Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
6. Venezia e Genova (A) Martin da Canal, Le storie
di Venezia, 11, 108-110. (B) Annali Genovesi, FSI
14, pp. 41-42. (C) Salimbene de Adam, Cronaca,
pp. 729-230. (D) Anonimo, La battaglia della
Curzola, FSI 85, pp. 109-111. (E) Deliberazioni del Maggior
Consiglio, 34, 43 (1297, 1298).
Nel XIII secolo le forze dominanti nella vita politica veneziana erano
caratterizzate, rispetto a quelle degli altri comuni italiani, dal fatto
di derivare il loro potere da una fonte perlopiù omogenea, legata
alla ricchezza mercantile e imprenditoriale. La classe al potere a Venezia
si presenta come un'oligarchia autobilanciata, che cominciò ad
attingere al suo interno gli uomini destinati alle massime magistrature
del comune. Un complicato meccanismo, misto di susseguenti operazioni
il sorteggio (o rotazione) ed elezione, presiedeva alla designazione
del doge come pure degli appartenenti ai diversi organismi collegiali,
tra i quali, a partire dalla seconda metà del XII secolo, aveva
assunto rilievo dominante il Maggior consiglio. Ne risultava un sistema
in grado di far prevalere sulle spinte degli interessi particolari le
ragioni comuni del bene della città, che erano poi quelle del
successo economico dei suoi cittadini, della loro presenza sui mari
e nei porti del Mediterraneo e oltre.
Con la caduta dell'Impero latino d'oriente e la stipula del trattato del
Ninfeo (1261) tra Genova e la dinastia dei Patologi, il predominio sui
traffici con l'oriente avevano come fulcro Bisanzio passò ai genovesi a
scapito di Venezia (B). Genova inoltre dopo essere uscita
vittoriosa dallo scontro con Pisa alla Meloria (C), inflisse una
pesante sconfitta anche a Venezia, presso la Curzola (D). Ma Genova
dovette scontare gli effetti di una pesante instabilità politica legata
all'incapacità di sanare le divisioni interne alla città tra gruppi
familiari. La potenza veneziana, pur scossa dagli insuccessi, riuscì
invece ad affermarsi e a consolidarsi proprio della compattezza dei suoi
ceti dirigenti. Una compattezza che venne poi confermata e tutelata con la
cosiddetta Serrata del Maggior consiglio del 1297: se anche in un primo
tempo essa aveva avuto lo scopo di serar, tirare dentro al Maggio
consiglio tutte le famiglie aristocratiche per scopi difensivi, a lungo
andare questo provvedimento, dapprima straordinario ma poi divenuto
stabile, limitando l'accesso al massimo organo collegiale agli esponenti
delle famiglie che già ne avessero fatto parte, escluse dalla gestione
della vita politica della città chi non fosse organico al suo antico
gruppo dirigente (E).
(A) 108. In questa parte il
racconto dice che messer Lorenzo Tiepolo fu eletto doge di Venezia il
23 di luglio, nell'anno 1268 dall'incarnazione di nostro signor Gesù
Cristo, un lunedì; e vi dirò in che modo. In verità,
c'erano a quel tempo a Venezia, secondo l'uso dei Veneziani, sei consiglieri
che davano consiglio al doge; e quei sei consiglieri rimasero nel Palazzo
al potere del dogado: e voglio che ne conosciate i nomi. Il primo si
chiama messer Niccolò Michiel, il secondo messer Giovanni Ferro,
il terzo messer Pancrazio Barbo, il quarto messer Pietro Totulo, il
quinto messer Filippo Belegno e il sesto messer Giovanni Dandolo, il
figlio del defunto messer Gratone. Questi sei nobiluomini furono al
potere del dogado finché i1 doge fu eletto ed elessero tra loro
un vicario del dogado: e fu messer Niccolò Michiel. Un giorno
fecero riunire il popolo nella chiesa di messer san Marco, e allora
messer Niccolò Michiel parlò, ed espose molto saggiamente
al popolo tutto ciò che concerneva l'elezione del doge di Venezia;
e quando egli ebbe finito la sua esposizione, si fece avanti il primo
cancelliere del dogado, che si chiama messer Corrado, e cominciò
a leggere la procedura che i Veneziani avevano stabilita per l'elezione
del doge di Venezia, e tutti i capitoli che messere il doge doveva giurare;
e il popolo veneziano approvò tutto ciò che i saggi avevano
deciso. Vi racconterò ora come fu fatta l'elezione del doge.
I nobili consiglieri fecero riunire quel giorno stesso dopo l'ora di
nona il Maggior Consiglio, e fecero per ogni membro una piccola ballotta
di cera; e dentro trenta di quelle ballotte di cera stava, in ciascuna,
un pezzetto di pergamena scritto,che diceva «elettore»;
e ciascuno ne prese una; e i consiglieri e i capi dei Quaranta le rompevano
una per una sotto gli occhi di tutti; e là dove trovavano dentro
l'indicazione «elettore», quegli per la quale essa era stata
estratta andava a sedersi in un posto, mentre essi facevano ritirare
quegli altri per i quali non trovavano scritto niente: e si procedette
nel modo che vi dico finché ci furono trenta elettori. E quando
essi furono riuniti, messer Niccolò Michiel, il vicario, li fece
giurare nei termini che i saggi che avevano stabilito la procedura dell'elezione
avevano previsto. E quando essi ebbero giurato davanti al Consiglio,
quei trenta nobiluomini rimasero nel palazzo in una stanza, e gli altri
scesero giù dal palazzo e se ne andarono. E i trenta uomini che
rimasero nel palazzo fecero trenta ballotte di cera, e in ciascuna di
nove tra esse stava un pezzetto di pergamena con la dicitura «elettore»,
e ciascuno di loro prese la sua, come aveva giurato. E quelli dentro
la ballotta dei quali veniva trovato il pezzetto di pergamena con la
dicitura «elettore», rimasero nel palazzo, e gli altri andarono
via; e sappiate che furono nove gentiluomini: e ve ne dirò i
nomi. Il primo di loro si chiamava messer Pietro Sisinulo, il secondo
si chiamava messer Marco da Molin, il terzo messer Michele Boldù,
il quarto messer Bartolomeo Marcello, il quinto messer Pancrazio Malipiero,
il sesto messer Niccolò Steno, il settimo messer Ranieri Miliani,
Pottavo, messer Marino Viaro, il nono messer Morosini, soprannominato
dai Veneziani Petigno. Questi nove uomini si riunirono ed elessero quaranta
Veneziani ed ebbero potestà di eleggere, con non meno di sette
voti, sia tra chi faceva parte del Consiglio che tra chi ne era fuori.
E quando si furono accordati, lo fecero sapere a messer Niccolò
Michiel, il vicario del dogado di Venezia e ai nobili consiglieri, che
vi ho nominati qui addietro, e ai tre uomini che sono a capo dei Quaranta
i quali garantiscono la continuità del governo del Veneziani
nei casi di grave necessità. E se volete conoscerne i nomi, io
ve li dirò: sappiate che il primo si chiama messer Antonio Soranzo,
il secondo messer Ruggero Zorzi, il terzo messer Pietro Barbarigo.
109. Che dirvi? Quando messer Niccolò Michiel il vicario del
dogado, e i nobili consiglieri e i capi dei Quaranta conobbero i nomi
dei quaranta uomini che i nove avevano eletto, li fecero subito venire
al palazzo, e fecero quaranta ballotte di cera, tra le quali ne stavano
dodici che contenevano dei pezzetti di pergamena con la dicitura «elettore».
E quando essi furono riuniti, le quaranta ballotte stavano dentro un
cappello, e c'era là un bimbo di undici anni: e quando uno si
faceva avanti per avere la ballotta, si diceva al bimbo: «Metti
una mano nel cappello e prendi una ballotta di cera per questa qua»,
e gliene si faceva il nome. E il bimbo la prendeva e la dava ai consiglieri,
ed essi la rompevano alla presenza di tutti; e se vi trovavano dentro
la pergamena con scritto «elettore», facevano sedere il
designato; e se non vi trovavano scritto niente, quegli se ne tornava
indietro; e il bimbo continuò a dare ballotte finché essi
trovarono i dodici uomini. E allora il vicario li fece giurare davanti
a tutti nel modo che i saggi avevano stabilito; ed essi dovevano accordarsi
ad eleggere venticinque uomini con non meno di otto voti. Che dirvi?
I nomi di quei dodici non vanno dimenticati: sappiate che il primo si
chiamava messer Martino Casulo; il secondo fu messer Pietro Sisinulo
il maggiore, il terzo il messer Giovanni Belegno, il quarto fu messer
Marco Grudenigo, il quinto fu messer Marco Giustiniani l'Orso, il sesto
il messer Vitale Corner, il settimo il messer Giovanni Marcello, l'ottavo
fu messer Marino Morosini, il nono fu messer Filippo da Molin, il decimo
fu messer Giovanni Gitiliani, l'undicesimo il messer Pietro Faliero
e il dodicesimo fu messer Marino Pasqualigo. Quei dodici nobiluomini,
quand'ebbero fatto il giuramento, si recarono in una stanza, e secondo
il giuramento, elessero venticinque uomini; e quando questi furono eletti.
lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri e ai nobili capi dei Quaranta
che stavano con loro al potere e al dogado. E quando essi seppero i
nomi del venticinque, li fecero riunire nel Palazzo, ed essi fecero
venticinque ballotte, come avevano fatto gli altri secondo la procedura:
e tra quelle venticinque ballotte ce n'erano nove che contenevano pezzetti
di pergamena con la dicitura «elettore». E allora si avvicinarono
l'uno dopo l'altro, secondo l'uso, al cappello; e, quando uno di loro
si trovava là si diceva al bimbo: «Metti una mano net cappello
ed estraine una ballotta nel nome di questo qua», e il bimbo prendeva
la ballotta e la estraeva dal cappello e la dava al consiglieri e ai
capi dei Quaranta; e quello di loro che la prendeva la rompeva davanti
a tutti. Rimasero là finché le nove ballotte vennero in
loro mano; ed essi fecero fare il giuramento a quei nove elettori, secondo
la procedura. E allora si recarono in una stanza del Palazzo e dovevano
eleggere quarantacinque uomini con non meno di sette voti; e quando
si furono accordati, lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri e
ai capi dei Quaranta, e quelli, quando conobbero i nomi, li fecero riunire
nel Palazzo. Ma voglio che sappiate chi furono i nove che elessero i
quarantacinque: sappiate che il primo si chiamava messer Domenico Caravello,
il secondo messer Ruggero Zorzi, il terzo messere Antonio Soranzo, il
quarto messere Stefano Mariglono, il quinto messer Pietro Storlado,
il sesto fu messer Giovanni Coppo, il settimo fu messer Tommaso Minotto,
l'ottavo fu messer Marino Zeno e il nono fu messer Pietro Bolani. Questi
nove uomini elessero i quarantacinque, secondo la procedura.
110. Quando quei quarantacinque furono riuniti nel palazzo, fecero quarantacinque
ballotte di cera e in undici di esse misero dei pezzetti di pergamena
con la dicitura «elettore». E le ballotte furono messe nel
cappello e per ciascuno che veniva al cappello il bimbo estrasse una
ballotta, nel modo che vi ho raccontato, finché undici uomini
ebbero le ballotte che dicevano «elettore»; e allora il
vicario li fece giurare, secondo la procedura. E dopo che essi ebbero
giurato davanti a tutti, andarono in una stanza; e sappiate che quegli
undici dovevano eleggere quarantun uomini con non meno di nove voti;
e sappiate che non voglio che il loro nome sia dimenticato: il primo
fu messer Maffio Miliani, il Secondo messer Michele Morosini, il terzo
messer Marino Venier, il quarto rnesser Giovanni Brazzolano, il quinto
messer Giovanni Albini, il sesto messer Simone Giusto, il settimo messer
Marco Aurio, l'ottavo messer Filippo Manolesso, il nono messer Pietro
Salanione, il decimo messer Bartolomeo Dolfin, l'undicesimo messer Marino
Gradenigo, il cavaliere. Quegli undici uomini, come vi ho detto, ne
elessero quarantuno tra quelli di loro preferenza, e quei quarantuno
dovevano eleggere il doge con non meno di venticinque voti. E quando
essi li ebbero eletti, lo fecero sapere al vicario e ai consiglieri
e ai capi dei Quaranta, ed essi li fecero venire al palazzo e li fecero
giurare davanti al Consiglio di eleggere il doge secondo la procedura
che era stata comunicata al popolo nella chiesa di messer san Marco
e che il popolo aveva approvata, giurando ciascuno sulla sua anima di
tenere per doge e per signore quegli che sarebbe stato eletto dai quarantuno,
secondo la procedura che era stata preparata dagli uomini che erano
stati eletti dal Gran Consiglio. Voglio che sappiate i nomi dei quarantuno
che elessero il nobile doge: messer Jacopo Baseggio, messer Martino
Casulo, messer Jacopo Faliero, messer Giovanni Barocci, messer Piero
Sisinulo il maggiore, messer Gabriele Marigiono, messer Marco Bragadin,
messer Niccolò Celsi, messer Pietro Donato, messer Niccolò
Emo, messer Pietro Bello, messer Bartolomeo Malipiero, messer Niccolò
Moro, messer Bartolomeo Butiscalco, messer Marino Masulo, messer Marco
Bondemino, messer Pietro Ciurano, messere Andrea Duodo, messer Marco
Maistrorso, messere Stefano Lugnano, messer Niccolò da Canal,
messere Eustachio Venier, messer Bartolomeo da Muggia, messer Marco
Tron, messer Marino Badoer, messer Niccolò Salamone, messer Michele
Staniario, messer Pietro Vasano, messer Marino Pantani, messer Giuliano
Trevisan, messer Marino Contarini da santa Marina, messer Marino Zeno,
messer Pietro Barbarigo, messer Marino Soranzo, messer Marco Barbo,
messer Ruggero Piermarino, messer Marco Costantini, messer Marco da
Mosto, messer Francesco Barbarnazolo e messer Tommaso Minotto e messer
Jacopo Zorzi. Questi furono i quarantun uomini che elessero il nobile
doge messer Lorenzo Tiepolo: e sappiate che essi appartenevano alla
nobiltà di Venezia e al nobile popolo veneziano. Ancora voglio
che sappiate che in tutte le elezioni che furono fatte non ci fu nessuno
che avesse meno di trentanni: e così fu stabilita la elezione
da parte dei saggi uomini che erano stati eletti per stabilire quella
elezione. Nella maniera che vi ho raccontato messer Lorenzo Tiepolo
fu eletto doge di Venezia dai quarantun uomini che vi ho raccontato,
con non meno di venticinque voti; e tutte le elezioni che furono fatte
avvennero per mezzo di ballotte di cera. Martin da Canal, Le storie di Venezia, 11, 108-110.
(B) Nell'anno 1261 fu podestà
della città di Genova rnessere Jordano di Raalvengo, nobile cittadino
Astense.
In questo anno i Genovesi, memori delle iniquità ad essi fatte
dai Veneti e dai loro complici nella parti d'oltremare, erano intesi
ad offenderli in tutti i modi possibili. E così, per deliberato
consiglio, fu ordinata una legazione solenne che andasse al serenissimo
messere Paleologo imperatore dei Greci, il quale era in guerra con i
Veneti per allearsi con lui contro i Veneti. E a compiere questo negozio
furono inviati i nobili uomini Guillermo Visconti e Guarnerio giudice,
i quali ebbero piena potestà di trattare e di fare confederazione
per conto del comune di Genova contro i sopradetti Veneti. Dunque i
legati si recarono presso il predetto imperatore, il quale li ricevette
onorevolmente e fece loro molte onoranze, e accettato il negozio per
il quale erano andati, anche perché reputava nell'intimo del
cuore i Veneti odiosi, strinse con i predetti ambasciatori patti e alleanza,
in cui, dopo aver concesso ai medesimi, in nome del comune di Genova,
mite immunità, diede loro e donò liberamente la città
di Smirne, in modo che i Genovesi che navigavano verso le parti di Romania
avessero in quella città un porto e vi avessero accesso come
alla lor propria terra.
In quello stesso anno o nel seguente gli ambasciatori ch'erano stati
inviati presso l'imperatore dei Greci, compiute quelle cose delle quali
si è detto, ritornarono a Genova, e con essi l'imperatore mandò
alla città di Genova nunzii di prestigio e ufficiali, per corroborare
i negozii ch'erano stati fatti con i legati; e fatte dai nunzii dell'imperatore
alcune modifiche e promesse, il predetto trattato
[1]
fu firmato e giurato nella città di Genova. Annali Genovesi, FSI 14, pp. 41-42.
[1] È il trattato detto di Ninfeo perchè colà stipulato il 13 marzo 1261
e giurato a Genova il 10 luglio dello stesso anno. Trattato da cui ebbe avvio una fase di prevalenza commerciale genovese
nell'Oriente latino.
(C) Così nell'anno
1284, vedendo i Pisani tutto il danno che gli veniva fatto dai Genovesi,
nell'intento di vendicare la propria offesa, fabbricarono molte navi
e galee e vascelli marini sul fiume Arno. E stabilirono che nessuno
dai venti anni in su e dai sessanta in giù potesse essere esente
dall'andare a combattere. E facevano scorrerie continue sulla costa
genovese, distruggendo e appiccando fuoco, uccidendo, facendo prigionieri
e depredando. E scorazzavano per l'intero territorio che va da Genova
in Provenza, passando per tutte le città, cioè Noli, Albenga
e Savonae anche Ventimiglia, in cerca dei Genovesi per attaccar battaglia
con loro.
E i Genovesi avevano deliberato che nessuno dei loro rimanesse a casa,
dai diciotto anni in su e dai settanta in giù, ma che ognuno
andasse alla guerra con i suoi concittadini; e così incrociavano
sul mare desiderosi di trovare i Pisani.
Finalmente si incontrarono fra capo della Corsica e la Gorgona, e legarono
le navi insieme, secondo l'usanza dei combattenti di mare. Ed ivi si
combatté con tanta strage da una parte e dall'altra che anche
il cielo su di loro pareva aver pietà e far lamento. E molti
furono da una parte e dall'altra i morti; e molte navi furono affondate.
Quando i Pisani stavano già vincendo arrivarono Genovesi con
molte galee e assalirono i Pisani, già ormai stanchi: e tuttavia
si combatté con accanimento da una parte e dall'altra. Alla fine
i Pisani, riconoscendosi inferiori, si arresero ai Genovesi. E i genovesi
uccisero i feriti e risparmiarono gli altri per il carcere. E chi ebbe
la meglio non si può
vantare, perché fu una disgrazia per tutte e due le parti. E
a Genova e a Pisa si levarono da ogni casa tanti pianti e lamenti come
mai in quelle due città si era sentito dal giorno della loro
fondazione ai giorni nostri. E chi senza tristezza e senza molte lacrime
sa riferire, o anche solo immaginare, la rovina e il guasto delle due
fiorenti città dalle quali a noi Italiani veniva ogni sorta di
beni? Si sono vicendevolmente distrutte, solamente per ambizione e smania
di grandezza e vanagloria, perché una voleva soverchiare l'altra,
come se il mare non bastasse ai navigatori. Per questo si è soliti
dire: malamente si vendica di un'offesa – chi va incontro ad un danno
peggiore di prima, con vergogna manifesta.
Queste cose avvennero il 13 di agosto, di domenica, festa dei santi
martiri Ippolito e Cassiano. Non ho voluto scrivere il numero dei prigionieri
e degli uccisi di entrambe le città, perché era riferito
in modo differente. L'arcivescovo di Pisa ne scrisse il numero preciso
in una lettera al vescovo di Bologna, che è suo fratello germano,
ma non ho voluto annotare questo numero perché aspettavo frati
Minori di Genova e di Pisa che me lo dicessero con pia precisione.
E nota che questa battaglia e strage, che avvenne fra Genovesi e Pisani,
era già stata predetta e annunziata molto prima che avvenisse:
nel paese di San Ruffino, in diocesi di Parma, alcune donne che di notte
mondavano il lino videro due grandi stelle scontrarsi in cielo. E molte
volte si traevano indietro e ancora ripetutamente combattevano scontrandosi. Salimbene de Adam, Cronaca, pp. 729-230.
(D) Morto nell'anno del Signore
1297 il predetto padre arcivescovo Genovese [1]
messere, il frate Porchetto Spinola, dell'ordine dei frati Minori, fu
per grazia apostolica eletto arcivescovo nell'anno seguente. Nel tempo
del quale il comune di Genova elesse nel mese di giugno un ammiraglio
generale contro i Veneti messer Lamba d'Oria,esimio uomo; ed esso messere
ammiraglio, fornito degli ordini diligenti dell'officio di Credenza,
uscì da Genova con ottantasette galee nel mese di agosto. Ma
come giunsero, navigando, ad una certa isola che nomasi Gerba, lasciaron
quivi, per consiglio del savi, tre galee. E di là, movendo con
le navi, andarono a Messina, dove certi Catalani ardirono, per invidia
e vergogna dell'onore, della dignità e magnificenza dello stuolo
Genovese, contrastando con le armi, fidando in loro stoltezza. Ma l'astuzia
del Genovesi li debellò sull'istante, e fuggendo essi Catalani
nella città di Messina, i Genovesi li inseguirono, e subito bruciate
col fuoco le porte della città e in essa entrando virilmente
e con potenza, ebbero sui Catalani vittoria. Allora il detto ammiraglio
aspettò col suo stuolo le galee del Veneti per otto giorni, nel
quale spazio però non udì di loro alcun rumore; onde per
il desiderio di por fine alla grande guerra e all'ozio della sua città
in armi, preferì entrare nei confini del Veneti piuttosto che
fare ritorno. E così, oltrepassati i confini di Calabria e di
Apulia, navigò nel golfo dei Veneziani per quattrocento miglia
e pia, non curandosi delle molte città e dei castelli Veneti
che si lasciava addietro, tanto aveva brama di trovar lo stuolo del
nemici. Finché approdò ad una certa isola che si chiama
Curzola, e la distrusse dalle fondamenta. Ma dappoiché i prati
non sempre producono fiori, accadde per avventura che a cagione d'un'immensa
tempesta sei galee del Genovesi non poterono seguire il loro ammiraglio,
sicché questi si rimase con sole settantotto galee. E avevano
i genovesi distrutto Curzola il giorno cinque del settembre; e abbattuta
e dispogliatala, tutta l'armata era discesa in terra e ivi stette a
riposo in tutto quel giorno e nella notte che seguì. Ma venuto
il mattino, e aiutando il Signore, videro di lontano le galee dei Veneti,
ch'erano novantasei di numero, più tre legni di sessanta remi.
Le quali galee dei Veneti, vedute le galee dei Genovesi, posero di subito
le scale a terra, e tutti si gettarono alla riva per prepararsi più
abilmente alla battaglia. Le galee dei Genovesi, dall'altra parte del
mare, erano presso un certo scoglio e bene si apparecchiavano e con
gioia grandissima. E veduti gli altri, ognuno montò allegramente
e con ordine sulle galee e si preparò, celere, a combattere.
Ma i Veneti, quel giorno, rifiutarono la battaglia. Però, giunto
il mattino, che era il giorno di domenica otto di settembre ed era la
festa della Madre di tutti i beni, vennero i Veneziani verso di noi,
e il detto ammiraglio di Genova, avendo seco la vera Croce e levato
alto lo stendardo ed animato ognuno ad amore di patria, si affrettò
contro i Veneti con l'immensa esultanza e il vivace tumultuare dei suoi.
Indi, intrapresa di qua e di là una terribile battaglia e uno
scolamento inaudito, avresti veduto volare per l'aria i dardi siccome
nubi; avresti veduto il valore dei prodi a durissima prova, e le galee
precipitarsi sulle galee, e innumerevoli vite gettate in mare senza
speranza. Che diremmo di più? È una pietà il descrivere.
L'una e l'altra parte fecero valere il proprio diritto virilmente e
con uguale ardire, fin quasi dopo l'ora terza. Ma più tardi,
per divino giudizio, le galee furono catturate e le altre si salvarono
col sussidio della fuga. E in quel combattimento furono presi ottomila
Veneziani, dei quali ottocento lasciati, perché feriti, al monte
Ragusa; i rimanenti, portati prigionieri a Genova. Nel conflitto morirono
di pessima morte settemila di essi Veneti. Di poi il detto messer ammiraglio,
elevate immense grazie a Dio per tanta incredibile e inaudita vittoria,
si ricondusse incolume a Genova insieme col predetto suo onorevole stuolo,
e di si grande trionfo non fece pompa alcuna. Però nell'anno
seguente i genovesi, per preghiera e suasione di messer Matteo del Visconti
di Milano, mossi a misericordia e volendo rendersi grati a Dio di tanto
beneficio, firmarono la pace coi detti Veneziani e tutti i prigionieri
Veneti mandarono in libertà. Nel medesimo anno fecero similmente
la pace coi Pisani e spedirono i loro prigionieri
[2]. Anonimo, La battaglia della Curzola, FSI 85, pp. 109-111. [1] Iacopo da Varagine, la cui
data di morte si colloca nel luglio del 1298.
[2] L'intero passo è un
brano interpolato contenuto in uno dei manoscritti della Cronaca di Genova
di Jacopo da Varagine.
(E) 34. L'ultimo giorno di febbraio
[1].
Fu preso partito che nell'elezione del Maggior Consiglio che si farà
da ora fino alla festa di san Michele e quindi per un altro anno, si
proceda in questo modo. Che tutti coloro che erano stati del Maggior
Consiglio per almeno quattro anni venissero votati ad uno ad uno dal
consiglio dei Quaranta e fosse del Maggior Consiglio chiunque ricevesse
dodici o più pallottole fino alla festa di San Michele e dalla
festa di san Michele per un anno; nello stesso modo essi siano sottoposti
ad approvazione ad uno ad uno il giorno della suddetta festa di san
Michele. E se qualcuno perdesse [il suo posto] in Consiglio per essere
uscito dallo stato possa richiedere ai capi dei Quaranta che si consultino
con i quaranta per decidere chi debba ancora essere o meno del Maggior
Consiglio. E i capi dei Quaranta siano tenuti a porre questa questione
e chi avrà più di dodici pallottole sia del Maggior Consiglio.
E oltre a ciò siano scelti tre elettori che, conformemente al
mandato dato loro dal Doge e dal suo Consiglio, possano proporre altri
che non furono del Maggior Consiglio, e quelli che essi avranno proposto,
siano vagliati ad uno ad uno dai Quaranta e coloro che avranno dodici
pallottole o più siano del Maggior Consiglio. E i predetti tre
elettori facciano parte del Maggior Consiglio fino alla festa di san
Michele e altri tre che saranno eletti il giorno di san Michele restino
in carica per un anno e facciano parte del Maggior Consiglio.
Queste disposizioni non possano essere revocate se non da cinque consiglieri
e da venticinque dei Quaranta e due parti del Maggior Consiglio: e alla
fine dell'anno, quindici giorni prima del suo termine sia discusso dal
Maggior Consiglio se questa disposizione debba durare ancora o meno
e sia stabilito nel modo in cui sarà deciso dal Maggior Consiglio.
E sia aggiunto nel capitolare dei Consiglieri che essi debbano proporre
al Maggior Consiglio questa disposizione, come si è detto, sotto
pena di dieci lire per ciascuno e g1i avvocatori del Comune siano tenuti
ad eseguire detta punizione; e intendendo per ciò che coloro
che sono esclusi dai consigli ordinari non essere del Maggior Consiglio.
E sia ingiunto ai capi della Quaranta che quando dovessero proporre
qualcuno, per il Maggior Consiglio debbono notificare ciò al
Consiglio dei Quaranta tre giorni prima e che non possa essere approvata
la candidatura di alcuno al Maggior Consiglio se non alla presenza di
almeno trenta consiglieri o più dei quaranta, e ciò sia
aggiunto nel capitolare. E se il Consiglio o capitolare è contrario
sia revocata [la candidatura].
43. Il giorno 15 dicembre.
Fu presa disposizione che non possa essere eletto al Consiglio dei Quaranta
nessun altro che non abbia fatto parte, lui stesso o suo padre o ancora
prima un suo avo, del Maggior Consiglio. E se il Consiglio è
contrario, sia rifiutato. Deliberazioni del Maggior Consiglio, 34, 43 (1297, 1298). [1]Le deliberazioni, conservate nel
Liber Pilosus, sono relative agli anni 1297 (34) e 1298 (43).
|