuoi saltino fuori all'improvviso e li catturino, con tanto maggior agio quanto più agiranno contro aspettativa, e li inviino a filosofare, dopo la rituale tonsura dei capelli, nel vicino monastero, cui avevano diretto il loro padre e tuo suocero”. […]
Stabilito infatti il giorno, mentre, simulando pace, i fratelli Stefano e Costantino invitavano questo Costantino al banchetto e insorgeva un tumulto per la questione della precedenza a sedere, percosso lo scudo, come è stato detto, i Macedoni prorompono all'improvviso e, presi in fretta i fratelli Stefano e Costantino, tosano loro il capo e li mandano a filosofare all'isola vicina, cui avevano inviato il padre [2].

Liutprando, Antapodosis, V, 21-22.

[1] Costantino VII.
[2] Gennaio 945.

 

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