Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
5. La crociata dei poveri
(A) ALBERTO D'AIX, Storia Gerosolimitana, pp. 272-273. (B) ALBERTO D’AIX, Storia Gerosolimitana, p. 292. (C) SALOMON BEN SAMPSON, La persecuzione contro gli Ebrei di Magonia. (D) GUIBERTO DI NOIGENT, Le imprese compiute da Dio tramite i Franchi, 4-5.
Tra gli eventi che funsero da detonatore all'esplosione della prima crociata,
va senza dubbio annoverata la predicazione di Pietro d'Amiens detto
l'Eremita, iniziata alla fine del 1095. Il suo ruolo è stato esagerato
nelle leggende posteriori formatesi intorno alla sua figura – qui presentiamo
come esempio (A) il racconto della
vocazione di Pietro, opera di Alberto d'Aix (XII secolo) – tuttavia
la sua predicazione contribuì a smuovere masse imponenti di gente, soprattutto
di umile condizione, spingendole ad un pellegrinaggio che era al tempo
stesso una riconquista armata dei Luoghi Santi e un “ritorno”
a Gerusalemme, intesa come la Gerusalemme celeste dell'Apocalisse: verso
la fine, e il rinnovamento, del mondo.
Per prima cosa i pauperes Christi si dettero a massacrare gli
Ebrei lungo le valli del Reno e del Danubio, in Germania – tragico fu
il destino degli Ebrei di Magonza, qui raccontato in due versioni diverse,
cristiana (B) ed ebraica (C)
– ed in Ungheria (dove depredarono pure le popolazioni locali), fino a
suscitare la reazione delle autorità che li attaccarono a loro volta,
li uccisero o, spesso, li costrinsero a tornare in Francia o in Germania.
D'altra parte il destino di quelli fra i pauperes Christi che
riuscirono ad arrivare in Terrasanta fu tragico: al primo scontro furono
fatti a pezzi dai Turchi (D). (A) Un certo sacerdote di
nome Pietro, già eremita, nato in Amiens città dell'occidente nel
regno di Francia, cominciò a predicare con tutte le sue forze il pellegrinaggio
partendo dal Berry, nel medesimo regno. Dietro le sue continue sollecitazioni,
tutti presero lietamente la via indotti dal desiderio di fare penitenza:
vescovi, abati, chierici, monaci, poi nobilissimi laici, principi
di regni diversi, e il popolo tutto, sia puri che impuri, adulteri,
omicidi, ladri, spergiuri, predoni; insomma ogni genere di cristiani,
donne comprese. Con quali intenzioni e in seguito a quale occasione
l'eremita abbia predicato questo pellegrinaggio e l'abbia iniziato
egli stesso, lo diremo subito.
Qualche anno prima dell'inizio del viaggio [1], questo
sacerdote era andato a Gerusalemme per sua devozione, e nell'oratorio
del Sepolcro del signore aveva visto cose illecite e nefande, che
non poteva tollerare: ne fremette di sdegno, e implorò Dio di punire
le scelleratezze di cui era stato testimone. Intanto, scandalizzato
da questi orrori, interrogò il patriarca di Gerusalemme chiedendogli
perché mai si sopportasse che gli infedeli e gli empi profanassero
i santuari asportandone le offerte dei fedeli, si servissero delle
chiese per farne delle stalle, percuotessero i cristiani, pretendessero
a torto del danaro dai santi pellegrini e li angustiassero con ogni
sorta di soperchierie.
Il patriarca e venerabile sacerdote del Sepolcro del Signore, udite
queste cose, rispose piamente con flebile voce: «O tu, il più fedele
dei cristiani, perché tormenti su ciò la paternità nostra dal momento
che le nostre forze non sono da considerare più di quelle d'una formica
di fronte alla superbia di tanti infedeli? La nostra vita, bisogna
riscattarla con tributi contigui se non vogliamo essere messi a morte;
e così speriamo di giorno in giorno di scampare a più gravi pericoli,
a meno che non giungano da parte dei cristiani aiuti, che noi per
tuo tramite imploriamo».
E Pietro gli rispose così: «Padre venerabile, ora ne so abbastanza
e vedo bene quanto deboli siano i cristiani che stanno con te e a
quante prepotenze da parte degli infedeli soggiaciate. Perciò, per
la grazia di Dio, per la vostra liberazione e la preservazione di
ciò che è sacro da ogni ingiuria io, se con l'aiuto divino tornerò
vivo là donde sono venuto, visiterò prima il papa e poi tutti i principi
cristiani – re, duchi, conti e governanti – facendo a tutti presente
lo stato miserabile della vostra schiavitù e le vostre intollerabili
sofferenze […]».
Intanto già calavano le tenebre; e Pietro tornò per pregare al Santo
Sepolcro dove, stanco per le veglie trascorse in orazione, fu colto
dal sonno. Gli apparve allora la maestà del Signore Gesù, e si degnò
di apostrofare così un uomo mortale e fragile: «Pietro, figlio dilettissimo
fra i cristiani! Appena ti sveglierai, tornerai dal mio patriarca
e prenderai da lui una lettera credenziale che ti faccia mio ambasciatore,
sigillata col sigillo della santa croce. Avutala, ti affretterai quanto
più possibile a tornare in patria, dove narrerai le calunnie e le
offese arrecate al mio popolo e ai luoghi santi e inciterai i cuori
dei fedeli a purificare i luoghi santi di Gerusalemme e a ripristinare
le sacre cerimonie. Infatti, attraverso pericoli e tentazioni, le
porte del Paradiso si apriranno ai chiamati e agli eletti».
Dopo questa mirabile rivelazione divina, la visione scomparve e Pietro
si svegliò. Uscì sul far dell'alba dal Tempio, andò dal patriarca,
gli narrò ordinatamente la visione e gli chiese una lettera credenziale
della divina ambasciata col sigillo della santa croce; questi non
gliela ricusò, anzi gliela concesse e lo ringraziò.
Congedatesi, [Pietro] fedele alle istruzioni fece subito volta verso
la patria. Dopo un viaggio per mare assai pericoloso, sbarcò a Bari
e senza indugio proseguì per Roma. Là incontrò il papa e gli riferì
ciò che aveva udito e saputo da Dio e dal patriarca sulle scelleratezze
degli infedeli e sulle ingiurie sofferte dalle cose sacre e dai pellegrini. ALBERTO D'AIX, Storia Gerosolimitana, pp. 272-273. [1] La crociata
(B)
Di là, non so se per giudizio di Dio o per qualche errore del loro
animo, [i crociati] cominciarono ad infierire crudelmente contro gli
Ebrei dispersi in alcune città e ne fecero crudelissima strage, specialmente
in Lorena, asserendo che questo era il modo giusto di cominciare la
spedizione e ciò che i nemici della fede cristiana meritavano.
Questa strage di Ebrei cominciò a opera dei cittadini di Colonia che,
gettatisi d'un tratto su un piccolo gruppo di essi, ne ferirono moltissimi
a morte: poi misero sottosopra case e sinagoghe, dividendosi il bottino.
Vista questa crudeltà circa duecento [Ebrei] di notte, in silenzio,
fuggirono con delle barche a Neuss; ma i pellegrini e i crociati,
imbattutisi in essi, li massacrarono fino all'ultimo e li spogliarono
degli averi.
Poi, senza indugio, [i crociati] si riversarono in «gran folla su
Magonza, come avevano stabilito. Là il conte Emicho [1]
un nobile potentissimo in quella regione, aspettava con una forte
schiera di Tedeschi l'arrivo dei pellegrini che confluivano sulla
via reale da parecchie direzioni. Gli Ebrei di quella città, avendo
saputo della strage dei loro fratelli e comprendendo di non poter
sfuggire a una così forte schiera, si rifugiarono sperando di essere
salvati presso il vescovo Rotardo, e gli affidarono in custodia i
loro enormi tesori e la loro stessa fiducia; speravano molto nella
sua protezione, dal momento ch'egli era il vescovo della città. Il
presule nascose con cura il molto denaro affidatogli e sistemò gli
Ebrei in uno spaziosissimo nascondiglio nella sua stessa dimora, lontano
dal conte Emicho e dai suoi, affinché in quel luogo sicuro restassero
sani e salvi.
Ma Emicho e gli altri, consigliatisi, assalirono sul far dell'alba
gli Ebrei in quel medesimo nascondiglio con lance e frecce. Spezzate
porte e chiavistelli, ne massacrarono circa settecento che cercavano
disperatamente di resistere all'attacco di tante migliaia; uccisero
anche le donne, e passarono a fil di spada perfino i bambini d'ambo
i sessi.
Allora gli Ebrei vedendo che i cristiani non risparmiavano neppure
i piccolini e non avevano pietà per nessuno, si gettarono essi stessi
sui fratelli, sulle donne, sulle madri, sulle sorelle e si uccisero
vicendevolmente. E la cosa più straziante fu che le stesse madri tagliavano
la gola ai figli lattanti oppure li trapassavano, preferendo ch'essi
morissero per loro propria mano piuttosto che uccisi dalle armi degli
incirconcisi. ALBERTO D’AIX, Storia Gerosolimitana, p. 292. [1] Emicho di Leininge.
(C)
Era l'anno 4856, il 1098° del nostro esilio [1],
e proprio a quell'epoca noi speravamo liberazione e conforto, in conformità
con la profezia di Germania. Invece le speranze si mutarono in dolori
e sospiri, in pianti e lamenti; ci colpirono tutte le calamità annunciate
dalle esortazioni; è stata tagliata una riga nella fotocopia
Dapprima apparvero volti arroganti, «gente di strano linguaggio»,
i popoli aspri e violenti delle terre francesi e tedesche. Si erano
messi in mente di recarsi alla città santa, profanata da una nazione
empia, perché volevano rintracciare la tomba del Nazareno, scacciare
gli Ismaeliti [2] che abitano in quella terra e assoggettarla
con la forza al loro dominio. E «innalzarono il loro segnale», attaccarono
alle vesti la croce: uomini e donne, che il cuore spingeva al finto
pellegrinaggio verso la tomba del loro Unto [3];
e via via diventarono più numerosi che le cavallette della terra,
fra uomini, donne e bambini. E quando, durante il viaggio, passavano
per città nelle quali abitavano Ebrei, dicevano: «Ecco! Noi stiamo
andando verso un luogo lontano lontano, per cercare la tomba dell'Unto
e vendicarci degli Ismaeliti, e proprio fra noi ci sono degli Ebrei,
i cui padri lo uccisero, lo crocifissero senza un motivo! Prima vendichiamoci
di loro, cancelliamoli dalla convivenza dei popoli! Il nome di Israele
non sia più ricordato, oppure riconoscano il Nazareno, come facciamo
noi!». All'udire simili discorsi, le comunità ricorsero al comportamento
dei nostri padri: penitenze, preghiere e buone azioni. […] Piansero,
lanciarono un grande grido di dolore; ma il Padre non rispose, non
accolse la loro preghiera, si coprì con una nube, che impedì alla
preghiera di passare. […]
Quando i figli del sacro patto [tra Dio e Israele] videro che la sciagura
era inevitabile [...] accettarono il giudizio del ciclo come giusto,
lo presero sulle loro spalle, e si dissero a vicenda: «Siamo forti.
[…] Per lo spazio di un'ora i nostri nemici ci uccideranno, ci daranno
la morte più facile, quella per spada. Ma le nostre anime vivranno
per sempre, dureranno nel giardino dell'Eden, nella grande, luminosa
visione, per ogni eternità. […] Felice chi è ucciso, chi è trucidato,
chi muore per il nome del Dio unico, perché colui è destinato al mondo
futuro, dimorerà nel gruppo dei giusti. […] E non soltanto questo
avrà; cambierà un mondo di tenebre con un mondo di luce, un mondo
di crucci con un mondo di gioie, un mondo che passa con un mondo che
dura per sempre». Poi tutti gridarono ad una voce, come se fossero
una sola persona: «Non dobbiamo più indugiare, perché i nemici già
ci sono addosso. Facciamo presto, sacrifichiamoci davanti a Dio. Chiunque
ha un coltello, lo esamini, che non sia difettoso; poi venga ad ucciderci,
per santificare il Dio unico, che vive eterno, e poi uccida se stesso,
tagliandosi la gola e conficcandosi la lama nel corpo». SALOMON BEN SAMPSON, La persecuzione contro gli Ebrei di Magonia. [1] Anno 1096.
[2] Cioè gli Arabi, i discendenti di Ismaele,
il figlio di Abramo e della schiava Agar.
[3] Gesù Cristo. (D) Mentre i principi, che erano impoveriti
dalle molte spese e dai grandi servizi di coloro che li seguivano, si
occupavano dei loro preparativi con meticolosità, una folla povera di
ricchezze ma fortissima di numero si unì a un certo Pietro eremita,
e a lui, mentre tra di noi ancora vanno avanti i preparativi, obbedì
come a un maestro. Questi, nato se non sbaglio nella città di Amiens,
che si trova non so in quale parte della Francia del nord, sappiamo
che aveva condotto vita solitaria in abito monastico. Dopodiché, abbandonatola
non sappiamo per quale scopo, lo vedemmo andare in giro per città e
villaggi a predicare, circondato da una così grande moltitudine di popolo,
arricchito di così tanti doni, accompagnato da una tale fama di santità
che non riesco a ricordare nessun altro onorato in questa maniera. E
in effetti era stato generoso con molte elargizioni delle cose che gli
erano date, rendendo donne oneste le prostitute – non senza doni ai
mariti – e restituendo ovunque, con mirabile autorità, pace e alleanze
a coloro che si combattevano. E infatti tutto ciò che faceva o diceva
sembrava quasi qualcosa di semidivino, tanto che gli rubavano anche
i peli del mulo [per tenerseli] come reliquie, ciò che noi riferiamo
non come fatto vero, ma per il popolo amante della novità. Vestiva una
semplice tunica di lana, una cocolla su entrambe le vesti, e sopra un
cappuccio; le braccia erano scoperte, i piedi nudi; mangiava del pane,
a stento pesce, e mai vino.
Quest'uomo dunque, avendo messo insieme un immenso esercito, in parte
per la sua fama e in parte per la sua predicazione, stabilì di passare
per la terra degli Ungheresi. Sebbene queste regioni fossero ricchissime
di tutto ciò che serve per alimentarsi, tuttavia la folla indocile cominciò
a lasciarsi andare a colossali sfrenatezze [che urlarono la mansuetudine]
degli abitanti. […] Non soddisfatti dell'umanità di quelli, con strana
follia gli stranieri cominciarono a conculcare gli indigeni, e sebbene,
come è naturale per cristiani verso altri cristiani, [gli Ungheresi]
dessero con gioia tutto ciò che era necessario per vivere, quelli stessi,
resi impazienti dalla loro avidità, immemori della pia ospitalità e
del bene che avevano ricevuto, li aggredirono senza motivo con atti
di guerra, in quanto pensavano che non avrebbero osato alcun atto contro
di loro, e che sarebbero rimasti totalmente passivi. Quindi, con furia
esecrabile, appiccarono l'incendio ai pubblici […] granai, strappavano
con la violenza la verginità alle fanciulle, disonoravano i matrimoni
con numerosi rapimenti di donne; strappavano o bruciavano la barba ai
loro ospiti, né ormai si preoccupavano di comprare ciò che era di loro
utilità, ma ciascuno di loro si sforzava di compiere rapine e stragi
quanto più poteva, e così promettevano che avrebbero fatto liberamente
contro i Turchi, con eccezionale lascivia.
Nel frattempo incontrarono un castello aperto, il cui transito non poteva
essere in alcun modo evitato, infatti è situato in modo tale che, come
un angiporto, nessuno può deviare a destra o a sinistra. Cominciarono
ad aggredirlo con la solita insolenza, ma, proprio quando erano sul
punto di impadronirsene, improvvisamente, non so per quale motivo, furono
così disfatti che una parte fu uccisa con la spada, una parte annegò
nel fiume, una parte senza alcun guadagno, anzi in grande povertà e
con molta vergogna, tornò esausta in Francia. […].
Pietro per parte sua, sebbene non fosse in grado di controllare quella
folla indisciplinata – come è naturale per schiavi e servitori pubblici
–, con un po' di tedeschi e una residua feccia dei nostri, scampata
da lì con quanta prudenza aveva potuto mettere in campo, arrivò a Costantinopoli
alle kalende di agosto [1]. Ma questo suo arrivo era
stato preceduto da una grande schiera di Italiani, Liguri, Lombardi
e uomini provenienti dalle regioni transalpine, che avevano stabilito
di aspettare la riunione sua e degli altri principi di Francia: infatti
non pensavano di avere forze sufficienti per oltrepassare la provincia
dei Greci e uscire [a scontrarsi] con i Turchi. D'altra parte per ordine
dell'imperatore era stato loro permesso di comprare tutto ciò che era
in vendita in città; solo era stato loro vietato di passare al di là
del braccio di S. Giorgio, che era confinante via mare con le regioni
controllate dai Turchi, perché [l’imperatore] aveva detto che sarebbe
stato un disastro per pochi andare incontro a una moltitudine.
Ma quelli non furono trattenuti né dalla benevolenza degli abitanti
di quella provincia, né affatto blanditi dall'affabilità dell’imperatore,
anzi agivano con eccessiva insolenza, distruggendo gli edifici pubblici
con il fuoco e, scoperchiate le chiese con il tetto di piombo, rivendevano
a pagamento lo stesso piombo ai Greci. L'imperatore, turbato da tanta
orribile presunzione, ordinò che senza por tempo in mezzo passassero
le acque del già ricordato braccio di mare. […]
Raggiunta infine Nicomedia, Italiani, Lombardi e Tedeschi, senza attendere
i Franchi, sono rovinati dalla loro stessa superbia. [...] Creato loro
comandante un certo Rinaldo, entrarono in quella che è detta provincia
di Romania e dopo un viaggio di quattro giorni attaccarono un castello
[…] che, abbandonato dai suoi abitanti, senza indugio si aprì alla
lotta che lo inondava. Gli abitanti infatti, colti dal timore degli
attaccanti, e disperando della loro salvezza, non si erano curati di
trasportare altrove le loro ricchezze, che erano abbondanti, per cui,
trovando lì grande ricchezza di ogni ben di Dio, si rifocillarono pienamente.
Ma i Turchi, vedendo che i cristiani avevano preso il castello, lo cinsero
d'assedio. Davanti alle porte della città c'era un pozzo, e sotto di
esso, non lontano dalle mura, ce n'era un altro, dove, preparato un
tranello, il loro comandante Rinaldo, pensando di essere astuto, attendeva
i Turchi. Senza indugio, quelli che attendeva arrivarono, e, nel giorno
in cui è celebrato il ricordo di S. Michele, sopraffatto il comandante
con i suoi compagni, molti di quelli che erano in agguato sono uccisi
e altri sono costretti disonorevolmente ad entrare al riparo delle difese
del castello. Subito i Turchi lo premettero con assalti così fitti che
li privarono della possibilità di attingere acqua. E ci fu per loro
tanta sete e aridità che, fatto un salasso ai loro cavalli ed asini,
furono costretti a bere il sangue degli animali. Alcuni, mettendo cinture
e panni nei serbatoi, e premendoli poi sulla bocca, credevano di trovare
così un rimedio. Altri, cosa orribile a dirsi, bevevano la loro stessa
orina. Altri scavavano, e si immergevano entro ciò che avevano scavato
[…]. Ma non mancò la consolazione dei vescovi e dei preti lì presenti,
che pure soffrivano anch'essi, e che, quanto più vedevano che i pericoli
erano atroci e gli aiuti umani erano negati, tanto più si affannavano
a promettere loro, affinché non cedessero, gli aiuti celesti.
Questa loro sofferenza durò otto giorni. Ma mentre tutti insieme sembravano
allo stesso modo soggiacere alla miseria, non tutti ugualmente aspiravano
alla misericordia di Dio. Infatti Rinaldo, che li aveva comandati quando
le cose andavano bene, di nascosto si accorda con i Turchi, con il patto
che gli avrebbe consegnato tutta la forza militare che comandava. Esce
pertanto contro di loro come se dovesse combattere; ma grazie a questo
attacco simulato si rifugia con molti dei suoi dagli stessi [nemici],
per rimanervi per sempre. Per gli altri è la prigionia. Ad alcuni di
quelli che furono presi si rimproverò la loro fede, ordinando loro di
negare Cristo; ma a quelli, che con l'animo e la voce dicevano il loro
amore impossibile per Cristo, dovettero essere tagliate le teste.
Ad altri prigionieri, cui fu concesso di vivere, fu peggio che se fossero
morti, perché li divisero fra loro con violenza, per compiere funesti
servizi sotto crudeli padroni. […]
Quel Pietro, intanto, del quale sopra abbiamo parlato, molto afflitto
dalla pazzia dei suoi seguaci, e confuso per l'immensa strage, aveva
infine affidato il comando della sua gente a un uomo originario della
regioni al di là della Senna, di famiglia nota, valoroso con le armi,
chiamato Gualtiero [2] […]. Questi allora si affrettava con quel suo folle esercito verso
Cizico, una città più importante di Nicea per la sua posizione. I Turchi,
che erano in agguato per trovare le tracce dei nostri, le attaccarono
con avidità e con pessime intenzioni. Uscendogli incontro attaccarono
Gualtiero e i suoi durante il loro trasferimento, ed uccidono lui con
la massima parte dei suoi. E allora Pietro, detto l'Eremita poiché non
riusciva a tenere a freno la follia della gente che aveva radunato,
giustamente fuggì a Costantinopoli, perché aveva temuto d’essere coinvolto
dalla loro sfrenata e improvvisa leggerezza. I Turchi pertanto, piombati
su di loro all'improvviso, ne trovano alcuni addormentati, altri non
solo privi di armi ma anche di vestiti, e di tutti ugualmente fanno
strage. Fra di loro si trovava un prete che stava dicendo messa, che
uccidono durante la stessa sacra cerimonia: e mentre immola a Dio, sacrificano
lui stesso davanti al suo altare […]. Queste cose accaddero nel mese
di ottobre. […] Il perfido imperatore, visto il disastro dei cristiani,
preso da una sinistra letizia, ordina di sequestrare i beni ai superstiti,
e, passato il braccio di S. Giorgio, di farli tornare nella Grecia interna.
Non appena li ebbe visti ritornati nella terra sotto il suo dominio
esigette, con il diritto della necessità, che gli vendessero le loro
armi. Tale fu la sorte dei seguaci di Pietro l'Eremita: e abbiamo narrato
la loro storia senza interruzioni, affinché a nessun altro venisse in
mente di compiere una simile impresa, ma per mostrare piuttosto che
essi hanno [finito per] aumentare l'audacia dei Turchi. GUIBERTO DI NOIGENT, Le imprese compiute da Dio tramite i Franchi, 4-5. [1] Del 1096.
[2] Gualtiero detto «senza averi».
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