Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI –
metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione (1/3)
Fino a tutto il secolo XII le famiglie dell’aristocrazia militare e
le maggiori chiese e abbazie dell’Italia centro – settentrionale concentrarono
nelle loro mani vasti possedimenti fondiari. Esisteva contemporaneamente
un numero grandissimo di proprietari piccoli e medi: alcuni di essi,
oltre a coltivare il proprio fondo, lavoravano anche su terra altrui,
altri riuscivano ad assicurarsi la sussistenza lavorando soltanto terreni
di loro proprietà. Molti medi e piccoli proprietari non erano
coltivatori, ma svolgevano attività di tipo artigianale, commerciale,
usurario: per loro la proprietà terriera era esclusivamente una
fonte di rendita e l’integrazione di altre forme di guadagno.
La proprietà fondiaria rappresentava quindi un elemento comune
a situazioni sociali e patrimoniali tra le quali c’erano differenze
enormi. Il fenomeno non può stupire se si tiene presente che
l’acquisto di terra rappresentava la forma di gran lunga più
comune e importante di investimento, e in modo particolare per chi disponesse
di somme di denaro modeste. Per i minori artigiani residenti nelle città,
nei castelli e nei villaggi, e soprattutto per i contadini che fossero
riusciti ad accumulare un conquestum (cfr. Sez. II, doc. n.
6), magari esercitando attività
di tipo amministrativo per conto di proprietari maggiori (cfr. Sez.
II, doc. n. 1), l’acquisto di
un campo o di un poderetto era in genere l’unica opportunità
di impiego dei propri guadagni – o per lo meno l’unica che offrisse
una certa sicurezza; solo nelle città più evolute in senso
capitalistico, e non prima del secolo XIII, divenne possibile investire
risparmi anche modesti in titoli del debito pubblico, che fruttavano
un interesse determinato.
Nell’epoca in cui si venivano organizzando le prime forme di governo
comunale cittadino, il tratto dominante della struttura fondiaria delle
campagne era costituito comunque dalle grandissime proprietà
degli aristocratici e degli enti ecclesiastici, delle quali ci offre
un esempio la donazione di Beatrice e Matilde di Canossa al monastero
mantovano di S. Andrea (doc. n. 3). Le contesse
cedevano una intera curtis, estesa su una superficie di oltre
2360 ettari, che non rappresentava se non una parte dei loro possedimenti.
Nel documento l’indicazione dei confini è estremamente approssimativa,
e così quella delle misure: affermando che la curtis
comprendeva 32 iugeri “tra vigne, terre arative, prati e gerbidi”
e “tremila iugeri di terre boschive” (nel territorio mantovano
1 iugero = ettari 0,78 circa), si voleva forse indicare soltanto che
tra i terreni coltivabili e quelli da dissodare esisteva un rapporto
di uno a cento; quanto alle dimensioni complessive della curtis
donata a S. Andrea, uno studioso moderno ritiene probabile che fossero
molto superiori ai 2360 ettari.
La genericità delle indicazioni topografiche e quantitative è
un dato costante nei documenti privati della prima età comunale
anche quando essi definiscono entità fondiarie molto più
limitate di quanto non fosse la curtis di Beatrice e Matilde.
Nella donazione di Ranieri di Adamo al monastero umbro di S. Maria Val
di Ponte (doc. n. 1) l’autore mostra di ignorare
quali fossero le dimensioni del “manso che detiene Pietro Rucio”:
egli deve promettere infatti di integrare la donazione con la cessione
di altri terreni – indicati, anche questi, in maniera assai generica
– nel caso che l’estensione del manso non raggiunga una determinata
misura. In moltissime fonti manca poi qualunque accenno di tipo quantitativo
(si vedano, per tutti, i due contratti riuniti sotto il n. 5).
L’estrema indeterminatezza e imprecisione dei contratti dei secoli XI
e XII pone una gravissima limitazione alla nostra possibilità
di conoscere la struttura fondiaria del tempo; ma rappresenta anche,
di per sé, un fatto storico che suggerisce alcune considerazioni
obbiettive di carattere generale. La persistenza di determinate strutture
agrarie per lunghi periodi di tempo, la mobilità relativamente
scarsa della terra e il carattere consuetudinario dei rapporti agrari
contribuiscono infatti a spiegare il carattere vago e indeterminato
delle formulazioni degli atti privati. Nei secoli XI-XII si hanno numerosi
esempi di terre e di diritti fondiari posseduti per più generazioni
da un medesimo gruppo familiare; la proprietà delle chiese era
in linea di principio inalienabile e poteva dunque rimanere immutata
anche a grande distanza di tempo; i contadini di determinati villaggi
mantennero per decenni certi diritti consuetudinari al godimento di
boschi e pascoli, mentre le loro proprietà individuali, in molti
casi, potevano essere alienate solo a residenti dello stesso villaggio.
A questi potenti fattori di stabilità del possesso terriero si
aggiungeva il carattere ereditario e consuetudinario dell’insediamento
e del lavoro contadino sulle terre padronali: per tornare su uno dei
documenti citati sopra (n. 1), il “manso
che detiene Pietro Rucio a Lupaccione” era stato detenuto probabilmente
anche dal padre e dal nonno di costui, o doveva comunque costituire
un insieme di terre organizzato da antico tempo come “manso”,
cioè come unità di coltura di una famiglia contadina.
Per tutti questi motivi, le espressioni e le definizioni che a noi sembrano
vaghe o confuse non lo erano probabilmente affatto per i contraenti
di allora: la persistenza di una medesima struttura fondiaria attraverso
più generazioni faceva infatti sì che determinate superfici
agrarie fossero perfettamente identificabili in base a indicazioni topografiche
sommarie o al nome del contadino residente; quanto alla definizione
delle misure, essa non costituiva, il più delle volte, che un
elemento accessorio.
Nel caso di possedimenti amplissimi come la curtis di Beatrice
e Matilde entrano in gioco anche altre considerazioni. A parte il fatto
che l’estensione e la natura dei beni (essenzialmente, si è visto,
una grande distesa di boschi) mai avrebbero consentito definizioni rigorose
di confini e di misure, si deve tenere presente che le cessioni di intere
curtes (molto frequenti sino ai primi decenni del secolo XII)
non costituivano, in effetti, veri e propri trasferimenti di “proprietà
fondiaria” nel senso moderno del termine. Come abbiamo spiegato
nella prima Sezione, la curtis dei secoli XI e XII non era
una grande azienda agraria o un determinato insieme di appezzamenti,
di boschi, di poderi contadini, insomma di superfici agricole o incolte;
era invece una circoscrizione territoriale, sopra la quale si esercitava
il dominio di uno o più signori. La cessione di una curtis
a famiglie aristocratiche o – come è documentato più spesso
– a enti ecclesiastici comportava appunto la cessione del dominio signorile,
della generale potestà sulle cose e soprattutto sulle persone
del territorio curtense.
Più in generale, possiamo affermare che i maggiori possedimenti
fondiari della prima età comunale rappresentavano in primo luogo,
per le grandi famiglie e per gli enti ecclesiastici, la base per l’esercizio
di poteri pubblici (nelle forme che abbiamo descritto nella Sez. I),
e che non erano tanto una fonte di rendita e di intenso sfruttamento
economico quanto uno strumento di potenza politica, utilizzato per stringere
vincoli di subordinazione o di alleanza. Ciò spiega tra l’altro
come il dominio dei laici su intere curtes e villaggi (ville)
andasse disperso, da un lato, attraverso una serie di concessioni feudali,
dall’altro attraverso innumerevoli atti di donazione alle chiese: con
queste ultime le famiglie nobili avevano infatti legami sia di natura
personale (vescovi, canonici, abati e monaci provenivano normalmente
dall’aristocrazia fondiaria della regione in cui sorgevano le loro chiese
e i loro monasteri) che di natura istituzionale (fondate molte volte
da grandi proprietari laici, chiese, cappelle e abbazie rimanevano a
lungo sotto il patronato di questi e dei loro discendenti).
La donazione di terra alle chiese (docc. nn. 1
e 3) era poi la tipica “opera pia”
dei secoli XI e XII, l’atto dal quale i laici si ripromettevano il “rimedio
dell’anima” e manifestazioni tangibili della riconoscenza divina
anche “in questo secolo”: la malattia e l’imminenza della
morte, la partenza per un pellegrinaggio, per la crociata o per qualunque
altro tipo di spedizione armata erano altrettante occasioni perché
le famiglie distraessero una parte delle proprie terre e dei propri
uomini e li cedessero gratuitamente alle chiese.
Per i piccoli proprietari la rinunzia alla terra in favore di un ente
ecclesiastico poteva essere determinata, oltre che dalle motivazioni
religiose, da incentivi di altro tipo. Spesso, dopo aver donato il proprio
fondo, essi ne ricevevano nuovamente il godimento (cfr. doc. n. 4),
con quelle forme di concessione che analizzeremo tra breve; il vantaggio
di privarsi della proprietà per ridursi nella condizione di concessionari
consisteva, talora, nella possibilità di ottenere in godimento
altra terra oltre a quella donata alla chiesa, più spesso nel
semplice fatto di venire inseriti in un complesso aziendale più
vasto ed efficiente, quindi meno vulnerabile in caso di avversità
economiche, e di vedersi garantita una protezione della chiesa nei confronti
dei maggiori proprietari laici e dei loro agenti. Anche se sono molto
meno documentati, rapporti di tale natura si instaurarono anche tra
piccoli proprietari e signori laici, nell’epoca in cui questi ultimi
erano gli unici detentori di una forza armata e i titolari, di diritto
o di fatto, di poteri pubblici nelle campagne.
La terra era dunque uno strumento di potere, un mezzo per procurarsi
la salvezza eterna, un pegno di protezione e di alleanza, una forma
corrente di remunerazione per fedeltà e servigi. Proprio per
l’estrema diffusione del possesso fondiario e per il fatto che la terra
era assolutamente predominante tra le fonti di ricchezza, gli uomini
attingevano ad essa per tutta una serie di usi e di necessità
di ordine non strettamente economico.
Ma queste stesse ragioni, unite alla mancanza di un sistema di credito
ordinato e sicuro, rendevano inevitabile il ricorso alla terra – cioè
la sua liquidazione – per ogni persona che si trovasse ad avere un bisogno
immediato di denaro. Quando le famiglie dell’aristocrazia militare dei
secoli XI e XII versavano in una necessità simile, esse non ricorrevano,
disinteressate com’erano alla gestione economica dei propri beni, a
una intensificazione e razionalizzazione dello sfruttamento del lavoro
contadino, ma semplicemente impegnavano o ponevano in vendita un pezzo
del patrimonio terriero. Medi e piccoli proprietari, per difficoltà
di accesso al mercato dei prodotti agricoli o per le dimensioni eccessivamente
ridotte dei propri fondi, potevano trovarsi nell’impossibilità
di crearsi un risparmio o comunque di far fronte a una necessità
improvvisa di moneta: in tali circostanze anch’essi dovevano quindi
procedere a una liquidazione totale o parziale della terra.
Tale liquidazione assumeva spesso una forma caratteristica di pegno.
Il proprietario stipulava un atto di vendita per una somma determinata,
che gli veniva versata immediatamente; ma si riservava il diritto di
riacquistare la proprietà della terra nel caso che avesse restituito
quella somma, eventualmente maggiorata di interessi, al compratore-creditore
(doc. n. 5a). La presenza o meno di un intermediario,
l’indicazione o meno di un termine per la restituzione del denaro, le
differenti forme in cui gli interessi venivano determinati, davano luogo
a una serie di varianti in questo tipo di contratti; e non mancano esempi
di prestiti su pegno (doc. n. 5b) che si manifestano
in una forma più semplice che non la compravendita con clausola
di riscatto. Due sono comunque i punti sostanziali da afferrare. Se
il creditore non veniva soddisfatto, egli diveniva proprietario del
bene impegnato, indipendentemente dal valore di quest’ultimo (che verisimilmente
era più elevato rispetto alla somma concessa in prestito); inoltre,
sino alla restituzione del debito, il creditore usufruiva in tutto o
in parte della terra che aveva in pegno, riscuoteva cioè i canoni
o raccoglieva i prodotti in luogo del debitore: il prestito su pegno
fondiario implicava dunque sempre, per la sua stessa natura, una percezione
di interessi da parte del creditore, anche quando nel contratto non
fosse indicato esplicitamente un saggio di interesse in termini monetari.
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