Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
7. La battaglia di Bouvines
(A) Ruggero di Wendover, Florilegi
delle storie, RS 84/2, p. 106. (B) Guglielmo il Bretone,
Gesta di Filippo Augusto, pp. 265-297.
La battaglia che si combatté Bouvines, presso Tournai, la domenica
del 27 luglio 1214 vide opporsi Filippo II contro una coalizione guidata
dall'imperatore Ottone di Brunswick e finanziata in massima parte dal
re d'Inghilterra, Giovanni Senza Terra.
La vittoria di Filippo II significò un'importante affermazione
della sovranità francese, sia in relazione alla difesa dell'integrità
territoriale rispetto alle ambizioni di Inghilterra e Impero, sia sul
piano interno, rispetto ai grandi esponenti della nobiltà feudale,
come ad esempio Ferrando, conte di Fiandra o Rinaldo, conte di Boulogne,
che si erano schierati contro il signore di cui erano vassalli.
II primo passo narra, seguendo le testimonianze di Ruggero di Wendower, monaco
dell'abbazia di Saint Albans, la vigilia dello scontro. La battaglia viene invece
narrata distesamente da Guglielmo il Bretone, un chierico della corte di Filippo.
(A) Infine, informato della situazione, il re
di Francia Filippo fu profondamente turbato. Temette di non potere assicurare la difesa
del suo regno, tantopiù che aveva appena inviato suo figlio Luigi con una forte
armata nel Poitou per opporsi al re d'Inghilterra e mettere fine alle sue incursioni
offensive. E sebbene il re andasse spesso ripetendo tra sé il proverbio popolare
che dice: «chi ha mire su troppe cose ha meno presa su ciascuna di esse»,
ciò nonostante, dopo aver messo in piedi una grande armata di conti, baroni, di
cavalieri con i loro scudieri, di fanti e uomini a cavallo, chiamati alle armi gli uomini
delle città e dei villaggi, si sentì forte e si affrettò a affrontare
il nemico. Prescrisse ai vescovi, agli uomini di chiesa e ai chierici di offrire elemosine,
elevare preghiere al Signore, di celebrare messe per la salvezza del suo reame.
Fatto ciò, marciò con la sua armata con animo ardito incontro anemico.
Avvisato del fatto che i nemici si erano già spinti minacciosamente fino al
ponte di Bouvines, nel territorio del Ponthieu, diresse le sue insegne verso questo luogo.
Dopo averlo raggiunto fece traversare tutta la sua armata e fortificò la posizione.
Il calore del sole era al suo massimo, com'è naturalmente nel mese di luglio;
così i Francesi decisero di acquartierarsi lungo il fiume per rinfrancare uomini
e cavalli. Erano giunti sulle rive del suddetto fiume di sabato in fine di pomeriggio;
subito furono distribuiti a destra e a sinistra i carri con tiro a due e a quattro,
i carri più ampi e anche le macchine da guerra. Allora disposte le sentinelle,
tutta l'armata andò a riposarsi per quella notte. Ruggero di Wendover, Florilegi delle storie, RS 84/2, p. 106. (B) Ci conviene ormai descrivere,
meglio che potremo, la gloriosa vittoria del buon re Filippo.
Nell'anno dell'Incarnazione 1214, Ottone l'imperatore, dannato e scomunicato,
che il re Giovanni d'Inghilterra aveva trattenuto al suo soldo contro
il re Filippo, radunò il suo esercito nello Hainaut, al castello
di valenciennes, nella terra del conte Ferrando [1],
che a lui si era alleato contro il signore di cui era vassallo. Il re
Giovanni gli mandò, a sue spese, a pagandoli, nobili combattenti
e cavalieri di grande prodezza. […] A sua volta, il buon re Filippo
radunò quanti cavalieri poté trovare al castello di Péronne:
suo figlio Luigi in quello stesso momento stava guerreggiando nel Poitou
contro il re Giovanni e aveva con sé gran parte della cavalleria
di Francia […]. Prima che cominciasse la battaglia, il re ammonì
i baroni e la sua gente; e benché essi avessero già coraggio
e volontà di far bene, tenne loro un breve sermone con queste
parole: “Signori baroni e cavalieri, la nostra fiducia e la nostra speranza
sono riposte tutte in Dio. Ottone e i suoi sono scomunicati dall'Apostolo
nostro padre, perché sono nemici e distruttori delle cose della
santa Chiesa, e benché peccatori come gli altri uomini, ci sottomettiamo
tuttavia a Dio e alla sua santa Chiesa. Noi la custodiamo e difendiamo
secondo il nostro potere, e perciò dobbiamo affidarci coraggiosamente
alla misericordia di Nostro Signore, che ci concederà di prevalere
sui nostri nemici, e i suoi, e di vincere”. Quando il re ebbe così
perorato, i baroni e i cavalieri gli chiesero la benedizione e lui,
la mano alzata, pregò per attirare su di loro la benedizione
del Signore; fecero squillare trombe e campane: poi assalirono i nemici
con meraviglioso e straordinario ardimento. […]
Dopo i sergenti a cavallo che l'eletto [2]
aveva mandato avanti per cominciare la battaglia, si mosse il conte
Gualtiero di Saint-Pol, con quelli del suo seguito, tutti cavalieri
scelti e di nobile prodezza. Fieramente si gettò tra i nemici,
come un'aquila affamata si getta su uno stormo di colombi. Non appena
piombò nel folto della mischia molti ne colpì e da molti
fu colpito. E qui apparvero il coraggio e la forza del suo fisico: abbatteva
tutti quelli che colpiva, uccideva uomini e cavalli senza distinzione
e di nessuno si impadroniva. Colpì talmente e massacrò,
coi suoi, a destra e a sinistra, che poté inoltrarsi oltre la
turba dei nemici, per ributtarsi poi da un'altra parte e accerchiarli
come in mezzo alla battaglia.
Dopo il conte di Saint-Pol si spinse innanzi il conte di Beaumont, con
altrettanto straordinario ardimento; Matteo di Montmorency e i suoi,
il duca Eudes di Borgogna, che aveva molti valorosi cavalieri fra la
sua truppa, tutti si gettarono con ardore nella pugna, avidi di combattere
e diedero ai nemici una strabiliante battaglia. Il duca di Borgogna,
che era uomo corpulento e di temperamento flemmatico, cadde a terra,
poiché il suo destriero era stato ucciso sotto di lui. Quando
la sua gente vide che era caduto, gli si radunò intorno, e lo
fece montare in fretta su di un nuovo cavallo. Rimontato, egli molto
si dolse per tale caduta e disse che avrebbe vendicato quella vergogna:
brandì la lancia, diede di sprone e si gettò in preda
all'ira nel più folto dei nemici. Non si curava di vedere dove
colpiva, né chi incontrava, ma sfogava la sua rabbia egualmente
contro tutti, come se ciascuno dei nemici gli avesse ucciso il cavallo.
[…]
Mentre Ferrando veniva così ridotto alla sconfitta, ritornò
l'orifiamma [3]
di Saint-Denis, seguita dalle legioni dei comuni, specie da quelle di
Corbie, d'Amiens, di Arras, di Beauvais, di Compiègne, che già
erano avanzate quasi sin presso le tende, e che accorsero al battaglione
del re, là dove si scorgeva l'insegna regia col campo azzurro
e i fiori di giglio d'oro. Lo stendardo era in quel giorno portato da
un cavaliere di nome Galon di Montigny, valorosissimo e fortissimo,
ma non ricco. Le legioni comunali oltrepassarono tutti i battaglioni
dei cavalieri e si misero davanti al re, proprio di fronte a Ottone
e a quelli del suo battaglione. Ma costoro, cavalieri di grande ardimento,
li fecero tosto indietreggiare fino alle truppe del re Filippo, li sparpagliarono
a poco a poco e vi passarono in mezzo sinchè furono vicini allo
scaglione del re. Quando Guglielmo di Barres, Guido Mauvoisin, Gerardo
La Truie, Stefano di Longchamp, Guglielmo di Garlande, Giovanni di Rouvray,
Enrico conte di Bar e gli altri nobili combattenti che nel battaglione
del re avevano lo speciale incarico di proteggerlo, videro che Ottone
e i Teutoni del battaglione tendevano ad avanzare in direzione del re
e che non avevano altra mira che la sua persona, si fecero avanti per
affrontare i Teutoni e frenarne il forsennato impeto. Lasciarono così
il re, per il quale temevano, dietro le spalle. Mentre essi combattevano
contro Ottone e i Germani, i fanti, che precedevano questi ultimi, raggiunsero
all'improvviso il re, e, con lance ed uncini di ferro, lo sbalzarono
da cavallo sbattendolo a terra. Se il sovrano valore e l'armatura speciale
di cui era rivestito non l'avessero difeso, lo avrebbero ucciso sul
posto. Ma alcuni cavalieri rimasti con lui, e Galon di Montigny, che
spesso girava lo stendardo per invocare soccorso, e Pietro Tristan che,
spontaneamente disceso dal suo destriero, si parò davanti al
re per difenderlo, sgominarono e uccisero tutti i sergenti appiedati
del nemico. Il re si rialzò e rimontò a cavallo con incredibile
agilità. Non appena fu rimontato sul suo destriero, e i fanti
che lo avevano sbalzato da cavallo furono tutti uccisi, il battaglione
del re si radunò intorno allo scaglione di Ottone. Allora incominciò
una mirabolante pugna, l'uccisione e l'annientamento di uomini e di
cavalli da una parte e dall'altra, perché combattevano tutti
con prodigioso valore. Qui fu ucciso, proprio davanti al re, Stefano
di Longchamp, cavaliere prode e leale di assoluta fedeltà: fu
colpito da una coltellata fino al cervello attraverso la occhiera dell'elmo.
I nemici del re usarono in questa battaglia un'arma ancora non vista
in quei tempi: avevano coltelli lunghi e affilati a tre lame, taglienti
dalla punta al manico, e si servivano in combattimento di tali coltelli
a guisa di spade e di brandi. Ma, grazie a Dio, i brandi e le spade
dei Francesi, e il loro valore, che non venne mai meno, ebbero il sopravvento
sulla crudeltà dei nemici e delle loro nuove armi. Si batterono
infatti con tale fermezza e così a lungo, che costrinsero a indietreggiare
e a ritirarsi tutto il battaglione di Ottone. Arrivarono fino a lui
e così vicino, che Pietro Mauvoisin, più bravo nelle armi
che nella conoscenza del mondo, lo afferrò per il freno e presunse
di poterlo trar fuori dalla mischia. Ma si accorse che non poteva fare
come voleva, a causa dell'incalzare dei suoi, riuniti e intorno a lui
serrati. Gerardo La Truie, che gli era dappresso, gli diede col coltello
che teneva sguainato in mano un colpo in mezzo al petto, e quando vide
che non poteva trafiggerlo per lo spessore delle impenetrabili armature
di cui sono muniti i guerrieri del nostro tempo per riparare lo sbaglio
del primo gli inferse un secondo colpo. Credeva di colpire il corpo
di Ottone, e incontrò invece la testa del cavallo alto levata,
gli assestò un colpo dritto nell'occhio, e il coltello, spinto
con grande maestria, gli si immerse fino alle cervella. Il cavallo,
percosso da quel gran colpo, si spaventò e prese ad agitarsi
violentemente, girandosi dalla parte donde era arrivato. Ottone mostrò
così la schiena ai nostri cavalieri e immediatamente si diede
alla fuga, lasciando come preda al nemico l'aquila, lo stendardo e quanto
si era portato sul campo. Quando il re lo vide scappare, disse alla
sua gente: «Ottone fugge, da oggi in poi non lo si vedrà
più in faccia». Ma non fuggì a lungo, ché
il cavallo gli cadde morto. Allora gli fu portato fresco fresco un secondo
cavallo, e quando fu rimontato in sella riprese a fuggire a più
non posso, perché più non riusciva a resistere al valore
dei cavalieri di Francia: Guglielmo di Barres l'aveva già ben
due volte preso per il collo, ma non poté tenerlo bene, perché
il cavallo era forte e si agitava, e spessa era la mischia dei suoi
uomini. […]
Qui si ricominciò il combattimento: mentre Ottone fuggiva, energicamente
si battevano i nobili cavalieri del suo battaglione, il valorosissimo
Bernardo di Ostemale, il conte Othe di Tecklembourg, il conte Corrado
di Dortmund, Gerardo di Randerode, e molti altri forti e arditi guerrieri,
che Ottone aveva particolarmente scelto per il loro grande coraggio,
onde gli stessero vicino per proteggere la sua persona. Tutti costoro
si battevano con meraviglioso eroismo, soverchiavano e uccidevano i
nostri. Nondimeno i Francesi ebbero il sopravvento, e presero prigionieri
i sopraddetti conti e Bernardo di Ostemale e Gerardo di Randerode. Il
carro sul quale stava lo stendardo fu fatto a pezzi, il drago fu infranto
e l'aquila dorata portata innanzi al re: aveva le ali divelte e lacerate.
Così il battaglione di Ottone, dopo che lui era fuggito, fu completamente
sconfitto.
II re non volle che i suoi dessero la caccia ai fuggiaschi, più
di mille, per il pericolo rappresentato dai passaggi poco noti, e perché
stava calando la notte, e anche perché i principi e i ricchi
catturati non riuscissero per caso a scappare, o fossero strappati con
la forza ai loro custodi. Cosa, questa, che il re temeva assai. Risuonarono
allora trombe e bùccine per richiamare quanti ancora davan la
caccia al nemico. E quando ogni compagnia fu di ritorno, con grande
gioia ed esultanza si avviarono tutti agli alloggiamenti.
Chi potrebbe dire o descrivere a voce, o immaginare, o scrivere su
tavolette o pergamene gli applausi, i rallegramenti, gli inni trionfali,
le infinite danze di gioia delle popolazioni l'immensa festa che tutto
il popolo faceva al re, al suo ritorno in Francia dopo la vittoria?
I chierici cantavano nelle chiese dolci e incantevoli canti di lode
di Nostro Signore; le campagne suonavano a festa nelle abbazie e nelle
chiese; i monasteri erano dentro e fuori solennemente parati di drappi
di seta; le strade e le case delle ricche città erano adorne di cortine
e di lussuose guarnizioni; le vie e i sentieri cosparsi di fronde
di alburno di verdi alberi e di fiorellini novelli; tutto il popolo,
di elevata e di bassa condizione, uomini, donne, vecchi e giovani
accorrevano in folla ai passaggi e agli incroci delle strade […si
riunivano contadini e mietitori, i rastrelli e le falci sulle spalle
(era il tempo in cui si tagliava il grano) per vedere e insultare
Ferrando in catene, che poo tempo prima quand'era in armi, incuteva
loro alcuanto timore. Contadini, vecchie e bambini non si vergognavano
di schernirlo e di insultarlo. Avevano trovato come pretesto per prenderlo
in giro il significato del suo nome che poteva riferirsi sia a un
uomo che a un cavallo. Volle il caso che due cavalli di un colore
chiamato «ferrand» lo trasportassero su una lettiera di strame e perciò
gridavano per scherno che due «ferrrati» portavano un terzo ferrato
e che Ferrando era in ferri, quel Ferrando che poco prima, infuriato,
aveva pestato i piedi per impazienza e orgogliosamente si era ribellato
al suo signore…]. Tanta festa fecero al re, e di tanta vergogna
ricoprirono Ferrando, finché questi giunse a Parigi. Tutti i borghesi
e l'universalità degli scolari popolo e clero andarono incontro al
re con inni e cantici e mostrarono l'immenso giubilo del loro cuore
con manifestazioni esteriori; fecero straordinari festeggiamenti e
celebrarono solenni cerimonie. Non bastava loro il giorno, magnifiche
feste facevano anche di notte, con grandi luminarie; ci fu ugual luce
di notte come di giorno; e la festa cosi continuò senza interruzione
sette giorni e sette notti. Particolarmente gli scolari non cessavano,
instancabili, di mostrare, con grande dispendio di denaro, il proprio
giubilo con banchetti, cori, danze e canti. Guglielmo il Bretone, Gesta di Filippo Augusto, pp. 265-297.
[1] Conte di Fiandra.
[2] Frate Guerrino, vescovo eletto
di Senlis.
[3] Originariamente insegna dell'abbazia di
Saint-Denis, poi insegna militare dei re di Francia, di colore
rosso vermiglio con stelle e fiamme d'oro.
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