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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


IV
I Regni normanni
Sicilia e Inghilterra

6. Ruggero II, un sovrano mediterraneo
(A) Ruggero I, Assise, cc. 3-4, 6-7, 12-13, 17-18, 25, 31, 35 (1140).
(B) Alessandro di Telese, Gesta di Ruggero re di Sicilia, I, Prefazione.
(C) Falcone Beneventano, Cronaca, anno 1139.
(D) Romualdo Salernitano, Cronaca, RIS2 7/1, pp. 232 sgg.

Le assise siciliane di Ruggero II, tradizionalmente riferite al 1140, ad un'assemblea ad Ariano Irpino, sono un documento imponente dello sforzo organizzativo del sovrano, una volta uscito dal tunnel della guerra civile e dell'invasione straniera (A). Si tratta di leggi che adoperano sia il diritto romano sia quello feudale ai fini della costruzione di un governo centrale forte ed autorevole (si vedano per esempio le norme contro i delitti di lesa maestà); il tutto all'interno di una prassi che utilizzava pure, con saggia mescolanza, la sapienza burocratico-amministrativa araba e bizantina. In Ruggero l'immagine del sovrano-legislatore si sovrappone, senza cancellarlo, a quella del guerriero spietato, che impiega la violenza e il terrore come mezzi per imporsi sui suoi riottosi sudditi continentali: terrore giusto e necessario per Alessandro di Telese (B), violenza orrenda per Falcone Beneventano, oppositore di Ruggero (C). Più tardi, sotto la penna di Romualdo Salernitano, arcivescovo di quella città e medico di Gulielmo I (erede di Ruggero), prenderà forma il mito del colto sovrano mediterraneo (D), amante del bello, pio ma al tempo stesso aperto agli influssi di quelle tre grandi civiltà (bizantina, araba ed ebraica) che – aggiungendosi a quella europea occidentale – creavano l'inconfondibile ricchezza cosmopolita della corte siciliana.


(A) Proemio. È degno e necessario, signori, che noi, che niente presumiamo di noi stessi e dello stato di tutto il nostro regno, avendolo ricevuto come una grazia ottenuta dalla larghezza di Dio, contraccambiamo i benefici divini con tutto l'ossequio di cui siamo capaci, per non essere sconoscenti a tanta grazia. Se dunque per sua misericordia Iddio pietoso, prostrati i nemici, ci restituì la pace e restaurò l'integrità del regno in gratissima tranquillità nel mondano come nello spirituale, noi ci sentiamo obbligati a restaurare le vie della giustizia e della pietà là dove vediamo che esse sono straordinariamente sconvolte. Ricevemmo infatti quest'ispirazione come dono dello stesso Benefattore che dice: “Per me regnano i re e i fondatori della legge impartiscono la giustizia”. Non crediamo infatti che vi sia cosa più gradita a Dio dell'offrirgli in semplicità ciò che sappiamo essere la sua stessa essenza, cioè misericordia e giustizia. In tale offerta l'ufficio del regno rivendica per sé qualcosa del privilegio sacerdotale. Per cui un famoso sapiente esperto di legge chiama gli interpreti del diritto “sacerdoti del diritto” [1]. Giustamente noi dunque, che per sua grazia teniamo autorità del diritto e delle leggi, dobbiamo in parte ricondurle a miglior stato, in parte riformarle; e poiché abbiamo ottenuto la sua misericordia dobbiamo in ogni occasione applicarle più misericordiosamente, interpretarle più benignamente, soprattutto dove la loro severità determina una certa spietatezza. E non arroghiamo questo alle nostre veglie per superbia, quasi che nell'istituire o interpretare le leggi noi siamo più giusti o più moderati dei nostri predecessori; ma poiché commettiamo molti delitti, e molto siamo proclivi a delinquere, riteniamo doveroso indulgere ai delinquenti con quella moderazione che è adatta al nostro tempo. Così ci ha insegnato la Pietà stessa, dicendo: “Siate misericordiosi come anche il padre vostro è misericordioso”; e il re e profeta: “Tutte le vie del Signore sono misericordia e verità”; e noi crediamo senza dubbio che sarà senza misericordia il giudizio di chi avrà giudicato senza misericordia. Perciò vogliamo e ordiniamo che accogliate con fedeltà e zelo le disposizioni da noi promulgate o composte che ora facciamo pubblicare nella presente raccolta.
3. Esortiamo principi, conti, baroni maggiori e minori, arcivescovi, vescovi, abati, e chiunque abbia soggetti cittadini, borghesi, rustici o gente di qualunque condizione, a trattarli umanamente, mettere in pratica la misericordia, soprattutto quando debbono chiedere a coloro che hanno soggetti l'aiuto dovuto, [in misura] opportuna e moderata: suscitano allora gradimento in Dio e massima gioia in noi, al cui potere e governo la disposizione divina sottomise tanto i signori che i soggetti. E se ciò verrà trascurato, toccherà alla nostra sollecitudine correggere in meglio il mal fatto.
4. Vogliamo che i nostri principi, conti, baroni tutti, arcivescovi, vescovi, abati sappiano che chiunque tiene parte grande o piccola dei nostri beni regali, non può in nessun modo o con nessun espediente alienare, donare o vendere cosa alcuna che faccia parte di essi, né menomarla in tutto o in parte, causando diminuzione, dissesto o detrimento per la condizione dei beni regali.
6. Con la presente legge, che con l'aiuto di Dio varrà in perpetuo in ogni parte del nostro regno, stabiliamo che nessun rifugiato, quale che sia la sua condizione, sia espulso o tratto a forza dalle santissime chiese; né venga preteso quel che essi dovevano dai venerabili vescovi o dagli economi, essendo punito con pena di morte o perdita di tutti i beni chi si azzardasse a tentarlo o a farlo. Intanto non si neghi il vitto ai rifugiati. Peraltro se un servo o un colono o un servo della gleba si sottraesse al padrone o riparasse in luogo sacro avendo rubato, sia consegnato al padrone con le cose che ha portato con sé, perché subisca punizione secondo la natura del misfatto, o, previa intercessione, venga accolto in pietà e grazia. Infatti a nessuno dev'essere sottratto quanto gli spetta per diritto.
7. Se per temerarietà di qualcuno verranno violati o conculcati perfidamente i privilegi di qualche venerabile chiesa, la chiesa stessa sia indennizzata del misfatto in proporzione al danno; e se non avrà abbastanza per la multa cui verrà condannato, sia deferito al giudizio del re o alla discrezione degli ufficiali. Comunque dovrà soggiacere alla clemenza regia o alla discrezione degli ufficiali, secondo la natura del misfatto.
12. Giudei e pagani non ardiscano vendere o comprare servi cristiani, né possederli ad alcun titolo, né trattenerli in pegno; se lo oseranno, siano confiscati tutti i loro beni e divengano servi alla Curia. E se eventualmente con nefanda audacia o con la persuasione li faranno circoncidere o rinnegare la fede, siano puniti di pena capitale.
13. Profondamente esecriamo gli apostati della fede cattolica, li perseguitiamo coi castighi; li spogliamo di tutti i beni; coartiamo con le leggi, priviamo della successione, escludiamo da ogni legittimo diritto chi fa naufragare la propria professione o voto.
17. Non è lecito discutere su giudizio, consigli, disposizioni, fatti del re; è infatti equivalente a sacrilegio discutere sui suoi giudizi, disposizioni, fatti e consigli e se sia degno quegli che il re sceglie e designa. Molte leggi punirono con grande severità i sacrileghi, ma la pena va moderata a discrezione del giudice, a meno che non siano state infrante con la violenza le opere dei templi di Dio o non siano stati asportati nottetempo offerte e vasellame sacro. In questo caso [il reato] è capitale.
18. Chiunque organizzi con una o più persone, o anche privatamente, un'infame congiura o dia e riceve giuramento di congiura e mediti e trami l'assassinio delle illustri persone che partecipano ai nostri consigli e al nostro concistoro, vuole il diritto che [in lui] l'intenzione del delitto sia punita con la stessa severità dell'attuazione; egli sia dunque ucciso di spada come reo di maestà e tutti i suoi beni devoluti al Fisco. I suoi figli non ricevano mai beneficio alcuno né dalla nostra benevolenza né in forza del diritto. Gli sia conforto la morte, supplizio la vita. Ma se qualcuno dei congiurati rivelerà tempestivamente il fatto segua teste venia e grazia.
Il delitto di lesa maestà è investigato e perseguito anche dopo la morte del reo; la memoria del reo è dannata, sicché non ha valore alcuno ciò che ha concordato, fatto e stabilito dal giorno del delitto, ma tutti i suoi averi sono legalmente rivendicati al fisco. Chi discolperà di tale reato un parente potrà ottenere la sua eredità.
In questo crimine ricadono tutti coloro per cui consiglio fuggono gli ostaggi, si armano le cittadinanze, si apprestano sedizioni, si levano tumulti, si uccidono i magistrati, si abbandona l'esercito, si passa al nemico, si tradisce il compagno, con frode maligna si disgrega un cuneo [2], si cede in guerra, si abbandona una rocca, si nega aiuto ai compagni e altre cose del genere, come spiare, comunicare, rivelare il consiglio del re e dare ospitalità e consapevolmente fornir guida ai nemici del regno.
25. La qualità delle persone aggrava od allevia la pena per il falso. Gli ufficiali pubblici ed i giudici che durante la loro amministrazione sottrassero denaro pubblico, paghino con la vita il colpevole crimine del peculato, se non si muoverà a compassione di loro la pietà regia.
31. Se la provvidenza del fastigio regale non soffre assolutamente che entro i confini del nostro regno uno dei nostri baroni invada il castello di un altro, faccia preda, insorga in armi o frodi iniquamente, senza che per il suo misfatto lo colpisce la perdita di tutti i beni, quanto maggiormente non considereremo degno di condanna, se oserà violare il talamo di un compare o di un vicino? Decretiamo pertanto che se mai ci verrà riferito un tal fatto, e sarà manifesto o provato, [il reo] debba esser colpito con la perdita di tutti i beni. Se un marito sorprenderà la moglie in flagrante adulterio, potrà uccidere sia la moglie che l'adultero, purché non frapponga indugio.
35. Badino con la massima attenzione i giudici a tener conto della dignità delle persone nei dibattimenti sulle ingiurie ai curiali; ed emettano la sentenza secondo la qualità delle persone, cioè di quelli cui l'ingiuria fu fatta e di quelli che la fanno, e di quando e dove l'offesa avvenne, ed emettano la sentenza secondo la qualità delle persone; giacché l'ingiuria arrecata a questi non riguarda soltanto loro, ma offende anche la dignità regale.

Ruggero I, Assise, cc. 3-4, 6-7, 12-13, 17-18, 25, 31, 35 (1140).

[1] Digesto, I, 1, 1, 1.
[2] Formazione militare in combattimento.


(B) Ora dunque si intraprendano a scrivere a perpetua memoria le gesta di questo re; nel nostro volume si mostrerà toccando solo le cose più notevoli, dapprima quali fatti abbia compiuto da piccolo; poi come sia stato elevato all'onore della contea di Sicilia; poi al fastigio del ducato ed infine alla dignità regale; e ancora come si sia distinto nel mondo per la potenza e come, logorando con grande terrore tutte le province della Sicilia fino a Roma, le abbia finalmente a sé sottomesse [1]. E sebbene nel conquistare tante regioni il suo eccellentissimo valore intendesse alla propria soddisfazione, pure era l'iniquità troppo diffusa in esse che per occulto giudizio di Dio doveva essere abbattuta dal flagello di costui, in modo da trovare un termine. E infatti, come già in passato, disponendolo o consentendolo Dio stesso, l'imperatore nequizia dei Longobardi dovette essere schiacciata dalla violenza dei sopraggiunti Normanni, così ora è certo che a Ruggero fu imposto o permesso dal cielo di reprimere con la sua spada l'immensa malizia di queste regioni. Quali mali non venivano commessi in esse? Deposto ogni timore, non si cessava di far strage d'uomini; furti, rapine, sacrilegi, adulteri, spergiuri, oppressione di chiese e monasteri, irrisione degli uomini di Dio. Perfino i pellegrini in viaggio per amore di Dio venivano depredati o uccisi nei luoghi deserti, per prendere le loro cose. E perciò Dio, grandemente offeso da questi misfatti, estrasse Ruggero dalla vagina della Sicilia, e tenendolo in pugno come una spada acuminata, con lui colpì e represse gli autori di tali iniquità, acciocché, disfatti dal terrore, quelli che a lungo aveva sopportati incorreggibili fossero riportati sulla via della giustizia.

Alessandro di Telese, Gesta di Ruggero re di Sicilia, I, Prefazione.

[1] Il riferimento è agli anni difficili seguiti all'incoronazione del 1130, quando tutto il sud continentale era in rivolta contro Ruggero.


(C) Successivamente il predetto re [1], spostando l'esercito, si recò a Troia ed assoggettò la città al suo volere. Il vescovo di Troia, chiamato Guglielmo, ed i cittadini gli mandarono messaggeri perché entrasse in città e si trattenesse in dignità e sicurezza tra i suoi fedeli ed amici. Ma il re, ricevendo i messi, “non farò ingresso in città – disse – finché starà tra voi quel traditore di Rainulfo”. E subito gli inviati, tornando in città, rivelano a tutti l'intenzione del re, e i cittadini sebbene oppressi dal dolore per questa sua risposta, dovettero pure ordinare a quattro cavalieri di tirar fuori il cadavere del duca Rainulfo rompendo il sepolcro e portarlo fuori città, in modo che, placatosi il furore del re, egli entrasse fra loro pacificamente. Quelli che avevano chiamato il duca predetto ordinarono ad un tal cavaliere chiamato Gallicano, che in spregio al duca defunto e per suo dolore rompesse il tumulto e di sua mano traesse fuori l'ossa del duca, ancora avvolte di pelle e putredine. Quel Gallicano, costretto dalla paura, per non incorrere nel furore di tanto re, quasi con atteggiamento lieto, ahi dolore!, insieme agli altri trasse fuori le ossa del duca, ridotte come abbiamo detto. Poi quelli che erano stati suoi nemici fecero legare una corda intorno al collo del duca morto e lo trascinarono per le strade fino al castello della città; quindi tornando verso il carbonario [2] fuori città, dov'era uno stagno fangoso e putrido, vi annegarono il cadavere del duca. Ahi misfatto orribile a dirsi! Timore e lutto subito invadono tutta la città, tanto che amici e nemici del duca desideravano la morte. Mi appello al Re eterno, al Giudice dei secoli, un fatto così orrendo non leggemmo che avvenisse mai nelle generazioni passate e neppure nella setta dei pagani. Che giovò al re tanta crudele potenza? Che vittoria, che glorificazione ne ebbe la sua maestà? Ma per placare il furore del suo animo, quel che non poté fare al vivo, lo fece al morto. In realtà, finché il duca predetto era stato in vita, anche se stava con pochi, il re non osava avvicinarsi alle sue schiere, neanche in compagnia di diecimila guerrieri. E perciò volle almeno un poco alleviare la rabbia del suo cuore.

Falcone Beneventano, Cronaca, anno 1139.

[1] Ruggero II.
[2] Scarico di rifiuti.


(D) Intanto re Ruggero, che non conobbe mai ozio né in pace né in guerra, sottomesso in pace e tranquillità il suo regno, ordinò di costruire a Palermo un palazzo assai bello, in cui fece una cappella rivestita di marmi meravigliosi, che coprì con un soffitto dorato ed arricchì e decorò con vari ornamenti. E perché mai mancassero a sì grand'uomo delizie d'acqua e di terra, fece un bel vivaio nella località detta Favara, scavando e rimovendo molta terra, ed in esso fece mettere pesci di genere diverso, portati da varie regioni. Vicino al vivaio fece inoltre costruire un palazzo assai bello e imponente. Fece anche recingere con un muro di pietra certi monti e serre che stanno presso Palermo, e vi fece allestire un parco ben delizioso ed ameno, popolato e piantato di alberi diversi, facendovi anche rinchiudere daini, caprioli e cinghiali. In questo parco fece anche un palazzo cui fece portare l'acqua per condotti sotterranei da una limpidissima fonte.
Così quest'uomo sapiente e prudente godeva delle predette delizie come chiedeva la natura della stagione. Infatti d'inverno, fino al periodo quaresimale stava nel palazzo della Favara per l'abbondanza dei pesci. D'estate temperava nel parco la vampa del calore estivo e risollevava con moderato esercizio della caccia l'animo affaticato da cure e preoccupazioni.
Sebbene il predetto re si distinguesse per sapienza, genio e grande prudenza, tuttavia faceva partecipare al suo consiglio uomini savi di diversa condizione, attirati dalle diverse parti del mondo. Costituì infatti grande ammiraglio Giorgio, uomo maturo, sapiente, provvido e prudente, venuto da Antiochia, e grazie al consiglio ed alla prudenza di lui conseguì molte vittorie per terra e per mare. Ordinò cancellieri, l'uno dopo l'altro, Guarino e Roberto, chierici letterati e provvidi. E se gli riusciva di trovare uomini retti e sapienti nati nella sua terra o altrove, chierici o laici, ordinava che stessero con lui e li esaltava con onori e ricchezze secondo l'esigenza della condizione di ognuno. Da ultimo fece scriniario, poi vicecancelliere ed infine cancelliere il giovane Maione, nativo di Bari, uomo assai facondo, provvido e prudente. Ordinò novellamente molti conti nel suo regno; fece edificare la città di Cefalù, in cui fece costruire a sue spese una chiesa al Santo Salvatore, molto bella e imponente, cui offrì la città attribuendola al suo servizio. […]
Verso il termine della sua vita, tralasciando un poco gli affari secolari, cercò in tutti i modi di convertire alla fede di Cristo Giudei e Saraceni, e dava in dono ai convertiti molte utili cose. Inoltre al ricordo del suo nome fece porre davanti all'altare del beato Matteo a Salerno, una lastra d'argento fatta a sue spese, ed ogni volta che veniva a Salerno dalla Sicilia aveva l'uso di offrire alla chiesa salernitana uno o due pallii. Ma poiché ai grandissimi è negato di restare a lungo, a causa dei peccati di tutto il suo regno il gloriosissimo re Ruggero dopo tante vittorie e trionfi morì di febbre a Palermo e fu sepolto nell'arcivescovato della città, all'età di 58 anni, due mesi e 5 giorni, il 27 di febbraio del ventiquattresimo anno del suo regno, cioè nell'anno del Signore 1152 [1].
Fu re Ruggero grande di statura, corpulento, leonino il volto, roca la voce; sapiente, provvido, discreto, d'ingegno sottile, grande nel consiglio, propenso più alla ragione che alla forza. Molto sollecito nel guadagnare ricchezze, non troppo largo nello spenderle, fiero in pubblico, benigno in privato, dispensatore di onori e premi ai suoi fedeli, attributore di onta e supplizi agli infedeli. Dai sudditi era più temuto che amato; a Greci e Saraceni incuteva paura e timore.

Romualdo Salernitano, Cronaca, RIS2 7/1, pp. 232 sgg.

[1] La morte di Ruggero in realtà avvenne il 27 febbraio del 1154.

 

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