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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XV
Aristocrazia e popolo nelle città italiane

6. Venezia e Genova
(A) Martin da Canal, Le storie di Venezia, 11, 108-110.
(B) Annali Genovesi, FSI 14, pp. 41-42.
(C) Salimbene de Adam, Cronaca, pp. 729-230.
(D) Anonimo, La battaglia della Curzola, FSI 85, pp. 109-111.
(E) Deliberazioni del Maggior Consiglio, 34, 43 (1297, 1298).

Nel XIII secolo le forze dominanti nella vita politica veneziana erano caratterizzate, rispetto a quelle degli altri comuni italiani, dal fatto di derivare il loro potere da una fonte perlopiù omogenea, legata alla ricchezza mercantile e imprenditoriale. La classe al potere a Venezia si presenta come un'oligarchia autobilanciata, che cominciò ad attingere al suo interno gli uomini destinati alle massime magistrature del comune. Un complicato meccanismo, misto di susseguenti operazioni il sorteggio (o rotazione) ed elezione, presiedeva alla designazione del doge come pure degli appartenenti ai diversi organismi collegiali, tra i quali, a partire dalla seconda metà del XII secolo, aveva assunto rilievo dominante il Maggior consiglio. Ne risultava un sistema in grado di far prevalere sulle spinte degli interessi particolari le ragioni comuni del bene della città, che erano poi quelle del successo economico dei suoi cittadini, della loro presenza sui mari e nei porti del Mediterraneo e oltre.
Con la caduta dell'Impero latino d'oriente e la stipula del trattato del Ninfeo (1261) tra Genova e la dinastia dei Patologi, il predominio sui traffici con l'oriente avevano come fulcro Bisanzio passò ai genovesi a scapito di Venezia (B). Genova inoltre dopo essere uscita vittoriosa dallo scontro con Pisa alla Meloria (C), inflisse una pesante sconfitta anche a Venezia, presso la Curzola (D). Ma Genova dovette scontare gli effetti di una pesante instabilità politica legata all'incapacità di sanare le divisioni interne alla città tra gruppi familiari. La potenza veneziana, pur scossa dagli insuccessi, riuscì invece ad affermarsi e a consolidarsi proprio della compattezza dei suoi ceti dirigenti. Una compattezza che venne poi confermata e tutelata con la cosiddetta Serrata del Maggior consiglio del 1297: se anche in un primo tempo essa aveva avuto lo scopo di serar, tirare dentro al Maggio consiglio tutte le famiglie aristocratiche per scopi difensivi, a lungo andare questo provvedimento, dapprima straordinario ma poi divenuto stabile, limitando l'accesso al massimo organo collegiale agli esponenti delle famiglie che già ne avessero fatto parte, escluse dalla gestione della vita politica della città chi non fosse organico al suo antico gruppo dirigente (E).


(A) 108. In questa parte il racconto dice che messer Lorenzo Tiepolo fu eletto doge di Venezia il 23 di luglio, nell'anno 1268 dall'incarnazione di nostro signor Gesù Cristo, un lunedì; e vi dirò in che modo. In verità, c'erano a quel tempo a Venezia, secondo l'uso dei Veneziani, sei consiglieri che davano consiglio al doge; e quei sei consiglieri rimasero nel Palazzo al potere del dogado: e voglio che ne conosciate i nomi. Il primo si chiama messer Niccolò Michiel, il secondo messer Giovanni Ferro, il terzo messer Pancrazio Barbo, il quarto messer Pietro Totulo, il quinto messer Filippo Belegno e il sesto messer Giovanni Dandolo, il figlio del defunto messer Gratone. Questi sei nobiluomini furono al potere del dogado finché i1 doge fu eletto ed elessero tra loro un vicario del dogado: e fu messer Niccolò Michiel. Un giorno fecero riunire il popolo nella chiesa di messer san Marco, e allora messer Niccolò Michiel parlò, ed espose molto saggiamente al popolo tutto ciò che concerneva l'elezione del doge di Venezia; e quando egli ebbe finito la sua esposizione, si fece avanti il primo cancelliere del dogado, che si chiama messer Corrado, e cominciò a leggere la procedura che i Veneziani avevano stabilita per l'elezione del doge di Venezia, e tutti i capitoli che messere il doge doveva giurare; e il popolo veneziano approvò tutto ciò che i saggi avevano deciso. Vi racconterò ora come fu fatta l'elezione del doge. I nobili consiglieri fecero riunire quel giorno stesso dopo l'ora di nona il Maggior Consiglio, e fecero per ogni membro una piccola ballotta di cera; e dentro trenta di quelle ballotte di cera stava, in ciascuna, un pezzetto di pergamena scritto,che diceva «elettore»; e ciascuno ne prese una; e i consiglieri e i capi dei Quaranta le rompevano una per una sotto gli occhi di tutti; e là dove trovavano dentro l'indicazione «elettore», quegli per la quale essa era stata estratta andava a sedersi in un posto, mentre essi facevano ritirare quegli altri per i quali non trovavano scritto niente: e si procedette nel modo che vi dico finché ci furono trenta elettori. E quando essi furono riuniti, messer Niccolò Michiel, il vicario, li fece giurare nei termini che i saggi che avevano stabilito la procedura dell'elezione avevano previsto. E quando essi ebbero giurato davanti al Consiglio, quei trenta nobiluomini rimasero nel palazzo in una stanza, e gli altri scesero giù dal palazzo e se ne andarono. E i trenta uomini che rimasero nel palazzo fecero trenta ballotte di cera, e in ciascuna di nove tra esse stava un pezzetto di pergamena con la dicitura «elettore», e ciascuno di loro prese la sua, come aveva giurato. E quelli dentro la ballotta dei quali veniva trovato il pezzetto di pergamena con la dicitura «elettore», rimasero nel palazzo, e gli altri andarono via; e sappiate che furono nove gentiluomini: e ve ne dirò i nomi. Il primo di loro si chiamava messer Pietro Sisinulo, il secondo si chiamava messer Marco da Molin, il terzo messer Michele Boldù, il quarto messer Bartolomeo Marcello, il quinto messer Pancrazio Malipiero, il sesto messer Niccolò Steno, il settimo messer Ranieri Miliani, Pottavo, messer Marino Viaro, il nono messer Morosini, soprannominato dai Veneziani Petigno. Questi nove uomini si riunirono ed elessero quaranta Veneziani ed ebbero potestà di eleggere, con non meno di sette voti, sia tra chi faceva parte del Consiglio che tra chi ne era fuori. E quando si furono accordati, lo fecero sapere a messer Niccolò Michiel, il vicario del dogado di Venezia e ai nobili consiglieri, che vi ho nominati qui addietro, e ai tre uomini che sono a capo dei Quaranta i quali garantiscono la continuità del governo del Veneziani nei casi di grave necessità. E se volete conoscerne i nomi, io ve li dirò: sappiate che il primo si chiama messer Antonio Soranzo, il secondo messer Ruggero Zorzi, il terzo messer Pietro Barbarigo.

109. Che dirvi? Quando messer Niccolò Michiel il vicario del dogado, e i nobili consiglieri e i capi dei Quaranta conobbero i nomi dei quaranta uomini che i nove avevano eletto, li fecero subito venire al palazzo, e fecero quaranta ballotte di cera, tra le quali ne stavano dodici che contenevano dei pezzetti di pergamena con la dicitura «elettore». E quando essi furono riuniti, le quaranta ballotte stavano dentro un cappello, e c'era là un bimbo di undici anni: e quando uno si faceva avanti per avere la ballotta, si diceva al bimbo: «Metti una mano nel cappello e prendi una ballotta di cera per questa qua», e gliene si faceva il nome. E il bimbo la prendeva e la dava ai consiglieri, ed essi la rompevano alla presenza di tutti; e se vi trovavano dentro la pergamena con scritto «elettore», facevano sedere il designato; e se non vi trovavano scritto niente, quegli se ne tornava indietro; e il bimbo continuò a dare ballotte finché essi trovarono i dodici uomini. E allora il vicario li fece giurare davanti a tutti nel modo che i saggi avevano stabilito; ed essi dovevano accordarsi ad eleggere venticinque uomini con non meno di otto voti. Che dirvi? I nomi di quei dodici non vanno dimenticati: sappiate che il primo si chiamava messer Martino Casulo; il secondo fu messer Pietro Sisinulo il maggiore, il terzo il messer Giovanni Belegno, il quarto fu messer Marco Grudenigo, il quinto fu messer Marco Giustiniani l'Orso, il sesto il messer Vitale Corner, il settimo il messer Giovanni Marcello, l'ottavo fu messer Marino Morosini, il nono fu messer Filippo da Molin, il decimo fu messer Giovanni Gitiliani, l'undicesimo il messer Pietro Faliero e il dodicesimo fu messer Marino Pasqualigo. Quei dodici nobiluomini, quand'ebbero fatto il giuramento, si recarono in una stanza, e secondo il giuramento, elessero venticinque uomini; e quando questi furono eletti. lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri e ai nobili capi dei Quaranta che stavano con loro al potere e al dogado. E quando essi seppero i nomi del venticinque, li fecero riunire nel Palazzo, ed essi fecero venticinque ballotte, come avevano fatto gli altri secondo la procedura: e tra quelle venticinque ballotte ce n'erano nove che contenevano pezzetti di pergamena con la dicitura «elettore». E allora si avvicinarono l'uno dopo l'altro, secondo l'uso, al cappello; e, quando uno di loro si trovava là si diceva al bimbo: «Metti una mano net cappello ed estraine una ballotta nel nome di questo qua», e il bimbo prendeva la ballotta e la estraeva dal cappello e la dava al consiglieri e ai capi dei Quaranta; e quello di loro che la prendeva la rompeva davanti a tutti. Rimasero là finché le nove ballotte vennero in loro mano; ed essi fecero fare il giuramento a quei nove elettori, secondo la procedura. E allora si recarono in una stanza del Palazzo e dovevano eleggere quarantacinque uomini con non meno di sette voti; e quando si furono accordati, lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri e ai capi dei Quaranta, e quelli, quando conobbero i nomi, li fecero riunire nel Palazzo. Ma voglio che sappiate chi furono i nove che elessero i quarantacinque: sappiate che il primo si chiamava messer Domenico Caravello, il secondo messer Ruggero Zorzi, il terzo messere Antonio Soranzo, il quarto messere Stefano Mariglono, il quinto messer Pietro Storlado, il sesto fu messer Giovanni Coppo, il settimo fu messer Tommaso Minotto, l'ottavo fu messer Marino Zeno e il nono fu messer Pietro Bolani. Questi nove uomini elessero i quarantacinque, secondo la procedura.

110. Quando quei quarantacinque furono riuniti nel palazzo, fecero quarantacinque ballotte di cera e in undici di esse misero dei pezzetti di pergamena con la dicitura «elettore». E le ballotte furono messe nel cappello e per ciascuno che veniva al cappello il bimbo estrasse una ballotta, nel modo che vi ho raccontato, finché undici uomini ebbero le ballotte che dicevano «elettore»; e allora il vicario li fece giurare, secondo la procedura. E dopo che essi ebbero giurato davanti a tutti, andarono in una stanza; e sappiate che quegli undici dovevano eleggere quarantun uomini con non meno di nove voti; e sappiate che non voglio che il loro nome sia dimenticato: il primo fu messer Maffio Miliani, il Secondo messer Michele Morosini, il terzo messer Marino Venier, il quarto rnesser Giovanni Brazzolano, il quinto messer Giovanni Albini, il sesto messer Simone Giusto, il settimo messer Marco Aurio, l'ottavo messer Filippo Manolesso, il nono messer Pietro Salanione, il decimo messer Bartolomeo Dolfin, l'undicesimo messer Marino Gradenigo, il cavaliere. Quegli undici uomini, come vi ho detto, ne elessero quarantuno tra quelli di loro preferenza, e quei quarantuno dovevano eleggere il doge con non meno di venticinque voti. E quando essi li ebbero eletti, lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri e ai capi dei Quaranta, ed essi li fecero venire al palazzo e li fecero giurare davanti al Consiglio di eleggere il doge secondo la procedura che era stata comunicata al popolo nella chiesa di messer san Marco e che il popolo aveva approvata, giurando ciascuno sulla sua anima di tenere per doge e per signore quegli che sarebbe stato eletto dai quarantuno, secondo la procedura che era stata preparata dagli uomini che erano stati eletti dal Gran Consiglio. Voglio che sappiate i nomi dei quarantuno che elessero il nobile doge: messer Jacopo Baseggio, messer Martino Casulo, messer Jacopo Faliero, messer Giovanni Barocci, messer Piero Sisinulo il maggiore, messer Gabriele Marigiono, messer Marco Bragadin, messer Niccolò Celsi, messer Pietro Donato, messer Niccolò Emo, messer Pietro Bello, messer Bartolomeo Malipiero, messer Niccolò Moro, messer Bartolomeo Butiscalco, messer Marino Masulo, messer Marco Bondemino, messer Pietro Ciurano, messere Andrea Duodo, messer Marco Maistrorso, messere Stefano Lugnano, messer Niccolò da Canal, messere Eustachio Venier, messer Bartolomeo da Muggia, messer Marco Tron, messer Marino Badoer, messer Niccolò Salamone, messer Michele Staniario, messer Pietro Vasano, messer Marino Pantani, messer Giuliano Trevisan, messer Marino Contarini da santa Marina, messer Marino Zeno, messer Pietro Barbarigo, messer Marino Soranzo, messer Marco Barbo, messer Ruggero Piermarino, messer Marco Costantini, messer Marco da Mosto, messer Francesco Barbarnazolo e messer Tommaso Minotto e messer Jacopo Zorzi. Questi furono i quarantun uomini che elessero il nobile doge messer Lorenzo Tiepolo: e sappiate che essi appartenevano alla nobiltà di Venezia e al nobile popolo veneziano. Ancora voglio che sappiate che in tutte le elezioni che furono fatte non ci fu nessuno che avesse meno di trentanni: e così fu stabilita la elezione da parte dei saggi uomini che erano stati eletti per stabilire quella elezione. Nella maniera che vi ho raccontato messer Lorenzo Tiepolo fu eletto doge di Venezia dai quarantun uomini che vi ho raccontato, con non meno di venticinque voti; e tutte le elezioni che furono fatte avvennero per mezzo di ballotte di cera.

Martin da Canal, Le storie di Venezia, 11, 108-110.


(B) Nell'anno 1261 fu podestà della città di Genova rnessere Jordano di Raalvengo, nobile cittadino Astense.
In questo anno i Genovesi, memori delle iniquità ad essi fatte dai Veneti e dai loro complici nella parti d'oltremare, erano intesi ad offenderli in tutti i modi possibili. E così, per deliberato consiglio, fu ordinata una legazione solenne che andasse al serenissimo messere Paleologo imperatore dei Greci, il quale era in guerra con i Veneti per allearsi con lui contro i Veneti. E a compiere questo negozio furono inviati i nobili uomini Guillermo Visconti e Guarnerio giudice, i quali ebbero piena potestà di trattare e di fare confederazione per conto del comune di Genova contro i sopradetti Veneti. Dunque i legati si recarono presso il predetto imperatore, il quale li ricevette onorevolmente e fece loro molte onoranze, e accettato il negozio per il quale erano andati, anche perché reputava nell'intimo del cuore i Veneti odiosi, strinse con i predetti ambasciatori patti e alleanza, in cui, dopo aver concesso ai medesimi, in nome del comune di Genova, mite immunità, diede loro e donò liberamente la città di Smirne, in modo che i Genovesi che navigavano verso le parti di Romania avessero in quella città un porto e vi avessero accesso come alla lor propria terra.
In quello stesso anno o nel seguente gli ambasciatori ch'erano stati inviati presso l'imperatore dei Greci, compiute quelle cose delle quali si è detto, ritornarono a Genova, e con essi l'imperatore mandò alla città di Genova nunzii di prestigio e ufficiali, per corroborare i negozii ch'erano stati fatti con i legati; e fatte dai nunzii dell'imperatore alcune modifiche e promesse, il predetto trattato [1] fu firmato e giurato nella città di Genova.

Annali Genovesi, FSI 14, pp. 41-42.

[1] È il trattato detto di Ninfeo perchè colà stipulato il 13 marzo 1261 e giurato a Genova il 10 luglio dello stesso anno. Trattato da cui ebbe avvio una fase di prevalenza commerciale genovese nell'Oriente latino.


(C) Così nell'anno 1284, vedendo i Pisani tutto il danno che gli veniva fatto dai Genovesi, nell'intento di vendicare la propria offesa, fabbricarono molte navi e galee e vascelli marini sul fiume Arno. E stabilirono che nessuno dai venti anni in su e dai sessanta in giù potesse essere esente dall'andare a combattere. E facevano scorrerie continue sulla costa genovese, distruggendo e appiccando fuoco, uccidendo, facendo prigionieri e depredando. E scorazzavano per l'intero territorio che va da Genova in Provenza, passando per tutte le città, cioè Noli, Albenga e Savonae anche Ventimiglia, in cerca dei Genovesi per attaccar battaglia con loro.
E i Genovesi avevano deliberato che nessuno dei loro rimanesse a casa, dai diciotto anni in su e dai settanta in giù, ma che ognuno andasse alla guerra con i suoi concittadini; e così incrociavano sul mare desiderosi di trovare i Pisani.
Finalmente si incontrarono fra capo della Corsica e la Gorgona, e legarono le navi insieme, secondo l'usanza dei combattenti di mare. Ed ivi si combatté con tanta strage da una parte e dall'altra che anche il cielo su di loro pareva aver pietà e far lamento. E molti furono da una parte e dall'altra i morti; e molte navi furono affondate. Quando i Pisani stavano già vincendo arrivarono Genovesi con molte galee e assalirono i Pisani, già ormai stanchi: e tuttavia si combatté con accanimento da una parte e dall'altra. Alla fine i Pisani, riconoscendosi inferiori, si arresero ai Genovesi. E i genovesi uccisero i feriti e risparmiarono gli altri per il carcere. E chi ebbe la meglio non si può
vantare, perché fu una disgrazia per tutte e due le parti. E a Genova e a Pisa si levarono da ogni casa tanti pianti e lamenti come mai in quelle due città si era sentito dal giorno della loro fondazione ai giorni nostri. E chi senza tristezza e senza molte lacrime sa riferire, o anche solo immaginare, la rovina e il guasto delle due fiorenti città dalle quali a noi Italiani veniva ogni sorta di beni? Si sono vicendevolmente distrutte, solamente per ambizione e smania di grandezza e vanagloria, perché una voleva soverchiare l'altra, come se il mare non bastasse ai navigatori. Per questo si è soliti dire: malamente si vendica di un'offesa – chi va incontro ad un danno peggiore di prima, con vergogna manifesta.
Queste cose avvennero il 13 di agosto, di domenica, festa dei santi martiri Ippolito e Cassiano. Non ho voluto scrivere il numero dei prigionieri e degli uccisi di entrambe le città, perché era riferito in modo differente. L'arcivescovo di Pisa ne scrisse il numero preciso in una lettera al vescovo di Bologna, che è suo fratello germano, ma non ho voluto annotare questo numero perché aspettavo frati Minori di Genova e di Pisa che me lo dicessero con pia precisione.
E nota che questa battaglia e strage, che avvenne fra Genovesi e Pisani, era già stata predetta e annunziata molto prima che avvenisse: nel paese di San Ruffino, in diocesi di Parma, alcune donne che di notte mondavano il lino videro due grandi stelle scontrarsi in cielo. E molte volte si traevano indietro e ancora ripetutamente combattevano scontrandosi.

Salimbene de Adam, Cronaca, pp. 729-230.


(D) Morto nell'anno del Signore 1297 il predetto padre arcivescovo Genovese [1] messere, il frate Porchetto Spinola, dell'ordine dei frati Minori, fu per grazia apostolica eletto arcivescovo nell'anno seguente. Nel tempo del quale il comune di Genova elesse nel mese di giugno un ammiraglio generale contro i Veneti messer Lamba d'Oria,esimio uomo; ed esso messere ammiraglio, fornito degli ordini diligenti dell'officio di Credenza, uscì da Genova con ottantasette galee nel mese di agosto. Ma come giunsero, navigando, ad una certa isola che nomasi Gerba, lasciaron quivi, per consiglio del savi, tre galee. E di là, movendo con le navi, andarono a Messina, dove certi Catalani ardirono, per invidia e vergogna dell'onore, della dignità e magnificenza dello stuolo Genovese, contrastando con le armi, fidando in loro stoltezza. Ma l'astuzia del Genovesi li debellò sull'istante, e fuggendo essi Catalani nella città di Messina, i Genovesi li inseguirono, e subito bruciate col fuoco le porte della città e in essa entrando virilmente e con potenza, ebbero sui Catalani vittoria. Allora il detto ammiraglio aspettò col suo stuolo le galee del Veneti per otto giorni, nel quale spazio però non udì di loro alcun rumore; onde per il desiderio di por fine alla grande guerra e all'ozio della sua città in armi, preferì entrare nei confini del Veneti piuttosto che fare ritorno. E così, oltrepassati i confini di Calabria e di Apulia, navigò nel golfo dei Veneziani per quattrocento miglia e pia, non curandosi delle molte città e dei castelli Veneti che si lasciava addietro, tanto aveva brama di trovar lo stuolo del nemici. Finché approdò ad una certa isola che si chiama Curzola, e la distrusse dalle fondamenta. Ma dappoiché i prati non sempre producono fiori, accadde per avventura che a cagione d'un'immensa tempesta sei galee del Genovesi non poterono seguire il loro ammiraglio, sicché questi si rimase con sole settantotto galee. E avevano i genovesi distrutto Curzola il giorno cinque del settembre; e abbattuta e dispogliatala, tutta l'armata era discesa in terra e ivi stette a riposo in tutto quel giorno e nella notte che seguì. Ma venuto il mattino, e aiutando il Signore, videro di lontano le galee dei Veneti, ch'erano novantasei di numero, più tre legni di sessanta remi. Le quali galee dei Veneti, vedute le galee dei Genovesi, posero di subito le scale a terra, e tutti si gettarono alla riva per prepararsi più abilmente alla battaglia. Le galee dei Genovesi, dall'altra parte del mare, erano presso un certo scoglio e bene si apparecchiavano e con gioia grandissima. E veduti gli altri, ognuno montò allegramente e con ordine sulle galee e si preparò, celere, a combattere. Ma i Veneti, quel giorno, rifiutarono la battaglia. Però, giunto il mattino, che era il giorno di domenica otto di settembre ed era la festa della Madre di tutti i beni, vennero i Veneziani verso di noi, e il detto ammiraglio di Genova, avendo seco la vera Croce e levato alto lo stendardo ed animato ognuno ad amore di patria, si affrettò contro i Veneti con l'immensa esultanza e il vivace tumultuare dei suoi. Indi, intrapresa di qua e di là una terribile battaglia e uno scolamento inaudito, avresti veduto volare per l'aria i dardi siccome nubi; avresti veduto il valore dei prodi a durissima prova, e le galee precipitarsi sulle galee, e innumerevoli vite gettate in mare senza speranza. Che diremmo di più? È una pietà il descrivere. L'una e l'altra parte fecero valere il proprio diritto virilmente e con uguale ardire, fin quasi dopo l'ora terza. Ma più tardi, per divino giudizio, le galee furono catturate e le altre si salvarono col sussidio della fuga. E in quel combattimento furono presi ottomila Veneziani, dei quali ottocento lasciati, perché feriti, al monte Ragusa; i rimanenti, portati prigionieri a Genova. Nel conflitto morirono di pessima morte settemila di essi Veneti. Di poi il detto messer ammiraglio, elevate immense grazie a Dio per tanta incredibile e inaudita vittoria, si ricondusse incolume a Genova insieme col predetto suo onorevole stuolo, e di si grande trionfo non fece pompa alcuna. Però nell'anno seguente i genovesi, per preghiera e suasione di messer Matteo del Visconti di Milano, mossi a misericordia e volendo rendersi grati a Dio di tanto beneficio, firmarono la pace coi detti Veneziani e tutti i prigionieri Veneti mandarono in libertà. Nel medesimo anno fecero similmente la pace coi Pisani e spedirono i loro prigionieri [2].

Anonimo, La battaglia della Curzola, FSI 85, pp. 109-111.

[1] Iacopo da Varagine, la cui data di morte si colloca nel luglio del 1298.
[2] L'intero passo è un brano interpolato contenuto in uno dei manoscritti della Cronaca di Genova di Jacopo da Varagine.


(E) 34. L'ultimo giorno di febbraio [1].
Fu preso partito che nell'elezione del Maggior Consiglio che si farà da ora fino alla festa di san Michele e quindi per un altro anno, si proceda in questo modo. Che tutti coloro che erano stati del Maggior Consiglio per almeno quattro anni venissero votati ad uno ad uno dal consiglio dei Quaranta e fosse del Maggior Consiglio chiunque ricevesse dodici o più pallottole fino alla festa di San Michele e dalla festa di san Michele per un anno; nello stesso modo essi siano sottoposti ad approvazione ad uno ad uno il giorno della suddetta festa di san Michele. E se qualcuno perdesse [il suo posto] in Consiglio per essere uscito dallo stato possa richiedere ai capi dei Quaranta che si consultino con i quaranta per decidere chi debba ancora essere o meno del Maggior Consiglio. E i capi dei Quaranta siano tenuti a porre questa questione e chi avrà più di dodici pallottole sia del Maggior Consiglio. E oltre a ciò siano scelti tre elettori che, conformemente al mandato dato loro dal Doge e dal suo Consiglio, possano proporre altri che non furono del Maggior Consiglio, e quelli che essi avranno proposto, siano vagliati ad uno ad uno dai Quaranta e coloro che avranno dodici pallottole o più siano del Maggior Consiglio. E i predetti tre elettori facciano parte del Maggior Consiglio fino alla festa di san Michele e altri tre che saranno eletti il giorno di san Michele restino in carica per un anno e facciano parte del Maggior Consiglio.
Queste disposizioni non possano essere revocate se non da cinque consiglieri e da venticinque dei Quaranta e due parti del Maggior Consiglio: e alla fine dell'anno, quindici giorni prima del suo termine sia discusso dal Maggior Consiglio se questa disposizione debba durare ancora o meno e sia stabilito nel modo in cui sarà deciso dal Maggior Consiglio. E sia aggiunto nel capitolare dei Consiglieri che essi debbano proporre al Maggior Consiglio questa disposizione, come si è detto, sotto pena di dieci lire per ciascuno e g1i avvocatori del Comune siano tenuti ad eseguire detta punizione; e intendendo per ciò che coloro che sono esclusi dai consigli ordinari non essere del Maggior Consiglio. E sia ingiunto ai capi della Quaranta che quando dovessero proporre qualcuno, per il Maggior Consiglio debbono notificare ciò al Consiglio dei Quaranta tre giorni prima e che non possa essere approvata la candidatura di alcuno al Maggior Consiglio se non alla presenza di almeno trenta consiglieri o più dei quaranta, e ciò sia aggiunto nel capitolare. E se il Consiglio o capitolare è contrario sia revocata [la candidatura].

43. Il giorno 15 dicembre.
Fu presa disposizione che non possa essere eletto al Consiglio dei Quaranta nessun altro che non abbia fatto parte, lui stesso o suo padre o ancora prima un suo avo, del Maggior Consiglio. E se il Consiglio è contrario, sia rifiutato.

Deliberazioni del Maggior Consiglio, 34, 43 (1297, 1298).

[1]Le deliberazioni, conservate nel Liber Pilosus, sono relative agli anni 1297 (34) e 1298 (43).

 

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