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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XII
L'espansione europea / 2
Vicino Oriente, Bisanzio, Europa dell'Est

6. I mongoli
(A) Serapione di Vladimir, Sermone (1240).
(B) Matteo Paris, Cronache maggiori, RS 57/4, pp. 272-276.

L'apparizione dei Mongoli ad oriente del mondo cristiano provocò grandi mutamenti. Dopo aver sottomesso buona parte dell'Asia continentale a partire dalle grandi conquiste di Genghis Khan (1167-1227), continuale poi dai suoi immediati successori (Ögödäi, Sübötäi, Batü), essi sconvolsero e in parte sottomisero lo stesso mondo musulmano dell'Iran e del Vicino Oriente (anni 1250-1260 circa); in precedenza (entro il 1250) erano già dilagati in Russia e Polonia. La loro crudeltà qui descritta dalle parole del vescovo Serapione di Vladimir (A) e da quelle di un chierico di Narbona, testimone della loro avanzata in Austria (B) terrorizzò l'Europa, che si preparò al peggio. Ma la situazione doveva presto cambiare: finita la spinta espansiva ed assestatosi il dominio territoriale mongolo, la pax mongolica avrebbe offerto proficue possibilità di traffico commerciale alla società europea; l'illusione di una facile conversione dei Mongoli finì invece nel nulla. La missione del frate francescano Giovanni di Pian del Carpine, incaricato di Innocenzo IV di una missione diplomatica alla corte del Gran Khan, aprì comunque la seconda e più pacifica fase dei contatto tra l'Europa cristiana e i Mongoli [cfr. cap.13, 12]. Gli esponenti più famosi di questo nuovo periodo furono per l'occidente i Polo, i cui viaggi (e soprattutto la stia personale esperienza di ambasciatore dei Gran Khan) furono narrati da Marco (1254-1324/5) nel Milione, grande e affascinante affresco del misterioso oriente che si spalancava allora per la prima volta davanti agli Europei (C?).


(A) Dio inviò allora contro di noi un popolo spietato, un popolo selvaggio, un popolo che non risparmia né la bellezza della giovinezza, né l'impotenza dei vecchi, né l'infanzia. Noi abbiamo provocato la collera del nostro Dio […]. Le sante chiese sono state distrutte, gli oggetti sacri profanati, i luoghi santi insudiciati […]. I cadaveri dei venerabili monaci [sono stati] gettati sulla neve in pasto agli uccelli; la terra si è abbeverata dei sangue dei nostri padri e dei nostri fratelli [che colava] come un'acqua abbondante; il coraggio dei nostri capi e principi è svanito; i nostri uomini coraggiosi pieni di terrore sono fuggiti, una moltitudine di nostri fratelli e di bambini fu trascinata in schiavitù; i nostri villaggi sono diventati campi di ortiche la nostra grandezza è svanita, la nostra bellezza è stata distrutta […]. I pagani hanno raccolto i frutti del nostro lavoro.

Serapione di Vladimir, Sermone (1240).


(B) Iddio, adirato per i molti peccati che dilagavano tra di noi cristiani, divenne una sorta di devastatore ostile e di tremendo vendicatore.
E lo dico perché un'orda immensa di uomini spietati, strumento della collera di Dio, attraversando terre sterminate le devasta brutalmente distruggendo paurosamente tutto ciò che si trova sulla via con la strage e l'incendio. Durante l'estate di quest'anno [1] quella gente che si chiama Tartari, usciti dalla Pannonia, che avevano occupato dopo la resa, cinsero violentemente d'assedio con un esercito sterminato il borgo in cui io allora mi trovavo. Tra di noi non c'erano che trenta cavalieri che il duca aveva lasciato nel castello con venti balestieri. Tutti costoro, vedendo dall'alto l'esercito che dilagava da alcune colline lì intorno, inorridivano per la mostruosa crudeltà di quegli emissari dell'Anticristo e si sentivano i pietosi lamenti che i cristiani innalzavano a Dio poiché nella regione circonvicina si subiva l'occupazione dei Tartari senza distinzione di condizione, di ricchezza, di sesso e di età, tutti allo stesso modo venivano uccisi tra vari supplizi. I capi con i loro disumani seguaci ne mangiavano i cadaveri come se fosse pane e non lasciavano agli avvoltoi niente al di fuori delle ossa. Ma, fatto straordinario i famelici e rapaci avvoltoi disdegnavano i pochi resti che essi lasciavano. Davano in pasto a questi antropofagi – così sono chiamati dalla voce popolare – le donne vecchie e brutte come una comune razione di vitto giornaliero. Non mangiavano invece le più belle, ma le uccidevano con le loro violenze mentre costoro gridavano disperatamente. Tormentavano le vergini fino a farle svenire e dopo aver strappato loro le mammelle, che lasciavano ai capi come una squisitezza, divoravano con ingordigia i loro corpi virginei. Quando i loro esploratori dall'alto di una collina videro il duca d'Austria con il re di Boemia, il patriarca di Aquileia e il duca di Carinzia con tutti i capi dei popoli confinanti e con le loro truppe già schierate a battaglia, tutto quel nefando esercito improvvisamente scomparve e fece ritorno nell'infelice Ungheria […].
Quanto ai loro costumi e alle loro credenze, sulle loro caratteristiche fisiche e la loro statura, sulla loro terra di origine e sul loro modo di combattere si sostiene che sono avari iracondi falsi e spietati più di ogni altro popolo: ma sono trattenuti dal rigore e dalla severità delle pene che vengono loro inflitte dai loro superiori a non offendersi ingannarsi e massacrarsi a vicenda. Considerano dèi i capostipiti delle loro tribù e in determinati periodi compiono particolari riti in loro onore, mentre hanno solo quattro solennità in comune e credono che tutto sia stato creato solo per loro. Non ritengono ci sia nessun male nel torturare i ribelli. Hanno un petto solido e robusto, volti magri e pallidi, spalle rigide ed erette, un naso storto e corto, il mento prominente e aguzzo, la mandibola superiore piccola e rientrata, denti lunghi e radi, palpebre sporgenti dai capelli fino al naso, occhi mobili e neri, sguardo obliquo e torvo, estremità magre e nervose, ma gambe robuste e corte. La loro altezza è simile alla nostra, la bassezza delle gambe è compensata dall'altezza dei resto del corpo. La loro terra era una volta deserta e sterminata, ad oriente dei Caldei; da questa essi cacciarono leoni orsi e altre bestie feroci con archi e altre armi. Con il cuoio bollito di questi animali preparano strumenti da guerra leggeri ma molto resistenti. Sono soliti cavalcare destrieri non molto grandi ma robustissimi, che si accontentano di poco cibo, legandosi ad essi strettamente e sono abituati a combattere instancabilmente e coraggiosamente con frecce, mazze, bipenni e spade. Ma la loro specialità è nell'uso, dell'arco e nell'astuzia con cui combattono. Nella parte posteriore sono scarsamente protetti perché non Fuggano e non si ritirino dalla battaglia prima di aver visto retrocedere il vessillo dei loro capo. Quando sono sconfitti non chiedono pietà e quando vincono non risparmiano. Tutti, come fossero un sol uomo perseguono con tenacia il proposito e la volontà di sottomettere al loro dominio tutto il mondo e non si possono contare neanche a migliaia. L'avanguardia incaricata di aprire la strada all'esercito è di seicentomila uomini viaggia velocissima sui propri cavalli coprendo in una sola notte il cammino di tre giorni; subito dilagano per tutto il territorio e incalzano il popolo inerme e indifeso disperdendolo e ne fanno una tale strage che il re o i principi delle terre invase non hanno uomini da reclutare e da contrapporre loro in battaglia [2].

Matteo Paris, Cronache maggiori, RS 57/4, pp. 272-276.

[1] Anno 1242.
[2] Questa lettera, scritta da Ivo di Narbona, inserita nella cronaca di Matteo Paris.

 

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