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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XII
L'espansione europea / 2
Vicino Oriente, Bisanzio, Europa dell'Est

3. La seconda e la terza crociata
(A) Matteo di Edessa, Cronaca Armena, pp. 93-94.
(B) Michele il Siriano, Cronaca siriaca, 17, 2.
(C) La storia dell'imperatore Eraclio, pp. 96-104.
(D) Bahà' ad-Din, Gli aneddoti del sultano e le arti di Yauf, 212-214, 220, 239, 242-243.

La ripresa musulmana ad opera di Zinki governatore di Mosul e di Aleppo, portò al superamento dei frazionamento politico nell'area contigua al regno di Gerusalemme ed al rapido rovesciamento dei rapporti di forza tra cristiani e musulmani, già evidenti nell'impossibilità dei “Franchi” di opporsi al massacro degli Armeni da parte dei Turchi (A).
La presa di Edessa nel 1146 (B) fu l'elemento scatenante della seconda crociata, risultata inutile per gli occidentali al pari della terza, seguita alla sconfitta di Hittin (luglio 1187) e alla caduta di Gerusalemme nell'ottobre dei 1187 (C). La terza crociata è comunque anche il teatro del cavalleresco scontro tra il curdo Salah ed-Din Yusuf, il famoso Saladino (esaltato ad esempio, dal cronista cristiano nel brano C), e l'eroe cristiano Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra (D).


(A) Mahlwird si era messo all'inseguimento degli Armeni. Da Edessa sino all'Eufrate, dappertutto egli versò sangue, sterminando le popolazioni. Giunto ad un fiume, massacrò tutto quelli che incontrò e s'impadronì di donne e bambini. I Franchi avevano già raggiunto la sponda opposta. 
I fedeli armeni, numerosi come greggi di pecore, passarono sotto il filo della spada. L'Eufrate scorreva rosso di sangue. Molti annegarono nelle sue acque. Quelli che si gettavano a nuoto e cercavano di raggiungere l'altra riva non riuscivano ad arrivarci. Un numero ancora maggiore si gettò sulle barche. Cinque o sei di queste imbarcazioni, stracolme di gente (perché ognuno voleva a tutti i costi trovare un posto), si inabissarono. Quel giorno vide spopolarsi tutta la provincia di Edessa. I Franchi che stavano stilla riva occidentale contemplavano queste scene di desolazione senza poter intervenire e versavano lacrime amare.

Matteo di Edessa, Cronaca Armena, pp. 93-94.


(B) Allorché Zinki vide un tale carnaio, si trattenne dal commettere nuovi massacri. In quel momento incontrò il vescovo Basilio, nudo e trascinato con una corda. Zinki, vedendo che era anziano e che aveva la testa rasata, chiese chi fosse. Avendo appreso che era il vescovo, si mise a rimproverarlo per non aver voluto consegnare la città [1]. Quello rispose coraggiosamente: «Ciò che è accaduto va benissimo».
«Come?» disse l'emiro. Il vescovo replicò: «Per te, perché hai ottenuto una brillante vittoria prendendoci a viva forza; per noi, perché abbiamo meritato la tua stima. E inoltre perché, così come noi non abbiamo infranto i nostri giuramenti verso i Franchi, allo stesso modo rispetteremo la fede giurata a te, visto che Dio ha permesso che noi diveniamo i tuoi schiavi.» Vedendo che era coraggioso e parlava scorrevolmente la lingua araba, Zinki ordinò di rivestirlo della sua tunica e lo fece entrare sotto la sua tenda. Egli si consigliò con lui stilla ricostruzione della città. Un araldo annunciò che tutti coloro che erano scampati alla spada potevano rientrare nelle loro case. Due giorni dopo, quelli che erano nella cittadella ricevettero la promessa di avere salva la vita, e così la consegnarono. I Turchi salvarono la vita a tutti quelli dei nostro popolo, Armeni o Greci, che erano sopravvissuti; al contrario uccisero i Franchi ovunque li trovarono.

Michele il Siriano, Cronaca siriaca, 17, 2.

[1] Edessa.


(C) Vi dirò come il Saladino fece guardare la città di Gerusalemme affinché i Saraceni non facessero né torto né danno né prepotenze ai cristiani che erano in città. In ogni strada mise due cavalieri e dieci armigeri per guardare la città: ed essi la guardarono così bene che non si udì mai parlare di alcuna soperchieria fatta ai cristiani. A mano a mano che i cristiani uscivano dalla città, si disponevano dinanzi ai Saraceni in modo elle tra gli uni e gli altri c'era giusto la distanza di un tiro d'arco. E il Saladino faceva custodire i cristiani giorno e notte, in modo che non si facesse loro danno né fossero derubati. Quando tutti coloro che si erano potuti riscattati furono fuori di Gerusalemme, vi restava ancora dentro parecchia povera gente. Venne dunque dal Saldino suo fratello Saif-Eddin Adil, e gli disse: «Signore, io vi ho aiutato a conquistare la terra e la città: vi prego ora cric mi doniate cento schiavi presi fra i cristiani poveri della città». 
Il Saladino gli domandò che cosa ne avrebbe fatto, e questi rispose che ne avrebbe fatto secondo la sua volontà. Allora egli glieli donò e comandò ai suoi luogotenenti che liberassero mille schiavi: cosa elle essi fecero; e Saif-Eddin da parte stia, quando ebbe mille poveri, li liberò. […]

Vi narrerò adesso una grande cortesia che il Saladino fece allora. Le dame e le donne e le figlie dei cavalieri che erano stati presi prigionieri o uccisi in battaglia, non appena furono riscattate e uscite da Gerusalemme, si presentarono al Saldino e presero a gridargli mercé. Quand'egli le vide, chiese loro chi fossero e che cosa volessero; ed esse risposero che per l'amor di Dio avesse pietà di loro, che egli teneva alcuni tra i loro mariti prigionieri, che avevano perduto la terra ch'egli le consigliasse e le aiutasse. Vedendole piangere, il Saladino ne ebbe gran pietà e disse alle dame che gli facessero sapere se i loro signori erano vivi nelle sue prigioni, ed egli li avrebbe fatti liberare: quanti furono trovati, furono difatti liberati. Poi ordinò che alle donne e alle damigelle, i cui padri o mariti fossero stati uccisi, venissero offerti dal suo patrimonio personale doni proporzionali al rango di ciascuna. E donò loro tanto che esse si allietarono dinanzi a Dio e agli uomini per il bene l'onore ch'era stato loro fatto.

Quando giunsero dinanzi a Tripoli, il conte di Tripoli fece chiudere le porle e non ne fece entrare neppure uno: al contrario, inviò dei cavalieri a catturare i ricchi borghesi e a togliere loro quanto il Saladino aveva donato […] Quelli d'Ascalona e dei castelli intorno (non trovando ospitalità presso i cristiani) se ne andarono a svernare in Alessandria.
Il governatore d'Alessandria li fece alloggiare, li curò e li protesse, e là essi rimasero fino al marzo successivo. 
E vi dirò che cosa facevano ogni giorno i Saraceni di Alessandria. La buona gente della città veniva quotidianamente dai cristiani e faceva grandi doni ai poveri in pane e in denaro. I ricchi, che avevano soldi, li impiegavano in merci che poi misero sulle navi quando s'imbarcarono e fecero così un grande guadagno.
E vi dirò che cosa avvenne loro. Svernavano nel porto di Alessandria navi tra genovesi, pisane, veneziane e d'altra gente, perché in marzo c'era un grande mercato. Quando si giunse al marzo, quelli si raccolsero intorno alle navi. Allora i piloti delle navi andarono dal governatore di Alessandria, gli dettero quanto gli dovevano e chiesero elle venissero loro riconsegnati corde e timoni giacché, essendo venuto il tempo, se ne volevano andare. Il governatore rispose che non avrebbe riconsegnato loro né corde né timoni fino a quando i poveri [1] non fossero saliti sulle navi; al che essi ribatterono che non li avrebbero fatti salire dal momento che noti avevano né pagato il nolo né fatto le provviste per il viaggio. «Che cosa volete dunque farne?», chiese il governatore, e quelli risposero «Li lasceremo a terra». Allora il governatore domandò loro se erano cristiani, ed essi risposero di sì. «E ciò nonostante li volete lasciare al loro destino, e farli vendere schiavi, rendendo così vano il dono della libertà che il Saladino ha fatto loro? Ciò non può essere: è necessario che li conduciate con voi. Vi dirò io che cosa farò per rispettare il volere dei Saladino: donerò loro pane ed acqua bastanti, e voi li farete salire sulle navi, altrimenti non potrete avere né timoni né corde».
Quando i marinai videro che non c'era scelta, promisero che li avrebbero trasportati. «Venite dunque avanti – disse il governatore – e giurate che li porterete bene e lealmente in salvo in terra cristiana; e che, per quanto io vi abbia costretto a prenderli con voi, nondimeno li condurrete in salvo come i ricchi e non farete loro alcun male. E se saprò che avrete fatto loro ingiuria o villania, me ne vendicherò con i mercanti vostri compatrioti che verranno in questo paese».
Così i cristiani che attraverso le terre dei Saraceni erano venuti a svernare in Alessandria poterono andarsene sani e salvi.

Quando il Saladino ebbe preso Gerusalemme […] non se ne volle andare finché non ebbe pregato nel Tempio e finché tutti i cristiani non furono fuori dalla città. Egli mandò a prendere a Damasco dell'acqua di rose per lavare il Tempio prima di entrarvi: così come aveva disposto, ne ebbe cinque cammelli carichi e fece lavare bene il Tempio con questa acqua di rose prima di entrarvi. E fece abbattere una grande croce dorata che stava sul Tempio, e che i saraceni poi legarono con delle corde e trascinarono fino alla torre di David. Là, i Saraceni miscredenti si dettero a spezzarla e le fecero gravi oltraggi ma non posso dire se ciò sia avvenuto per comando del Saladino. Questi fece lavare il Tempio, vi entrò e rese grazie a Dio.

La storia dell'imperatore Eraclio, pp. 96-104.

[1] I profughi di Gerusalemme.


(D) Da quel momento il mare ridivenne navigabile, il tempo tornò al bello, e venne il momento del ritorno delle truppe al combattimento da ambe le parli. Il primo ad arrivare [dei nostri] fu 'Alam ad-din Sulaimàn ibn Giandar, uno degli emiri dei Malik az-Zahir, uomo assai anziano e rinomato, veterano di molte battaglie, buon consigliere assai stimato e onorato dal Sultano, di cui era antico compagno d'armi. Arrivò dopo di lui Magd ad-din ibn'Izz ad-din Farrukhshàh, signore di Baalbek e si susseguirono poi d'ogni parte gli altri contingenti musulmani. Quanto all'esercito dei nemico, essi promettevano prossima ai nostri esploratori e altri avamposti la venuta del re di Francia, gran personaggio riverito, uno dei loro maggiori sovrani, cui obbedivano tutti gli eserciti, in quanto giungendo lui assumeva il supremo comando. E tanto ne promisero l'arrivo che in realtà arrivò, con sei navi che trasportavano lui e i suoi approvvigionamenti i cavalli occorrenti e i suoi più intimi compagni. Il suo arrivo fu il sabato ventitré rabì primo del 587.
Egli aveva portato con sé dal suo paese un enorme falcone bianco e di una specie rara di cui mai vidi il più bello. Il re lo aveva caro e gli era fortemente affezionato. Or questo gli sfuggì di mano e volò via; egli lo richiamava, e quello noni gli rispondeva, finché scese sulle mura di Acri, dove i nostri lo presero e lo mandarono al Sultano. Il suo arrivo dette gran gioia, e la sua cattura fu lieto presagio di vittoria, per i musulmani. I Franchi offrirono mille dinàr per riscattarlo, ma l'offerta non fu accolta. Arrivò dopo di lui il conte di Fiandra, gran capo famoso, di cui dissero che aveva assediato Hamàt e Harim, l'anno della rotta di ar-Ramla […].

Il re d'Inghilterra era uomo assai potente fra loro, di gran coraggio e alto animo. Aveva combattuto grandi battaglie, e aveva uno speciale ardire in guerra. Inferiore al re di Francia per regno e grado, gli era però superiore per ricchezza, e più famoso e prode in battaglia. Si sa di lui che giunto all'isola di Cipro, non volle procedere oltre finché non fosse sua. L'assediò quindi e combatté, mentre il suo sovrano, raccolta gran gente, gli mosse contro e oppose strenua resistenza. Il re d'Inghilterra mandò ad Acri a chiedere aiuto per la sua impresa, e il re Guido gli mandò suo fratello con centosessanta cavalieri, restando i Franchi d'Acri in attesa di vedere l'esito delle due parti […].
Il sabato tredici giumada primo arrivò il re d'Inghilterra, dopo aver raggiunto un accordo col signore di Cipro ed essersi impadronito di quell'isola. Il suo arrivo fece un'enorme impressione: arrivò con venticinque galere piene d'uomini, armi e apparecchi, e i Franchi dettero gran segni di gioia, tanto da accendere quella notte dei gran fuochi nelle loro tende. Questi fuochi erano impressionanti, di proporzioni tali da dimostrare l'immenso loro apparecchio.
A un tratto i musulmani videro gli stendardi e le croci, i segni e i fuochi dei nemico levarsi dalle mura della piazza: era il mezzogiorno del venerdì diciassette giumada secondo dei 587. I Franchi alzarono tutti un sol grido, e grave fu il colpo per i musulmani e grande la loro afflizione: tutto il nostro campo risuonò di grida e lamenti, e pianti e singhiozzi. Il marchese entrò in città con gli stendardi dei re, e ne piantò uno sulla cittadella uno sul minareto della Moschea maggiore, di venerdì, uno sulla Torre dei Templari e uno su quella dei Combattimento, sostituendovi ovunque gli stendardi dell'Islàm. I musulmani furono tutti relegati in un quartiere della città.
Io mi presentai al servizio dei Sultano, che era come una genitrice orbata dei figlio, gli porsi i conforti dei caso, e lo esortai a pensare ai compiti che lo attendevano sul Litorale e a Gerusalemme, e alla salvezza dei musulmani rimasti presi nella piazza. Ciò avveniva la notte del sabato diciotto. Egli finì coi decidere di arretrare un po' da quelle posizioni, non essendovi più scopo di serrar da presso, il nemico; e ordinò che i bagagli fossero trasferiti al posto dov'era prima, a Shafar'am, rimanendo lui al suo posto con truppe leggere per vedere cosa avrebbero fatto il nemico e i difensori. L'esercito operò il trasferimento per tutta la notte fino al mattino, ma Saladino rimase là nella speranza che a Dio piacendo i Franchi fossero indotti dal loro accecamento ad attaccarlo, ed egli potesse infligger loro una batosta gettandosi loro addosso, ché Dio dà la vittoria a chi Egli vuole. Ma il nemico non fece nulla di tutto ciò, occupato com'era a prender possesso della piazza.

Quando il re d'Inghilterra vide che il Sultano indugiava nell'esecuzione delle condizioni suddette, mancò fede ai prigionieri musulmani, con cui aveva stretto l'accordo, e da cui aveva ricevuto la resa della piazza, a condizione che avessero la vita salva e che se il Sultano gli avesse consegnato il convenuto egli li avrebbe rilasciati con le loro robe, i figli e le donne; mentre se si fosse rifiutato, lui li avrebbe ridotti in servitù quali suoi prigionieri. Ora invece egli mancò loro di parola, e mostrò l'intimo suo pensiero già prima concepito, e mandò ad effetto il suo proposito dopo aver ricevuto il denaro e i prigionieri [franchi riscattati]: così infatti riferirono di lui più tardi i suoi stessi correligionari. Nel pomeriggio dei martedì ventisette ragiab, egli e tutto l'esercito franco, fanti e cavalieri e turcòpuli, cavalcarono sino ai pozzi che sono sotto Tell al'Ayadiyya, dove avevano prima spedito le loro tende, e marciarono sino a occupare il centro della pianura tra Tell Kaisàn e al-'Ayadiyya, mentre gli esploratori sultaniali si eran ritirati appunto a Tell Kaisàn. Addussero quindi quei prigionieri musulmani di cui Dio aveva predestinato quel giorno il martirio, oltre tremila uomini avvinti; si buttaron loro addosso come un sol uomo, e li ammazzarono a freddo, a colpi di spada e lancia. I nostri avamposti avevano bene informato il Sultano dell'avanzata nemica, ed egli mandò loro qualche rinforzo, ma ciò fu dopo la strage dei prigionieri suddetti. I musulmani attaccarono il nemico appena accertatisi dei compiuto massacro e vi fu uno scontro con morti e feriti da ambe le parli, che andò intensificandosi finché la notte non divise i contendenti. Il mattino seguente, i musulmani vollero rendersi conto dell'accaduto, e trovarono i loro compagni martiri là dove erano stati abbattuti, e alcuni ne riconobbero. Un profondo dolore li colpì; e da allora in poi non risparmiarono [dei nemici catturati] se non personaggi noti e uomini gagliardi atti al lavoro.
Più motivi furono addotti a spiegar quella strage; uno è che li avrebbero uccisi per rappresaglia dei loro prigionieri precedentemente uccisi e un altro che il re d'Inghilterra aveva deciso di marciare su Ascalona per impadronirsene, e non volle lasciarsi alle spalle in città tutto quel numero. Dio ne sia di più.

Bahà' ad-Din, Gli aneddoti del sultano e le arti di Yauf, 212-214, 220, 239, 242-243.

 

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