Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
1. Convenzione tra l’abate di Nonantola e il popolo abbaziale
Il documento (pubblicato nell’importante raccolta di L.
A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Milano, 1740,
Dissertazione XXXVI, col. 241) si presenta nella parte iniziale come una
concessione dell’abate Gotescalco e del suo capitolo, e il consueto
preambolo o arenga (“Il Signore onnipotente ecc.”) fa anzi
pensare ad una concessione gratuita, una specie di donazione compiuta
da abate e monaci per la salvezza delle proprie anime. In realtà
si tratta di un patto (convenientia, come viene definito nella parte finale)
tra l’abbazia e il suo “popolo”. S. Silvestro di Nonantola
era il centro di un vero e proprio stato abbaziale, dominato dalla comunità
monastica e dai suoi agenti laici: l’avvocato, il castaldo e gli
altri cui il documento accenna. L’insieme dei lavoratori e dei residenti
laici del castello e della curtis nonantolani costituiva il “popolo”
abbaziale; certamente era un complesso di persone niente affatto uniforme
quanto a stato giuridico e a condizione economica, e nel nostro testo
si adotta una tripartizione di massima – tipicamente medievale –
in “maiores”, “mediocres” e “minores”.
Tale differenziazione affiora in modo marginale e incidentale, nella clausola
della penalità. Nella sua parte sostanziale la fonte ci presenta
il “popolo” di Nonantola come un’entità compatta
e unita, nel momento in cui ottiene la rinunzia dell’abate all’esercizio
arbitrario dei propri diritti signorili e, sul piano patrimoniale, la
sanzione del carattere ereditario delle concessioni fondiarie dell’abbazia
e la facoltà di godere in comune di certi terreni incolti (si veda,
per chiarire questi aspetti del documento, l’Introduzione alla Sezione
III). Che tutto ciò fosse lo sbocco di una transazione, e non una
concessione graziosa del capitolo monastico, risulta anche dal fatto che
il “popolo” era tenuto ad una importante contropartita: l’obbligo
dei lavori per il castello.
In nome del Signore Iddio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Nell’anno
millesimo cinquantesimo ottavo dalla Sua Incarnazione, il giorno avanti
le None di gennaio (4 gennaio), indizione undicesima. Il Signore
onnipotente e nostro Redentore incita sempre le anime nostre, riscattate
da Cristo, al desiderio della salvezza. Pertanto io Gotescalco, umile
abate del monastero di S. Silvestro di Nonantola, e con me il consiglio
dei fratelli monaci nel detto monastero, per amore di Dio e per la salvezza
e l’utile della suddetta chiesa di S. Silvestro e per soccorso delle
anime nostre ritenemmo che fosse cosa buona e utile concedere a tutto
il nostro popolo di Nonantola, cioè agli abitanti attuali e a quelli
futuri, quanto segue.
Né io Gotescalco abate né alcun preposto o avvocato, vicedomino, castaldo,
portonaio o decano [1] né alcun agente o interposta persona mandata da noi o dai suddetti potremo
avere l’ardire o la pretesa di imprigionare, assalire, percuotere, uccidere,
spogliare violentemente dei propri beni o sottoporre al sequestro di
essi o alla distruzione della propria casa – ove ciò non sia prescritto
dalla Legge, e fermi restando i diritti signorili – alcuno degli uomini
che abitano, abiteranno ed hanno od avranno una casa nel castello di
Nonantola ed entro questi confini (segue la descrizione dei confini).
Stabilimmo inoltre di cedere a tutto il suddetto popolo di Nonantola
ogni terra che sia compresa nei confini qui sopra descritti e sia stata
concessa da noi e dai nostri predecessori o venga concessa in futuro
da noi e dai nostri successori. Intendendo con questo che se alcuno
del popolo di Nonantola dovesse morire senza lasciare un figlio né un
nipote o pronipote disceso dal figlio legittimo, succedano allora le
figlie e le nipoti legittime; se poi dovesse mancare un figlio, un nipote
o pronipote ed anche una figlia o nipote, possano succedere al defunto
il suo fratello legittimo o il figlio di questi; se infine mancassero
tutti i parenti sin qui indicati, noi saremo tenuti a concedere i beni
del defunto al parente più prossimo che gli rimanga, ricevendone un
prezzo inferiore a quello che potremmo ricevere da altri. Restino comunque
fermi tutti i diritti consuetudinari, di cui godeva sino ad ora il popolo
di Nonantola.
Ma a noi piacque di concedere anche a tutto il popolo suddetto tutti
i terreni, con le loro selve e paludi e pascoli, che fanno parte attualmente
del nostro dominico [2] e si trovano entro i confini qui appresso descritti (segue la descrizione
dei confini): così che questi terreni siano di comune utilità per
il detto popolo, il quale potrà goderne, farvi pascolare le bestie e
tagliar legna, tutelarne i confini; fermi restando i diritti signorili.
È stabilito che non sarà lecito a me, Gotescalco abate, né ad alcuno
dei miei successori dare, trasferire o concedere ad alcuna persona –
in feudo, precaria, livello od altro modo – i suddetti terreni con le
loro selve, paludi e pascoli, che dovranno invece essere riservati all’utile
comune del popolo suddetto, come si legge qui sopra.
In cambio di tutto ciò il popolo di Nonantola, per sé e per i suoi eredi,
contrae verso di me, Gotescalco abate, e verso i miei successori la
promessa e l’obbligo di circondare di muro e di fossato i tre quarti
del castello nominato sopra – ciascuna persona nella misura che le compete;
riservando a me, Gotescalco abate, e ai miei successori i lavori della
quarta parte, con le due torri, sui lati meridionale e settentrionale.
I lavori dovranno essere portati a termine entro i prossimi sei anni.
E il popolo dovrà porsi fedelmente a sostegno e a difesa del castello
suddetto e della curtis compresa nei confini qui descritti,
contro ogni uomo.
Per tutte queste cose stabiliamo una penalità che abbia valore reciproco:
se alcuno di noi, dei nostri eredi o successori [3] cercherà di venir meno a questo patto e non ne rispetterà tutti i punti
che sopra si leggono, allora tale parte inadempiente dovrà pagare alla
parte rimasta fedele alla convenzione una penalità di cento lire di
buoni denari di Pavia; quanto al popolo, in caso di inosservanza di
ciò che è detto sopra, il responsabile dovrà pagare tre lire di buoni
denari di Pavia ove sia uno dei maggiori, due lire ove sia uno dei medi,
venti soldi ove sia uno dei minori.
[1] Nelle abbazie benedettine, il preposto
era il monaco che dirigeva tutta l’amministrazione temporale e faceva
generalmente le veci dell’abate in questo campo. L’avvocato era un laico
che rappresentava in giudizio gli abati e compiva in loro nome le formalità
solenni di legge, ma spesso svolgeva più ampie funzioni di tutela e
di amministrazione dei beni e dei diritti abbaziali. Questi stessi compiti
di tutela e di amministrazione, la difesa militare dell’abbazia, il
controllo sui contadini, la custodia dei castelli e le attività di polizia
campestre erano poi affidate a una serie di altri funzionari laici,
come quelli che si trovano qui menzionati.
[2] Per il dominico si veda l’Introduzione
alla Sez. III, dove si parla del “sistema curtense”.
[3] Il patto vincola, oltre agli abati e
ai preposti del monastero, anche i loro funzionari laici (gli avvocati,
vicedomini ecc. menzionati nella prima clausola), il cui ufficio era
spesso ereditario: ecco perché si parla qui, oltre che dei “successori”
(di abati e preposti), anche di “eredi”.
|